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Sul clima diamo i numeri

Lo spreco alimentare

3300 milioni

E' in tonnellate la quantità di CO2 emessa per produrre il cibo che viene buttato negli USA ogni anno

250 Km³

E' la quantità di acqua sprecata ogni anno in USA, l'equivalente si otterrebbe prosciugando il Lago di Ginevra.

16Km

La CO2 emessa per la produzione di un hamburger equivale a un'auto di 1300 Kg che percorre questa distanza.

Lo spreco energetico

44 milioni

Sono le tonnellate di CO2 emesse ogni anno negli USA dagli apparecchi elettronici lasciati in modalità "stand-by".

50

L'energia sprecata dai gadget elettronici lasciati accesi potrebbe alimentare tanti impianti industriali.

19 grammi

L'invio di una mail da 1 Mb emette 19 grammi di Co2 calcolando il consumo del computer e dei server implicati.

In viaggio

13

Sono i viaggi andata e ritorno Parigi/New York che si potrebbero fare con le emissioni prodotte dall'uso di internet in un'azienda di 100 dipendenti in un anno: 13,6 tonnellate.

10 miliardi

Un minuto di ritardo su tutti i voli in partenza dagli Usa consuma 10 miliardi di Kg di Co2. Il traffico aereo mondiale è responsabile del 3,5% di tutte le emissioni di gas serra.

12 chili

E' il peso delle emissioni di Co2 di un viaggio in treno da Firenze a Roma. Lo stesso tragitto percorso in auto "costerebbe" 33,1 Kg, mentre in aereo è di 117,9 Kg.

Il rapporto shock dell'FMI

Le sovvenzioni a favore delle fonti fossili nel 2015 sono state superiori alla spesa sanitaria totale di tutti i governi del mondo. Le cifre shock sono state pubblicate in un rapporto del Fondo Monetario Internazionale: in sostanza, le compagnie che producono combustibili fossili percepiscono aiuti pubblici, diretti e indiretti, per 5.300 miliardi di dollari all'anno, vale a dire il 6,5% del Pil mondiale: circa 10 milioni di dollari al minuto. Tutti soldi sottratti agli investimenti per le energie rinnovabili cui sono sono destinati 120 miliardi di dollari all'anno.

Nel calcolo sono incluse anche le cifre date dai governi alle compagnie al netto delle tasse e i costi non pagati da chi inquina per bruciare carbone, olio e gas, oltre alle esternalità negative, cioè i danni a salute, ambiente e clima che le fossili al momento non pagano, ma scaricano sulla collettività. Secondo il Fmi, il combustibile che riceve le maggiori sovvenzioni, in proporzione ai danni ambientali che produce e per il fatto che nessun Paese applica accise significative sul suo consumo, è il carbone, con poco più della metà del totale. Il petrolio, dato il suo grande uso per i trasporti, ottiene un terzo dei sussidi e il gas il resto.

La Cina è il Paese che fornisce la maggior parte di queste sovvenzioni (2.300 miliardi di dollari), seguita da Usa (700 miliardi), Russia (335 miliardi), India (277 miliardi) e Giappone (157 miliardi). L'Unione europea riconosce invece sussidi per 330 miliardi.

L'impatto fiscale, ambientale e sul welfare di una riforma di questi finanziamenti potrebbe essere enorme: eliminare le sovvenzioni nel 2015 potrebbe aumentare le entrate dei governi di 2,9 miliardi di dollari pari al 3,6% del Pil mondiale, tagliare le emissioni globali di carbonio di oltre il 20%, un passo da gigante nella lotta contro il riscaldamento globale, ma anche ridurre del 55% le morti premature legate all'inquinamento dell'aria salvando così 1,6 milioni di vite ogni anno.

Emergenza

La Terra soffre e gli scienziati puntano il dito contro il modo in cui divoriamo le risorse naturali. Abbiamo imparato la lezione? Secondo l'ultimo rapporto Onu gli impegni che i paesi portano singolarmente alla Cop21 non saranno in grado di contenere entro 2°C il riscaldamento del pianeta. Restano pochi giorni per superare l'impasse e ripensare il futuro.

The day after tomorrow

In questo filmato la Nasa ha fatto una simulazione sulle emissioni di CO2 registrate da due diverse fonti: gli incendi (combustione della biomassa) e l'emissione delle grandi città. L'animazione copre un periodo di cinque giorni nel giugno 2006. Il modello si basa sui dati reali ed è impostato in modo che gli scienziati possano osservare come si comporta il gas serra una volta generato. La grande intensità delle emissioni da biomasse al centro dell'Africa è il risultato degli incendi che vengono accesi stagionalmente per preparare il terreno da coltivare.

Le concentrazioni di monossido di carbonio e di altri gas serra hanno raggiunto un nuovo record nel 2014. Nella primavera del 2014, quando il Co2 risulta più abbondante, le concentrazioni nell'emisfero settentrionale hanno varcato la soglia simbolicamente significativa di 400 ppm e nella primavera 2015, la concentrazione media globale di Co2 ha superato il livello di 400 ppm.

"Il Co2 non si vede. Una minaccia invisibile, ma molto reale che si traduce in temperature globali più alte ed eventi meteorologici estremi più numerosi come ondate di calore e inondazioni, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello del mare e aumento dell'acidità degli oceani", ha ricordato il rapporto dell'Omm che evidenzia anche l'interazione e l'effetto di amplificazione tra i crescenti livelli di Co2 ed vapore acqueo.

Italian warming


Le proiezioni del clima futuro in Italia
fonte: Ispra

I modelli concordano nel prevedere per l'Italia del XXI secolo un riscaldamento piuttosto costante nel tempo: nel corso di un secolo, si prevede un aumento della temperatura media in Italia compreso tra 1.8°C e 3.1°C nello scenario ottimistico e tra 3.5°C e 5.4°C in quello pessimistico.

Il previsto aumento della temperatura media è attribuibile in modo più o meno equivalente sia all'aumento delle temperature massime diurne sia delle temperature minime notturne. Le variazioni previste dai modelli sono piuttosto uniformi su tutto il territorio nazionale; distinguendo tra le diverse stagioni, l'aumento della temperatura più marcato si prevede in estate, con variazioni a fine secolo comprese tra 2.5°C e 3.6°C(scenario ottimistico) e tra 4.2°C e 7.0°C (scenario pessimistico).

Gli indici degli estremi di temperatura mostrano variazioni ugualmente importanti e significative. Tutti i modelli sono concordi nell'indicare una riduzione dei giorni con gelo e un aumento di notti tropicali, giorni estivi e onde di calore, ma con discrepanze talvolta significative sull'entità delle variazioni. Le notti tropicali sono previste in consistente aumento: in circa un secolo, se ne prevede un aumento compreso tra 14 a 35 giorni l'anno (scenario ottimistico) e tra 23 e 59 giorni l'anno (scenario pessimistico). Analogamente, i giorni con gelo sono previsti in consistente diminuzione: con una riduzione media nazionale compresa tra -10 e -27 giorni l'anno nello scenario roseo e tra -39 e -18 giorni l'anno nello scenario più nero. Nel contempo, si prevede un marcato aumento dei giorni estivi (compreso tra 19 e 35 giorni in uno scenario ottimistico e tra 37 e 56 in quello meno roseo) e delle onde di calore.

Per l'analisi delle previsioni del clima in Italia nel corso del XXI secolo: Rapporto ISPRA, "Il clima futuro in Italia: Analisi delle proiezioni dei modelli regionali"

Sott'acqua

Foto: Cosa resterebbe di Venezia (zone grigie) nei casi in cui le temperature aumentassero di 2° e di 4°.

L'innalzamento dei mari è l'effetto potenzialmente più catastrofico del surriscaldamento globale. Lo sa bene, o dovrebbe saperlo, chi abita a Boston, a Tokyo, a Singapore, a Londra o a Venezia. Conoscere di quanto il livello del mare potrebbe innalzarsi e in quanto tempo sarebbe essenziale per tutti i paesi che devono pianificare come proteggersi e adattarsi a questi cambiamenti potenzialmente devastanti. Tutto questo è sul tavolo della Cop21 di Parigi.

8,9 m

È la misura impressionante che esce dall'ultimo recentissimo rapporto di ClimateCentral pubblicato proprio alla vigilia di Cop21 e che fornisce 4 scenari possibili a seconda che la temperatura salga di 4, 3, 2 o 1,5°C. L'aumento di 4°C, scenario che proietta immutato nel tempo il livello di emissioni attuali, porterebbe appunto a un innalzamento medio di 8,9 metri e a sommergere terre abitate attualmente da 470 a 760 milioni di persone. Se l'obiettivo dei 2°C fosse raggiunto l'innalzamento medio sarebbe di 4,7 metri e la popolazione coinvolta sarebbe di 280 milioni di persone, uno scenario comunque drammatico.


Washaway Beach, Washingon. Qui il Pacifico "mangia" decine di metri di spiaggia ogni anno.Video: Uscbsn

In termini assoluti la Cina risulta essere il Paese di gran lunga più a rischio con 145 milioni di persone coinvolte nello scenario più grave. Una cifra che si ridurrebbe drasticamente a 64 milioni se l'obiettivo di Cop21 fosse raggiunto. In termini relativi però sono i piccoli arcipelaghi sparsi negli oceani come le Isole Marshall, le Cayman, Bahamas e le Maldive ad essere i più minacciati con la quasi totalità della popolazione potenzialmente a rischio. Tra i paesi europei una situazione paragonabile è quella dell'Olanda che vedrebbe il 67% della popolazione (oltre 4 milioni di persone) costrette a sfollare.

Il Bel Paese nella top 20

E l'Italia? Il Bel Paese entra nella top 20 dei paesi più a rischio con 5 milioni di persone coinvolte nelle aree potenzialmente sommerse dall'innalzamento di 8,9 metri che si ridurrebbero a 3 milioni se l'obiettivo dei 2°C fosse raggiunto. Tra le città costiere italiane il rapporto prende in considerazione Napoli - una delle città più densamente popolate di tutta l'Europa - con cifre che fanno riflettere. Nello scenario più catastrofico il livello delle acque del Golfo si alzerebbe di 8,3 metri e sarebbero 194mila i napoletani colpiti dal fenomeno.

Dal punto di vista delle grandi megalopoli costiere sono quelle asiatiche ad avere la peggio nelle previsioni: 22 milioni di persone abitano in zone che a Shanghai finirebbero sott'acqua; 12 milioni a Calcutta, 10 a Hong Kong, 7 a Tokyo. Questi numeri agghiaccianti più o meno si dimezzerebbero proporzionalmente nella prospettiva dei 2°C. A New York nello scenario più rassicurante l'acqua arriverebbe al secondo piano dei grattacieli di Manhattan e quasi 2 milioni di persone dovrebbero evacuare. A Londra poco meno di 750 mila abitanti sarebbero afflitti da inondazioni.

Queste cifre riecheggiano nello studio della Banca Mondiale che ha analizzato 136 città costiere a rischio. Il costo che queste città dovrebbero affrontare per prevenire le inondazioni si aggira intorno ai 50 miliardi l'anno. Nella lista delle città più esposte secondo la Banca Mondiale figurano Guangzhou, Mumbay, Calcutta e Napoli. In Italia, anche la Pianura Padana e la fascia costiera veneto-romagnola sarebbero le più minacciate dall'innalzamento, con il Delta del Po che addirittura figura tra le prime 10 zone critiche a livello globale secondo uno studio dell'Environmental Research Letters dell'Istituto Britannico di Fisica.

Va detto che gli autori del rapporto pubblicato da ClimateCentral non si pronunciano sulla rapidità del fenomeno legato alla velocità di scioglimento della calotta glaciale e lo proiettano in un ampio range temporale che va da meno di 200 anni a circa 2000, tuttavia sostengono che questi scenari dipendono strettamente dalle scelte che verranno fatte in questo secolo sulle emissioni di Co2.


Londra nello scenario dell'aumento di 4°C di temperatura / FOTO: ClimateCentral

6 m

Un panel internazionale di ricercatori dell'Università della Florida in uno studio pubblicato a luglio ha comparato l'attuale stato del pianeta con altri momenti “caldi” e ha trovato significative e allarmanti analogie con il Pliocene. Durante questa era geologica, tra i 5 e i 3 milioni di anni fa, ci sono stati periodi interglaciali in cui le temperature medie sulla Terra erano superiori di appena 1 o 2 gradi rispetto alle attuali e soprattutto i livelli di Co2 nell'atmosfera si aggiravano intorno alle 400 parti per milione. Il problema è che stime prudenti ci dicono che il livello medio dei mari allora era più elevato di 6 metri rispetto ai giorni nostri.

Anche in questo caso elemento chiave per capire veramente a cosa andiamo incontro se non correggiamo gli attuali livelli di gas serra è il fattore tempo e la maggiore o minore rapidità con cui il fenomeno dell'innalzamento del livello dei mari si manifesterà. Diversi studi ci dicono che in effetti il processo, ancora lontano da queste misure catastrofiche, è in costante accelerazione ma la previsione di quando e in quanto tempo accadrà rimane un'incognita.

3 m

James Hansen, ex climatologo della NASA ha pubblicato insieme ad altri ricercatori uno studio ben più allarmante proprio per la finestra temporale che propone nella sua ipotesi: il livello delle acque sulla terra si alzerà di almeno 3 metri nei prossimi 50-200 anni. Uno scenario che renderebbe inabitabili metropoli come Shanghai e New York e che porterebbe all'intensificarsi dei fenomeni climatici estremi nelle regioni temperate. Ancora più allarmante se si considera che questa ipotesi tiene comunque in considerazione l'obiettivo dei 2°C.

Obiettivo che, secondo questo studio non sarebbe sufficiente a metterci al riparo da conseguenze disastrose. Quel che preoccupa è che James Hansen non è l'ultimo arrivato tra gli apocalittici. Fu lui, insieme ad altri scienziati della Nasa, che in una storica audizione al Senato degli Stati Uniti nel 1988 lanciò per primo l'allarme sulla connessione tra l'inquinamento e il riscaldamento globale. Lo studio di Hansen sta facendo discutere la comunità scientifica e se alcuni lo criticano per l'eccessiva natura speculativa delle estrapolazioni, in particolare riguardo all'ipotesi del blocco della circolazione delle correnti oceaniche, tutti concordano nel dire che si tratta di un contributo importante e provocatorio di cui è bene che i decisori tengano conto.


Shanghai nello scenario dell'aumento di 4°C di temperatura / FOTO: ClimateCentral

1 m

La stima più rassicurante è contenuta nell'ultimo rapporto dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) (novembre 2014) che prevede entro il 2100 l'innalzamento di circa un metro del livello dei mari secondo uno schema di crescita progressiva e lineare. Questa previsione conferma sostanzialmente i report scientifici precedenti ratificati dall'Onu sul cambiamento climatico. L'IPCC propone due scenari possibili in base al livello di emissioni di gas serra: nello scenario più mite l'innalzamento potrebbe variare tra i 26 e i 55 cm, in quello più grave tra i 45 e gli 82.

Secondo questa ipotesi c'è il 66% di possibilità che l'innalzamento reale si attesti in mezzo a questi due range. Ma guardando più in dettaglio il rapporto dell'IPCC si scopre che 82 cm è in realtà solo l'incremento medio atteso tra il 2081 e il 2100 mentre il picco previsto in questo lasso di tempo è di 98 cm. Un tale innalzamento è sufficiente per mettere a repentaglio la vita delle città costiere e di interi paesi isolani. Le conclusioni dell'IPCC sono state però criticate da molte parti in ambito scientifico da chi le ritiene troppo prudenti, basate su rilievi inadeguati e fondate su un metodo discutibile.

Addio ghiacciai


Scienziati di una base brasiliana in Antartide a lavoro sul fronte di un ghiacciaio / FOTO: Getty

Secondo gli ultimi studi dell'università francese di Grenoble e della Open University britannica il collasso della calotta di ghiaccio antartica avrà conseguenze serie nei prossimi due secoli in termini di innalzamento del livello del mare.

In Groenlandia
Il ghiacciaio Zachariae Isstrom in Groenlandia si sta sciogliendo a una velocità impressionante. Se scomparisse completamente, innalzerebbe il livello dell'acqua in tutto il mondo di almeno mezzo metro. Se tutto il ghiaccio della Groenlandia si sciogliesse, il livello globale dell'acqua si innalzerebbe di sei metri.


Enorme arco di ghiaccio collassa sotto gli occhi dei turisti.Video: Youtube

L'Antartide
Un recente studio della Nasa dimostra che il trend di aumento di superficie del ghiaccio in Antardide non copre le perdite dello scioglimento accelerato dei ghiacci delle regioni artiche. Nell'insieme, il pianeta dal 1979 sta perdendo 35mila chilometri di calotta glaciale all'anno: una superficie pari a quella di Puglia e Calabria messe insieme.

E sui motivi per cui in Antartide la superficie ghiacciata sta aumentando non c'è da stare del tutto tranquilli. Secondo Eric Steig sentito dal Washington Post: “Le nuove formazioni di ghiaccio in Antartide sono collegate al mutamento delle correnti d'aria che a loro volta sarebbero da addebitare ai gas serra e ai livelli di ozono.

La lenta scomparsa del ghiaccio polare sta accelerando il riscaldamento dell'emisfero nord del pianeta vista la capacità delle superficie bianche di riflettere la luce solare e, quindi, di evitare che terre e mari, protette dal bianco dei ghiacci, si riscaldino. Il mare artico si riscalda sempre di più perché la riduzione del 'territorio bianco' consente ai raggi solari di essere assorbiti dal blu dell'acqua e, quindi, a penetrare nelle sue acque. Stessa cosa accade sui monti non più protetti dai manti di ghiaccio. In conclusione diminuendo l'effetto albedo (il flusso termico emesso dalle superfici riflettenti) sul nostro pianeta, la temperatura tende a salire.

Lo sciogli-Italia

Una spia eloquente è rappresentata anche dalla progressiva disgregazione dei nostri ghiacciai. Negli ultimi anni questo fenomeno ha subito un'ulteriore accelerazione rispetto all'allarme rosso lanciato cinque anni fa in uno studio coordinato dal CNR: già nel 1991 i ghiacci del versante piemontese del Gran Paradiso avevano perso la metà della loro area ottocentesca. E ancora peggio era successo sul Monte Rosa, mentre nell'intera Val d'Aosta i ghiacciai si sono ritratti per oltre il 40%.


Secondo i ricercatori ai ghiacciai del Parco nazionale del Gran Paradiso restano ancora solo 20 anni di vita, poi scompariranno.
foto: Ansa

In più di 50 anni la superficie dei ghiacciai italiani ha registrato una perdita del 30%. Secondo l'ultimo aggiornamento del catasto dei ghiacciai italiani, stilato dall'Università di Milano, in 26 anni - dal 1981 a oggi - i ghiacciai delle Alpi centrali hanno perso duemila miliardi di litri, l'equivalente di 800mila piscine olimpiche o quattro volte il lago Trasimeno. Vuol dire che le nostre riserve diminuiscono in modo sensibile: abbiamo meno acqua di fusione a disposizione nel periodo estivo, proprio quando serve di più per mitigare le siccità crescenti.

Dagli anni Sessanta all'inizio del ventunesimo secolo si è registrata una riduzione di superficie del 30% (da 527 a 370 chilometri quadrati), e poi un'ulteriore contrazione del 5% dal 2007 al 2012. La superficie glaciale persa è confrontabile con quella del lago di Como: tutti i ghiacciai si sono rimpiccioliti e 200 sono scomparsi. Un fenomeno legato al susseguirsi di anni record per il caldo: ora il 2015 si avvia a essere il quattordicesimo di fila a battere il primato.

Eventi meteorologici estremi


Un quartiere di New Orleans dopo il passaggio di Katrina, 30 agosto 2005 / FOTO: Getty

Il continuo riscaldamento del pianeta aumenta i rischi di impatti gravi, pervasivi e irreversibili sul sistema climatico: ondate di calore, precipitazioni violente, gravi siccità. La Columbia University ha previsto una forte diminuzione della disponibilità d'acqua nei prossimi anni. Le scarse nevicate durante l'inverno mettono a rischio 97 bacini idrografici in aree che vanno dalla California e Messico al Marocco e al Caucaso, passando per Portogallo, Spagna, Francia meridionale, Italia orientale e Balcani. Si stima che due miliardi di persone nell'emisfero Nord potrebbero non avere più acqua o averne sempre meno durante la stagione calda.

Secondo la Noaa (National oceanic and atmospheric administration), in almeno 9 dei 16 eventi meteorologici mondiali più disastrosi del 2013 c'è stato sicuramente un contributo dei cambiamenti climatici causati dalle attività umane. È stato così per le ondate di calore in Europa, Australia, Cina, per le piogge intense in India e la siccità in California, mentre non sono stati trovati legami con le precipitazioni in Colorado o le tempeste di neve in Sud Dakota. In ogni evento estremo c'è sempre una componente dovuta alla variabilità naturale che però si lega a doppio filo con le modifiche provocate dall'uomo all'equilibrio energetico globale, alterato dalla crescita delle concentrazioni di gas serra.

Katrina, il devastante uragano che nel 2005 ha colpito le coste della Louisiana con venti che hanno soffiato fino a 280 chilometri l'ora è stato uno spartiacque. È da allora infatti che si sono intensificati gli studi per verificare un legame tra gli eventi climatici estremi e l'influenza del global warming. In uno studio del 2013 della Royal Society si legge che il fenomeno del riscaldamento globale incide sui "super tifoni" che si stanno abbattendo in diverse aree del pianeta. Il riscaldamento degli oceani ha fatto aumentare l'evaporazione e di conseguenza il tasso di umidità dell'aria, causando un aumento di intensità delle piogge, le così dette "bombe d'acqua" che, sia pure non con la stessa forza delle aree oceaniche, si sono verificate anche nel Mediterraneo e di cui è tragica testimonianza il tifone Cleopatra che nel 2013 ha investito la costa sarda.

Occorre precisare che le statistiche meteo abbracciano generalmente un arco della durata di 30 anni pertanto non ci sono dati in grado di stabilire con precisione un rapporto di causa-effetto tra eventi climatici estremi e mutamenti climatici. C'è però senz'altro un legame tra global warming e intensità degli eventi. Ad essere aumentato in sostanza non è tanto il loro numero quanto il verificarsi di eventi catastrofici molti intensi, che spesso, come nel caso di Haiyan, si collocano nei gradini più alti della scala Saffir-Simpson con cui si misurano i cicloni tropicali.


FOTO: Getty

Popoli in viaggio

Dal 2008 al 2014, oltre 157 milioni di persone sono state costrette a spostarsi per eventi meteorologici estremi, soprattutto per tempeste e alluvioni che, secondo l'Idmc (Internal Displacement Monitoring Centre), hanno rappresentato l'85% della cause della fuga, seguite dai terremoti. Oggi, secondo l'Idmc, le persone hanno il 60% in più di probabilità di dover abbandonare la propria casa rispetto al 1975. Basti pensare che nel 2008 conflitti e violenze hanno provocato 4,6 milioni di sfollati contro i 20 milioni causati dagli eventi meteorologici estremi. E il 2015 non promette bene. Stando all'Ufficio Onu per il Coordinamento degli affari umanitari, il fenomeno meteorologico El Niño nel Pacifico tropicale minaccia di essere implacabile come nel 1997-98, quando morirono almeno 23 mila persone nei piccoli paesi insulari dell'area. Oltre 4 milioni di abitanti rischiano di restare senza cibo e acqua potabile.

Fonte: I dati sono contenuti nel rapporto "Migrazioni e cambiamento climatico" a cura di Cespi (Centro studi politica internazionale), Focsiv (Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario) e Wwf Italia.

Entro il 2050, inoltre, il clima costringerà oltre 200milioni di persone a spostarsi. I cambiamenti meteo degli ultimi anni rendono sempre più inospitali e povere alcune zone della Terra. Desertificazione o aumento del livello degli oceani mettono a rischio numerose popolazioni soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Un'ondata migratoria senza precedenti, causata non più da disastri naturali improvvisi, ma dal progressivo deteriorarsi delle condizioni ambientali.

Fragile Italia


18 novembre 2013, il ciclone Cleopatra si abbatte sulla Sardegna / FOTO: Ansa

Estati sempre più calde e poche piogge ma di intensità e concentrazione maggiori. Secondo l'Ipcc (Comitato Onu sul clima), sul territorio italiano sono in aumento la frequenza dei giorni con precipitazioni intense in alcune Regioni del Nord e in forte diminuzione il numero dei giorni poco piovosi. Contemporaneamente si assiste ad una tendenza verso periodi di siccità prolungati in particolare nel Nord-ovest e al Sud. Le tendenze, previste dall'Ipcc come conseguenza dei cambiamenti climatici, portano ad un aumento di fenomeni estremi e violenti quali alluvioni e trombe d'aria che già sono diventati cronaca quotidiana provocando danni alle persone e alle infrastrutture. Proprio qui da noi la temperatura sta crescendo più velocemente della media globale: un grado e mezzo in più rispetto all'ultimo trentennio del secolo scorso nel 2014, più del doppio della media globale. E proprio l'anno scorso ha lanciato sonori avvertimenti con alluvioni a Genova, Modena, Senigallia e Chiavari, solo per citare le più rilevanti.


Genova. Il 4 novembre 2011 la città ligure viene colpita da una delle peggiori alluvioni della storia italiana.Video: Youtube

È opportuno precisare che in Italia la frequenza con cui eventi simili si presentano è strettamente legata alla geografia del territorio e al regime pluviometrico del nostro Paese, circondato dalle acque calde del Mar Mediterraneo che, causa global warming, lo sono certamente di più rispetto a due decenni fa. E proprio il Mediterraneo è uno degli ecosistemi che più risentono del surriscaldamento terrestre. Secondo gli scenari elaborati dall'Ipcc, la temperatura dell'area è destinata a registrare un incremento di 2 gradi entro la metà del secolo: il livello dei mari si alzerà dai 6 ai 12 centimetri e le piogge si ridurranno di almeno il 10%, mentre aumenterà la frequenza di eventi estremi, come ondate di caldo o nubifragi.

I dati sono allarmanti: in Italia in 50 anni si contano oltre 2.000 vittime a causa di frane e inondazioni, i feriti hanno oltrepassato quota 2.550 e gli evacuati e senza tetto sono stati 450mila. Sono le cifre raccolte dall'Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Consiglio nazionale delle ricerche (Irpi-Cnr), da cui è emerso l'altro punto debole del nostro territorio: la sua fragilità. Secondo il rapporto Ance/Cresme diffuso nel 2014, poi, l'82% dei Comuni è esposto a rischio idrogeologico e oltre 5 milioni e 700mila sono i cittadini che vivono in un'area di potenziale pericolo: urbanizzazione selvaggia, case e capannoni costruiti troppo vicino a fiumi o in aree ad alto rischio di dissesto idrogeologico. Una scuola su dieci, cioé 6.400 edifici su 64.800 totali, sorge in un'area a rischio frana o alluvione mentre sono 550 le strutture ospedaliere in "zona rossa"; 46.000 le industrie in aree pericolose e se si contano anche uffici, negozi e altre attività si sale a 460.000. Insomma è un cane che si morde la coda: si sono seguiti per troppo tempo modelli di sviluppo sbagliati su un territorio già di per sé vulnerabile ma che adesso lo è ancora di più a causa della tropicalizzazione del clima e del ripetersi di eventi estremi. E infine ci sono i costi: quello dei danni provocati da terremoti, frane e alluvioni, dal 1944 a al 2014 è stato di 242,5 miliardi di euro.



Italia, verde speranza
contro la crisi

È possibile riuscire a fare nel nostro Paese sviluppo e impresa sostenibili dal punto di vista ambientale? Stando all'ultimo rapporto 2105 sulla Green economy curato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile evidentemente sì. Il 27,5% del totale delle imprese italiane produce infatti beni e servizi ad elevata valenza ambientale. E i risultati migliori sono soprattutto nel settore agricolo, di qualità e molto orientato ecologicamente. Qui la percentuale è altissima: parliamo infatti del 40,6% delle imprese agricole. Le performance sono buone anche nell'industria, con un rilevante 35,4%.

C'è poi il settore edilizio, dove ormai tante sono le aziende specializzate in riqualificazioni energetiche o soluzioni per la bioedilizia. Queste raggiungono il 38,8% del totale, una percentuale impensabile fino a pochi anni fa. Numeri positivi anche nei servizi, con un 12,8% di imprese Core Green nel Commercio, negli alberghi, nella ristorazione, un 19,5% per i trasporti, servizi immobiliari, servizi finanziari e altri.

Un altro dato positivo è che, in generale, il 14,5% delle imprese opera adottando standard ambientali elevati sia nei processi produttivi, sia nella progettazione dei prodotti. Di queste il numero più alto è nell'industria con un ottimo 25,8%. Un po' distaccati gli altri settori con un 16,7% delle imprese del commercio, degli alberghi e della ristorazione, un 15,5% dell'agricoltura, un 12,6% dell'edilizia e un 5,7% di altri servizi. I dati, in generale, sono buoni: la somma delle imprese Core green e Go Green, porta infatti un notevolissimo 42%.

La crisi degli ultimi anni ha sicuramente provocato la perdita di posti di lavoro, ma ha anche messo in atto una forte selezione delle imprese. Quelle che hanno superato la crisi ce l'hanno fatta anche perchè sono state spinte al rinnovamento e alla riqualificazione per cercare di recuperare competitività sia sul mercato interno che su quelli esteri, puntando su una maggiore qualità di prodotti e produzioni. Uno di questi driver è stato proprio l'ambiente, la ricerca di produzioni di elevata qualità ecologica e di modelli produttivi e gestionali avanzati dal punto di vista aziendale. A influire anche l'effetto delle scelte, delle politiche, delle misure e degli investimenti per mitigare la crisi climatica.

La green economy

La crisi ambientale rappresenta in qualche modo il tradizionale modello economico basato sullo sfruttamento delle risorse naturali. Viceversa la green economy rappresenta il nuovo modello economico basato su un uso sostenibile delle risorse ed una riduzione drastica degli impatti ambientali e sociali, ai fini di un miglioramento generalizzato della qualità della vita. Un nuovo modello economico tout court che non può e non deve essere considerato semplicemente come la parte "verde" dell'economia.

L'Europa considera la transizione verso un'economia verde come uno dei cambiamenti necessari per assicurare la sostenibilità a lungo termine dell'Europa e dei paesi vicini. Negli Stati Uniti la green economy aiuta il Pil del Paese più industrializzato al mondo. Le energie pulite hanno dato una svolta inaspettata alla produzione e, soprattutto, al lavoro. Nel 2014, secondo i dati della Solar Foundation, si sono registrati 31mila nuovi posti di lavoro nella green economy. Ogni 78 nuovi lavori negli Stati Uniti, uno è stato nel solare, che, alla fine dell'anno scorso, contava 174 mila impiegati, il 21,8% in più del 2013. L'intera industria mineraria del carbone, a confronto, impiega 93mila persone. La Cina ha varato un piano quinquennale che punta al settore energetico da fonti rinnovabili con investimenti nei settori chiave dell'economia. Ad esempio la Cina è oggi il primo produttore mondiale di pale eoliche e pannelli fotovoltaici.

Speranza

A Parigi sul tavolo dei negoziati c'è il futuro del Pianeta. E' l'ultima chance per accordi che vincolino i governi a limitare progressivamente le emissioni di Co2. Ma non basta se non cambia anche il modo di produrre e di consumare delle aziende e di ciascuno di noi. Perchè ci sia più speranza per la Terra.

Che cosa è COP21?

COP sta per Conferenza delle Parti, organo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite (UNFCCC) sui cambiamenti climatici. Quella di Parigi è la ventunesima riunione. La prima si è tenuta a Berlino nel 1995. Lo scopo degli incontri è quello di valutare i progressi compiuti dalle nazioni in materia di cambiamenti climatici e di negoziare accordi e fissare obiettivi per la riduzione delle emissioni di gas serra.

Una delle riunioni più importanti (COP3) si è tenuta a Kyoto, in Giappone, nel 1997 e ha portato all'adozione del Protocollo di Kyoto, il primo accordo che ha vincolato i paesi industrializzati a ridurre le emissioni. La COP21 si concluderà simbolicamente l'11 dicembre 2015, esattamente diciotto anni dopo.

Qual è l'obiettivo della COP21?

Raggiungere un accordo giuridicamente vincolante, cui partecipino tutte le nazioni, per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia critica fissata dall'IPCC a 2°C. Il parametro di riferimento è l'aumento della temperatura globale a partire dalla Rivoluzione Industriale.

Chi ci sarà?

Ci saranno oltre 40.000 delegati provenienti da 195 paesi di tutto il mondo. Il presidente del paese ospitante, Francois Hollande accoglierà molti leader mondiali, tra cui il presidente americano Barack Obama, il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro indiano Narendra Modi, leader dei tre paesi con le maggiori emissioni di CO2.

Sarà un successo se...

Se le nazioni adotteranno all'unanimità un accordo giuridicamente vincolante in grado di portare alla riduzione delle emissioni globali di carbonio e al mantenimento del riscaldamento globale al di sotto della soglia di rischio dei 2°C. In sostanza, ciò che non avvenne a Copenaghen nel 2009 (COP13), dove i limiti ai gas serra furono concordati, ma non fu firmato nessun trattato.

C'è poi la questione dei finanziamenti, quei 100 miliardi l'anno a partire dal 2020 - che i paesi industrializzati hanno promesso di versare ai paesi in via di sviluppo per aiutarli a combattere il cambiamento climatico. Sono molti i punti da chiarire. Quanto sarà dovuto dai governi e quanto dai finanziamenti privati? Quale sarà il ruolo delle imprese?

Perché è importante per noi?

Il riscaldamento climatico porterà ad ondate di calore, siccità e inondazioni sempre più frequenti. Lo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari alzerà il livello dei mari, con ripercussioni sulla vita di centinaia di milioni di abitanti delle coste in tutto il mondo. La scarsità di acqua avrà ripercussioni sulle risorse alimentari. A pagare maggiormente il conto potrebbero essere i paesi più poveri. Impegni vincolanti da parte dei governi per ridurre le emssioni di Co2 non sono più procrastinabili, ma anche le aziende e gli individui devono fare la loro parte.

Parole chiave

Mitigazione

Gli sforzi per ridurre le emissioni di gas serra in modo da limitare il riscaldamento globale entro i 2°C. E' da tempo il cuore del dibattito in tema di cambiamenti climatici ed è tema centrale soprattutto per i paesi poveri o quelli particolarmente esposti (i piccoli Stati isolani per esempio) che mettono l'accento sui costi delle misure immediate di adattamento a una situazione che si fa sempre più critica.

Adattamento

L'adattamento delle comunità ai cambiamenti climatici esistenti secondo i bisogni e le capacità di ogni nazione. Questo obiettivo comprende sia la comprensione dell'impatto sui territori sia le azioni concrete da mettere in pratica localmente (costruzione di argini, sopraelevazione delle strade etc.). Importanti sono anche i capitoli sulle tecnologie più appropriate, le politiche, la progettazione e i meccanismi di finanziamento da implementare.

INDCs

La sigla sta per Intended Nationally Determined Contributions ed è lo strumento che i cosiddetti paesi industrializzati si sono dati a partire da Copenhagen 2009 per fissare i propri impegni per la riduzione delle emissioni di gas serra nel quadro del Protocollo di Kyoto per il periodo post 2020. I cosiddetti Paesi in via di sviluppo presentano i NAMA (Nationally Appropriate Mitigations Actions). I contributi sono così strutturati:

Scopo, cioè l'obiettivo complessivo di un paese e la sua composizione tra obiettivi di Mitigazione e Adattamento.
Ambizione, i contributi devono andare oltre quelli attualmente in vigore, e innescare un meccanismo di competizione virtuosa tra i paesi.
Contenuto, nel merito esistono delle linee guida specifiche riguardo alla Mitigazione mentre il contenuto del capitolo Adattamento è volontario.
Differenziazione, sebbene non vi sia una specifica differenziazione tra Paesi ricchi e Paesi poveri, gli specifici contesti nazionali saranno tenuti in considerazione nel "pesare" i contributi.

Finanziamento

Un obiettivo chiave di Cop 21 è l'implementazione dell'impegno preso a Copenhagen per il finanziamento di 100 miliardi di dollari all'anno da parte dei paesi ricchi, da fonti private e pubbliche, per sostenere i paesi poveri nella lotta contro gli effetti del cambiamento climatico. In generale uno degli obiettivi di Cop 21 è orientare gli attori economici e finanziari verso la transizione a economie più sostenibili.

Agenda

L'Agenda delle soluzioni è l'insieme delle iniziative messe in campo dagli attori non governativi (enti locali, aziende, associazioni, Ong) che dovrebbero essere sussidiarie rispetto agli impegni degli Stati e far crescere la consapevolezza diffusa circa le opportunità sociale e economiche e aiutare a rafforzare così anche le ambizioni individuali riguardo a uno stile di vita più sostenibile e ai comportamenti quotidiani.

Africa


"Per molte popolazioni gli sconvolgimenti climatici sono "una questione di vita o di morte""
Nozipho Mxakato-Diseko, ambasciatrice sudafricana G77 / FOTO:Getty Images

I piani dell'Africa
È stato un avvicinamento difficile, quello dell'Africa al vertice di Parigi. A metà settembre, a poco più di due mesi dall'incontro organizzato dall'Onu sul cambiamento climatico, solo otto paesi a sud del Sahara avevano presentato i loro piani per la riduzione delle emissioni inquinanti. E anche dopo la scadenza fissata per la fine dello stesso mese, non avevano rispettato l'impegno i due più grandi produttori di petrolio del continente: la Nigeria (che è anche uno dei ‘giganti' economici africani) e l'Angola, caso esemplare di come lo sviluppo rapido rischi di compromettere l'ambiente.

Sviluppo e ambiente: un binomio possibile?
Le difficoltà dell'Africa non sono un caso. La maggior parte dei paesi del continente si trova a dover fare i conti con esigenze opposte: quella di non compromettere la crescita economica sperimentata negli ultimi anni, un salto in avanti che, però, si fonda spesso proprio sullo stesso modello di sviluppo praticato per anni dalle nazioni del Nord del mondo e oggi anche dalle potenze emergenti, con conseguenze evidenti sul clima.

Il prezzo del riscaldamento globale
Il continente ha già pagato il prezzo del riscaldamento globale - soprattutto in campo agricolo - negli scorsi decenni. È il continente dove i "peccati ecologici", i crimini contro l'ambiente sono stati commessi sotto gli occhi e nella consapevolezza del mondo, nell'indifferenza generale. Secondo molti osservatori comunque il vero scontro è sempre sulla costituzione di un Fondo verde per il clima da 100 miliardi di dollari l'anno dal 2020, per aiutare i paesi in via di sviluppo a investire nella riduzione delle emissioni di CO2 e per la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. Da questo dipenderà il successo o il fallimento della Conferenza di Parigi.

Qualche numero sull'Africa. Con una popolazione di 1,1 miliardi di persone, di cui circa 388 milioni in condizioni di povertà (Rapporto Banca Mondiale),l'Africa è il secondo continente più grande del mondo con i suoi 30,2 milioni di chilometri quadrati. Gli utenti attivi su Facebook sono circa 100 milioni. È stato calcolato che la popolazione africana deve camminare una media di 3,7 miglia, all'incirca 6 chilometri, per raccogliere l'acqua ogni giorno.

India


"La Terra ha risorse sufficienti per soddisfare le esigenze della gente, ma non potrà mai soddisfarne l'avidità"
Gandhi / FOTO:Getty Images

Le promesse dell'India
L'India, terzo produttore mondiale di gas serra, ha promesso di ridurre le emissioni del 33-35% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005 e lo farà innanzitutto aumentando fino al 40% la quota di elettricità generata da fonti diverse dai combustibili fossili come carbone e gas. Le fonti rinnovabili rappresentano oggi circa il 30% delle risorse equamente ripartito tra energia solare ed eolica e grandi centrali idroelettriche e nucleari."Ogni nostra azione sarà più pulita di quanto fosse prima", ha detto il ministro indiano dell'Ambiente Prakash Javadekar, assicurando che tradizioni e cultura indiani sono già "un tutt'uno con la natura" e ha rinnovato l'impegno del Paese nella riforestazione, con cui si spera di poter assorbire fino a 3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica entro il 2030.

Il risvolto della medaglia
Nonostante una forte spinta verso le energie pulite, è prevista un'espansione delle centrali a carbone, che attualmente rappresentano circa il 60% della potenza energetica, necessaria per soddisfare il fabbisogno energetico del Paese. L'economia indiana è in forte espansione: secondo il governo, “più della metà dell'India è ancora da costruire, da qui al 2030”. Il tasso delle emissioni non smetterà dunque di crescere, ma aumenterà di pari passo con la crescita dell'economia anche se a un tasso inferiore a quello di adesso. Se è vero che l'India è stata responsabile di emissioni record, lo è di meno, sostiene il governo, rispetto a quanto hanno fatto molti Paesi sviluppati dalla rivoluzione industriale in poi. E sono principalmente loro a doversi far carico della responsabilità morale dello stato attuale del Pianeta. Per esempio fornendo finanziamenti e tecnologie ai paesi poveri.

Miniera di carbone in India / FOTO:Getty Images

Qualche numero sull'India di oggi. Con circa 1,2 miliardi di persone, di cui 363 milioni in condizioni di povertà, l'India è il terzo paese al mondo per Prodotto Interno Lordo, dopo Usa e Cina. Conta 130 milioni di internauti su Facebook, la seconda comunità più grande dopo gli Stati Uniti per la società di Palo Alto. Circa 300 milioni di abitanti sono collegati alla Rete, ma il resto della popolazione, circa un miliardo, ne è escluso. Ben 13 della 30 città più inquinanti del mondo si trovano in India.

Ue

Ridurre le emissioni di gas serra del 40% entro il 2030, arrivare al 40% di efficienza energetica, arrivare a un obiettivo del 30% per le energie rinnovabili, aumentare l'impegno finanziario per le politiche climatiche: questa la tabella di marcia che il Parlamento europeo ha disegnato in vista della COP21 di Parigi. Lo scorso 15 ottobre viene approvato con con 434 voti favorevoli, 96 contrari e 52 astenuti il mandato negoziale del Parlamento europeo in vista della Conferenza internazionale sul clima di Parigi.

La risoluzione invita a un rilancio generale della politica dell'Unione sul clima, in linea con l'impegno di ridurre dell'80-95% le sue emissioni di gas serra entro il 2050, rispetto ai livelli del 1990. Per i deputati, il Protocollo 2015 dovrebbe essere giuridicamente vincolante e puntare a eliminare progressivamente le emissioni globali di carbonio entro il 2050 o poco oltre, in modo da mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C.

Un'acciaieria a Hayange in Francia / FOTO:Getty Images

Altra richiesta è quella di aumentare gli stanziamenti per il clima: il Parlamento invita infatti l'Unione e i suoi Stati a “concordare una tabella di marcia per incrementare i finanziamenti, così da raggiungere l'obiettivo complessivo di 100 miliardi di dollari l'anno entro il 2020”. Qualche numero sull'Europa di oggi: sui 742,5 milioni di abitanti (dato del 2013) circa 123 milioni a rischio povertà (dati Oxfam). Le città più inquinanti sono: Lussemburgo, Lisbona, Roma, Madrid, Glasgow, Dublino, Praga, Milano, Barcellona, Bruxelles, Lione, Dusseldorf, Graz, Amsterdam, Stoccarda, Parigi, Londra, Helsinki, Berlino, Stoccolma, Vienna, Copenhagen, Zurigo (fonte Bund.net)

Cina / USA


"Se vogliamo prevenire gli effetti peggiori dei cambiamenti climatici prima che sia troppo tardi, bisogna agire adesso"
Barack Obama, presidente Usa / FOTO:Getty Images

L'impegno degli Usa, con un taglio del 26-28% delle emissioni al 2025 rispetto al 2005, rappresenta un cambio di rotta rispetto al passato. Il presidente Obama, pur con una maggioranza repubblicana al Congresso e al Senato, ha annunciato che “gli Stati Uniti hanno un ruolo di leadership sul tema dei cambiamenti climatici" e si sta muovendo per porre vincoli alle emissioni delle centrali elettriche e ai consumi delle automobili.

Grazie alla politica di Obama gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo molto incisivo sulla scena internazionale, raggiungendo l'accordo con la Cina, le cui scelte sono decisive, visto che le emissioni superano quelle degli Usa e dell'Europa messe insieme. Usa e Cina hanno trovato un accordo nell'incontro di fine settembre tra il presidente americano e il presidente cinese Xi Jinping, dopo la storica iniziativa congiunta annunciata a Pechino lo scorso anno, che Obama spera inneschi uno sforzo multilaterale. Pechino sostanzialmente si impegna per il 2017 su un programma nazionale che limiterà e metterà un prezzo alle emissioni di gas serra, che rappresenta un sostanziale passo in avanti per ridurre l'inquinamento da parte delle maggiori industrie.

La Cina si è impegnata anche ad aumentare la percentuale di energia prodotta non da combustibili fossili al 20% del totale del proprio mix energetico entro il 2030, più che raddoppiando i valori dello scorso anno, quando era attorno al 10%. In base al nuovo accordo, la Cina dovrà sviluppare mille gigawatt di energia pulita da fonti rinnovabili e dal nucleare, entrambi settori in forte espansione nel Paese. Cina e Stati Uniti sono responsabili della produzione di circa il 45% delle emissioni di CO2 prodotte al mondo. Per la prima volta, lo scorso anno, la Cina aveva superato l'Unione Europea nel volume di emissioni pro-capite, secondo i calcoli del Global Carbon Project, equipe di scienziati internazionali fondata nel 2001.

Ambizione

E' la parola che circola di più nei documenti e negli interventi di tutti gli attori in gioco alla Cop21. Sono abbastanza ambiziosi gli impegni presi fino a questo momento dai governi per raggiungere l'obiettivo dei 2°C? I numeri per ora parlano chiaro: no. Ci vuole più ambizione.

2°C

Limitare entro i 2 gradi centigradi di aumento della temperatura terrestre entro il 2100 attraverso un accordo che dovrebbe entrare in vigore nel 2020, alla scadenza del protocollo di Kyoto. E' questo l'obiettivo ambizioso che si sono date le Nazioni Unite per la COP21 di Parigi.

In base ai dati oggi a disposizione, gli impegni (i cosiddetti Intended Nationally Determined Contributions, INDCs) presi singolarmente dagli Stati che hanno accettato il principio di abbattere le emissioni di CO2 non saranno sufficienti a raggiungere l'obiettivo dei 2°C e la temperatura, alla data di scadenza, aumenterà di 2,7°C.


"Non è abbastanza, ma è già molto meglio dei 4-5 gradi stimati nel caso in cui non si facesse nulla"
Christiana Figueres, responsabile ONU / FOTO:Getty Images

Gli impegni nazionali presi fino a questo momento sono dunque appena sufficienti a sventare la catastrofe. Ciò che è cambiato dall'11 dicembre 1997 quando fu firmato il protocollo di Kyoto è il consenso pressoché unanime intorno al fatto che le attività umane siano determinanti nei cambiamenti climatici. Molto, quasi tutto, è ancora da fare. Infatti, secondo i parametri attuali, se la comunità internazionale non intervenisse per abbattere le emissioni, la temperatura del pianeta alla fine del secolo aumenterebbe di 4/5°C.

Dalla brace alla padella,
ma non basta

Tuttavia, i Paesi più vulnerabili alle conseguenze dell'aumento della temperatura - innalzamento delle acque, desertificazione - lanciano l'allarme sostenendo che anche l'obiettivo dei 2°C non sarebbe sufficiente a evitare conseguenze disastrose.


"Gli impegni presi dai governi, per quanto in certi casi significativi, sono un passo nella direzione giusta ma per ora ci portano solo dalla catastrofe dei 4° centigradi al disastro dei 3."
Tim Gore, responsabile delle politiche per l'alimentazione e il clima di Oxfam / FOTO:Oxfam

Per questo, fatta salva l'opposizione dei Paesi produttori di petrolio, le Nazioni Unite, alcuni governi e tutte le Ong ambientaliste spingono affinchè dalla COP21 di Parigi esca un accordo vincolante ancora più ambizioso affinché siano fatti ulteriori sforzi per arrivare più rapidamente a una riduzione molto più consistente dei gas a effetto serra



La rivoluzione ecologica di
Papa Francesco


"La terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia"
Papa Francesco / FOTO:Getty Images

All'ultima assemblea generale dell'Onu Papa Francesco ha usato parole sferzanti per lanciare il suo appello per il clima. "Il mondo chiede con forza a tutti i governanti una volontà effettiva, pratica, costante, fatta di passi concreti e di misure immediate, per preservare e migliorare l'ambiente naturale e vincere quanto prima il fenomeno dell'esclusione sociale ed economica", ha detto, ripetendo ciò che aveva scritto nell'Enciclica Laudato sii. "I danni alla natura sono danni all'umanità" e sono i più poveri a soffrirne maggiormente, perché "scartati dalla società" e "obbligati a vivere di scarti", ha ribadito davanti ai grandi della Terra.

Il debito ecologico
Riscaldamento globale, scioglimento dei ghiacci, perdita della biodiversità avranno un impatto ancora più pesante nei prossimi decenni sui Paesi in via di sviluppo. Secondo il Papa, esiste un "debito ecologico" tra il Nord e il Sud: «Il riscaldamento causato dall'enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra». I Paesi sviluppati devono contribuire a «risolvere questo debito» ecologico, non solo limitando in modo importante il consumo di energia non rinnovabile, ma soprattutto aiutando e sostenendo i Paesi più poveri nell'adozione di nuovi modelli di riduzione dell'impatto ambientale.

Responsabilità morale
Nell'Enciclica Laudato sii, Papa Bergoglio si era appellato alla responsabilità morale degli uomini che - con i loro comportamenti - influiscono su ambiente, inquinamento, riscaldamento globale e li aveva invitati a una conversione ecologica: inquinare, contribuire al riscaldamento globale, alla deforestazione è peccato. La natura è talmente compenetrata nella vita dell'uomo che una crisi dell'ecosistema è una crisi sociale: vanno affrontate insieme combattendo su più fronti a partire dall'educazione ecologica. In primis quella dei governi, troppo spesso infatti, dice il Papa, «i negoziati internazionali non possono avanzare in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale». E questa non è dimostrazione di grandezza politica che significa invece operare pensando al bene comune a lungo termine». La ricetta per una "rivoluzione ecologica"? Sobrietà e solidarietà anche in uno stile di vita più sano e green.

Antagonisti,
i giochi del clima

Al grido "Cambiamo il sistema, non il clima", la galassia delle organizzazioni ambientaliste antagoniste eredi di quello che negli anni '90 fu il movimento "No Global", guidate dalle filiazioni francesi di Attac e 350.org, ha espresso le posizioni più scettiche e critiche rispetto agli obiettivi perseguiti da Cop21. Dopo i sanguinosi attentati che hanno sconvolto Parigi, il governo francese ha voluto confermare che la Conferenza si terrà regolarmente ma tutto il piano logistico e per la sicurezza è stato rivisto e questo avrà un impatto sulle manifestazioni programmate durante il periodo della Cop21.

L'evento centrale di questa mobilitazione avrebbe dovuto essere la marcia globale per il clima del 29 novembre ma è stata annullata per motivi di sicurezza così come tutte le iniziative collaterali previste a margine della Conferenza per il coinvolgimento della società civile: concerti, manifestazioni culturali e sportive e i dibattiti che vedevano protagoniste le Ong ambientaliste.

Per quanto riguarda le organizzazioni antagoniste clou della mobilitazione, annunciata come non violenta ma all'insegna della disobbedienza saranno i "Climate games" il cui scopo esplicito è chiamare all'azione durante i giorni del summit per "sabotare i lavori del Mesh – a Parigi, nel proprio territorio e online". Cos'è il "Mesh"? Il "Mesh" è il soprannome dato da questa multinazionale della disobbedienza ai vari volti di quello che definiscono come potere delle corporazioni: i politici fautori dell'austerità, le industrie petrolifere, i fautori di false soluzioni e i "greenwasher", le aziende che si mostrano in pubblico sensibili alla tutela ambientale.


Naomi Klein / FOTO: Getty Images

Per questa costellazione di gruppi antagonisti il vertice non affronta alla radice il problema del cambiamento climatico che non è nella correzione di alcuni parametri di emissione di gas serra ma nella struttura del modello di sviluppo capitalista. Per questo l'obiettivo della mobilitazione è di "agire contro la manipolazione di questi negoziati da parte delle compagnie multinazionali". La "Marcia globale" annullata a Parigi si terrà regolarmente in altre capitali europee e del mondo. In Italia è nata a tale scopo una "Coalizione per il clima" e la manifestazione si svolgerà a Roma.

Oxfam: senza equità e cooperazione non c'è ambizione

Oxfam, una delle più importanti organizzazioni internazionali specializzata in aiuti umanitari e programmi di locali di sviluppo, pone l'accento su due capitoli che saranno centrali nella negoziazione di Parigi: l'equità e la cooperazione. In un documento-manifesto presentato alla fine di ottobre insieme ad altre 17 grandi Ong mondiali e intitolato "Fair Shares: A Civil Society Equity Review of INDCs", Oxfam sottolinea come il principio di equità sia centrale nei documenti dell'Onu sul clima ma sia stato fino ad oggi disatteso dai governi che hanno fissato i propri obiettivi su una base puramente nazionale.

Dunque il "meccanismo di ambizione" che innalza progressivamente e rapidamente l'asticella degli obiettivi di riduzione delle emissioni deve andare di pari passo con l'attenzione all'equità e alla cooperazione dove i paesi cosiddetti sviluppati devono farsi carico della giusta fetta di responsabilità anche finanziaria in materia di adattamento e di attenuazione, fornendo loro dei finanziamenti aggiuntivi ed accesso alla tecnologia.

A metà ottobre Lies Craeynest, responsabile del settore clima di Oxfam, aveva accolto positivamente l'impegno del Parlamento europeo che sostiene l'utilizzo di parte dei fondi provenienti dai paesi più inquinanti per gli obiettivi di adattamento e mitigazione degli effetti del cambiamento climatico sui paesi "in via di sviluppo".

Tim Gore, responsabile della politica per l'alimentazione e il clima di Oxfam infine sintetizza così: "Gli impegni presi dai governi, per quanto in certi casi significativi, sono un passo nella direzione giusta ma per ora ci portano solo dalla catastrofe dei 4° centigradi al disastro dei 3."

Greenpeace,
non è il momento di
stappare lo champagne

La risposta di Greenpeace al rapporto dell'Onu che sintetizza gli impegni nazionali sulla riduzione delle emissioni serra in vista di Cop 21 è stata espressa da Martin Kaiser, responsabile delle politiche internazionali sul clima dell'organizzazione: "Si tratta di impegni insufficienti che potranno forse limitare l'incremento della temperatura terrestre entro i 3° centigradi ma siamo lontani dall'obiettivo dei 2° e praticamente su valori doppi rispetto a quello che sarebbe necessario per mettere in sicurezza i paesi più a rischio nel prossimo futuro."

Per questo anche Greenpeace auspica che a Parigi i governi trovino un accordo per istituire un meccanismo di incremento delle azioni necessarie ad abbassare progressivamente e senza ulteriori ritardi le emissioni. Greenpeace mette l'accento sulla necessità che vengano prese decisioni senza ritorno rispetto all'abbandono dei combustibili fossili e alla riconversione alle energie pulite e rinnovabili. In questo senso Greenpeace sottolinea la posizione di leadership che può assumere la Cina.


François Hollande e Xi Jinping / FOTO: Getty Images

A differenza di quanto accaduto a Copenhagen sei anni fa, la Cina si trova a essere capofila del cambiamento a partire dal suo menu energetico. Secondo Li Shuo, di Greenpeace China, il governo di Pechino nei prossimi anni ridurrà le emissioni più rapidamente di quanto offerto nei documenti preparatori, vista anche la velocità con cui sta dismettendo gli impianti a carbone convertendosi alle rinnovabili: "E' necessario che da Parigi venga una spinta all'accelerazione per tutti i paesi".

Questo ruolo sembra confermato dalla dichiarazione congiunta franco-cinese del 2 novembre in cui Francois Hollande e Xi Jinping fanno un passo avanti sia sul capitolo degli obiettivi a lungo termine sia su quello del cosiddetto "meccanismo di ambizione". Greenpeace da questo punto di vista si mostra moderatamente ottimista anche se perchè Parigi possa considerarsi un successo occore uno "sforzo molto più grande".

Jean-Francois Julliard, direttore esecutivo di Greenpeace Francia, la mette giù così: "Non è proprio il momento per lo champagne." Quello di cui ha bisogno il pianeta è la visione di un mondo la cui dieta energetica sia al 100% fondata sulle rinnovabili entro la metà di questo secolo e l'implementazione immediata di un accordo per l'incremento ogni cinque anni del meccanismo di ambizione.

WWF,
accelerare l'ambizione

Con la pubblicazione degli impegni presi dalle nazioni in vista di Cop 21 è stato messo nero su bianco che esiste un gap da colmare tra i tagli annunciati alle emissioni di gas serra e quelli che sarebbero necessari per raggiungere l'obiettivo di limitare il riscaldamento globale sotto i 2° centigradi. Secondo il WWF da Parigi dovrebbe emergere un accordo che spinge i paesi verso obiettivi e impegni via via più ambiziosi e stringenti nel tempo. Questi obiettivi devo al contempo essere equi e corrispondere alle teorie scientifiche che ormai sono pressoché unanimi nell'identificare l'impatto umano nei cambiamenti climatici e nel fornire anche una roadmap: picco delle emissioni entro il 2020 e successivo, rapido decremento. I documenti in entrata di Cop 21 non rispondono a queste previsioni.

Tasneem Essop, capo delegazione del WWF nel UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), pur considerando questi documenti l'inizio di una presa di consapevolezza della necessità di agire nella giusta direzione auspica che i leader trovino l'accordo intorno a una sorta di “meccanismo di ambizione” che porti i singoli paesi a cooperare per l'incremento progressivo dell'azione contro il cambiamento climatico”. Ambizione e cooperazione sono dunque le parole chiave per il nuovo “regime climatico” auspicato dal WWF, scandito in cicli quinquennali di piani progressivamente più ambiziosi. La proposta del WWF si sostanzia in un piano in tre punti:


Tasneem Essop, capo delegazione del WWF nel UNFCCC / FOTO:Social PreCop/YouTube

Cooperazione: un accordo tra le nazioni per andare oltre gli impegni presentati per tagliare almeno della metà le emissioni dopo il 2020 e entro il 2025. Da questo punto di vista sarebbe necessario un impegno dei paesi ricchi per sostenere anche finanziariamente quelli con economie di transizione per raggiungere questi ulteriori obiettivi.
Leaders riconosciuti: da Parigi dovrebbe uscire un'agenda di azione permanente guidata da leader nazionali di primo piano che monitorino e incentivino il raggiungimento degli obiettivi sia da parte degli Stati sia degli attori economici.
Rilancio e sostegno della base scientifica e tecnologica: secondo il WWF, da Parigi dovrebbe venire un rafforzamento del link tra l'analisi scientifica, i processi teconologici e l'agenda degli impegni finanziari anche attraverso il Green Climate Fund.

In Italia il WWF ha lanciato la campagna "Ora polare" per sensibilizzare e aumentare la consapevolezza del legame tra i piccoli gesti quotidiani e l'impatto che queste abitudini hanno sul consumo energetico e di conseguenza sul clima.

Come rispondono le
associazioni ambientaliste
a Cop21

Il fronte delle organizzazioni ambientaliste che si propongono di interloquire con i governi e intervenire nel dibattito sull'esito di Cop 21 è ampio e variegato ma trova un terreno comune di analisi critica in alcuni punti: l'insufficienza degli impegni annunciati, la necessità di incardinare un meccanismo che acceleri il processo di riduzione delle emissioni serra nei prossimi anni, il superamento dell'ottica nazionale con un approccio che si fondi sulla cooperazione secondo il principio di equità. Nelle slide che seguono vi proponiamo le risposte di alcune delle principale Ong impegnate nella campagna sul cambiamento climatico

La mobilitazione ambientalista

Sicurezza

Gli attentati di Parigi hanno indotto il governo francese a rivedere il piano della sicurezza e la logistica di Cop21. Manuel Valls ha annunciato l'annullamento delle iniziative collaterali, sia quelle culturali sia quelle ricreative (concerti e spettacoli) ma anche la cancellazione degli spazi di dibattito che avrebbero dovuto coinvolgere la società civile e le Ong ambientaliste. Come ha detto lo stesso François Hollande, le forze di sicurezza dedicate alle delegazioni dovranno essere dirottate per presidiare le strade.



"Adesso è ancora più importante che le persone marcino il 29 anche per quelle che a Parigi non potranno farlo e dimostrare che siamo ancora più determinati ad affrontare le sfide che attendono l'umanità con speranza e non con pauraEmma Ruby-Sachs, vice direttrice di Avaaz

La Prefettura di Pargi ha tuttavia vietato le manifestazioni previste per il 29 novembre all'apertura del summit e per il 12 dicembre informando che potrà essere garantita la sicurezza solo per gli eventi previsti in luoghi chiusi. Da questo punto di vista le organizzazioni ambientaliste hanno accolto con rammarico la decisione e hanno però confermato che i 2173 eventi preannunciati nel mondo durante la Conferenza, incluse 50 marce, sono confermati come lo sono molti appuntamenti organizzati a Parigi nelle due settimane del vertice tra cui il concerto "Pathway to Paris" con Thom Yorke, Patti Smith, Flea e altri.

Le delegazioni governative in arrivo a Parigi saranno trasferite direttamente dall'aeroporto a Le Bourget e potranno muoversi solo nella zona blu dove sarà garantito il massimo livello di sicurezza. I 40.000 delegati provenienti da 195 paesi avranno l'agibilità di altre due aree: la Galerie des solutions, spazio dedicato alle aziende della "green economy" e l'area "Générations climat" dedicata alla società civile e dove sono attese circa 20mila presenze.

Cosa ne sappiamo di Cop21?

In un sondaggio pubblicato a un mese dall'avvio di Cop 21 commissionato da Legambiente a Lorien Consulting emerge una realtà sconfortante circa la conoscenza dell'appuntamento parigino da parte degli italiani: solo il 29% del campione rappresentativo consultato sa cosa sia Cop 21 anche se, paradossalmente il 72% degli intervistati ha fiducia che possa essere efficace nei confronti delle politiche ambientali dei governi e il 70% considera che possa avere un impatto positivo sui comportamenti degli individui.

Il superamento di questo deficit di informazione, a cui questo webdoc di Rainews cerca di dare un contributo, è il primo passo per la comprensione della posta in gioco a Parigi dal 29 novembre prossimi e il coinvolgimento consapevole dell'opinione pubblica in questo importante appuntamento e sulle decisioni che verranno prese. Rispetto a queste è importante conoscere anche le risposte e la mobilitazione delle associazioni ambientaliste a livello locale e globale.

Equità

L'equità nel perseguire l'abbattimento delle emissioni sarà tema centrale della Cop21. Sul tavolo c'è il superamento degli egoismi nazionali e la condivisione dei costi di mitigazione e adattamento attraverso una cooperazione effettiva che trasferisca fondi e tecnologie adeguati ai paesi più poveri. Ci vuole più equità.

A chi vanno i fondi per l'ambiente?

Le minacce globali all'ambiente colpiscono i poveri in maniera sproporzionata. Quasi un miliardo di famiglie, in particolare quelle contadine, basano il loro sostentamento direttamente sulle risorse della natura. La desertificazione e la perdita della biodiversità procedono rapidamente in molti Paesi. Le emissioni di gas inquinanti dovute alle attività umane alterano l'atmosfera in modo tale da incidere sul clima. L'innalzamento del livello del mare potrebbe inoltre allontanare milioni di persone dalle depressioni costiere dei delta e dalle piccole isole. Si prevede anche che i cambiamenti del clima possano aumentare il rischio di alcuni gravi eventi atmosferici come cicloni, siccità e inondazioni.

A Copenaghen nel 2009, i paesi ricchi si sono impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari (88 miliardi di euro) all'anno entro il 2020 per aiutare i paesi con economie di transizione ad affrontare i disagi dei mutamenti del clima. Finora ne sono stati versati circa la metà. Fa discutere però l'uso di queste risorse. Secondo l'Ocse, la parte dei finanziamenti concessi alle azioni di lotta contro gli impatti del riscaldamento climatico (il cosiddetto "adattamento": prevenire e gestire i rischi) rimane inchiodata al 16% nel 2013-2014, mentre le politiche destinate a ridurre le emissioni di gas a effetto serra ("la mitigazione") assorbono il 77% dei finanziamenti. Lo squilibrio non soddisfa i paesi più fragili che già soffrono le conseguenze del cambio climatico. Tra l'altro non c'è chiarezza se questi soldi sono contributi a fondo perduto o prestiti.

A Lima le banche di sviluppo hanno promesso fondi supplementari pari a 15 miliardi di euro all'anno da qui al 2020 a cui si sommano 61,8 miliardi che i paesi sviluppati hanno erogato nel 2014. A questi si aggiungono i 10 miliardi di dollari del Fondo Verde, il meccanismo finanziario creato durante i negoziati sul clima di Cancun del 2010 per promuovere azioni di adattamento e di abbattimento delle emissioni di gas serra nei Paesi in via di sviluppo, i contributi pubblici aggiuntivi annunciati da alcuni paesi sviluppati (tra cui Francia, Germania, Regno Unito) per un totale complessivo di cinque miliardi di dollari. L'Ocse inoltre nel suo Economic outlook suggerisce che "una presa di posizione politica efficace sarebbe quella di creare un ambiente più favorevole agli investimenti, in grado di sostenere la crescita e il commercio, così come capace di metterci su un percorso verso miglioramenti dello stato del clima che sono urgentemente necessari". L'attuale situazione di ripresa economica ancora incerta "non è una scusa per l'inazione", sottolinea quindi l'Ocse.

Chi inquina paga


"Il momento per una carbon tax mondiale è ora"
Christine Lagarde, FMI/ FOTO:Getty Images

Per attuare le disposizioni del Protocollo di Kyoto, nel 2005 l'Unione europea ha deciso di adottare un sistema che regola lo scambio di quote di emissioni di Co2 tra le imprese dei Paesi membri. Si tratta del cosiddetto European Union Emission Trading Scheme, uno schema che fissa per circa 11mila impianti industriali e termoelettrici - di cui 1300 si trovano in Italia - dei limiti alle emissioni di anidride carbonica. Questi impianti - si tratta soprattutto di produttori di energia elettrica, del settore chimico, raffinerie, cementifici, ecc.. - sono responsabili del 40% delle emissioni di Co2 generate nel Continente.

Lo schema, realizzato per rendere meno conveniente l'uso di carbone fossile da parte delle industrie, permette di commercializzare i diritti di emissione di anidride carbonica (le cosiddette quote di emissione o European Union Allowances, ndr). E ogni quota corrisponde al diritto di emettere in atmosfera una tonnellata di Co2 equivalente. Le quote vengono assegnate dagli stati membri dell'Ue in parte a titolo gratuito, in parte a titolo oneroso agli impianti obbligati a partecipare all'Emission Trading Scheme attraverso delle aste pubbliche europee. Le aziende, all'interno di questo meccanismo, sono libere, quindi, di scambiarsi questi permessi come vogliono. Il tutto si basa su un principio unico: chi inquina paga e chi riduce le emissioni viene pagato. Non importa chi riduce i quantitativi di Co2 emessa. L'importante è che a livello complessivo le emissioni di Co2 siano ridotte nell'anno di riferimento. In Europa tra il 2005 e il 2013, grazie a questo meccanismo c'è stata di fatto una riduzione di Co2. Quindi, anche al netto dell'effetto della crisi che di fatto ha contratto le produzioni europee, abbiamo registrato un calo delle emissioni.

Il sistema delle quote introduce in Europa il meccanismo del cosiddetto "cap&trade" di Kyoto che fissa un tetto massimo ("cap") al livello totale delle emissioni consentite a tutti i soggetti vincolati dal sistema, ma consente ai partecipanti di acquistare e vendere sul mercato ("trade") i diritti di emissione di CO2 ("quote") secondo le loro necessità, all'interno del limite stabilito. Seppure in misura limitata, gli impianti possono utilizzare a questo scopo, ma solo fino al 2020 ed in determinate percentuali, anche crediti di emissione non europei, derivanti da progetti realizzati nell'ambito dei meccanismi di progetto del Protocollo di Kyoto. In generale, i gestori degli impianti possono scegliere tra investire per ridurre le proprie emissioni introducendo tecnologie a basso contenuto di carbonio o attraverso misure di efficienza energetica, e acquistare quote.

Il quantitativo totale delle quote in circolazione nel sistema è definito a livello europeo in funzione degli obiettivi europei al 2020 (-20% emissioni rispetto ai livelli del 1990). Il tetto per il 2013 è 2,084 miliardi ed è ridotto annualmente di un fattore lineare pari all'1,74% del quantitativo medio annuo totale di quote rilasciato dagli Stati nel periodo 2008-2012, e pari a oltre 38 milioni di quote. A partire dal 2021, il fattore dovrebbe passare al 2,2% annuo, per rispettare un obiettivo di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra del 40% al 2030.

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