Il petrolio

Il crollo dei prezzi spiegato in una pagina

La favola di Erodoto

Tra le meraviglie descritte da Erodoto, che ne aveva sentito soltanto parlare, ci sono le favolose chimere e un olio scuro che esce dalla terra e brucia. Il mondo antico credeva all'esistenza dell'animale fantastico ma aveva grandi riserve sulle voci che giravano attorno all'olio di pietra. Anche per noi capire cosa sia effettivamente quel liquido che abita sottoterra, fa funzionare le caldaie e dà vita ai motori non è semplice.
Alcune tribù di indios sudamericani che talvolta, quando ci riescono, fanno saltare in aria gli oleodotti, pensano sia "il sangue della terra", che non andrebbe estratto, pena l'ira della pacha mama. E noi figli dell'età della ragione e della scienza, che pure abbiamo imparato ad estrarre e utilizzare il petrolio, abbiamo spesso idee del tutto vaghe su cosa sia questa materia oscura e fiammeggiante.

Il prezzo del petrolio dal 1970

L'andamento del prezzo del petrolio associato a eventi storici significativi.

Lo sterco del diavolo
Secondo un famoso studio della fondazione Soros il petrolio è "lo sterco del diavolo". Nei paesi che lo estraggono favorisce il consolidarsi di una rendita mineraria che rende inutile la formazione di una classe media colta, industriosa e democratica; una rendita che alimenta la corruzione, il malgoverno, i conflitti armati e rende più facile il radicarsi di dittature. Non è un caso che i paesi più prosperi e democratici siano, in generale, quelli che il petrolio non l'hanno o che, se ne hanno, devono il loro sviluppo a un mix di fattori tra cui il petrolio non è predominante.

Quanto ne resta?
Non si sa. O meglio, forse qualcuno lo sa, ma non lo dice in giro. A seconda delle fasi di mercato gli esperti spiegano che ne resta poco o che ce n'è troppo. Da almeno 50 anni, ogni anno, si stima che le riserve basteranno solo per i prossimi 50 anni. Ogni anno le stime vengono aggiornate, i tempi allungati, e la mitica fine del petrolio viene sospinta verso un orizzonte mai lontanissimo ma neppure vicino. Negli anni '80 un think thank chiamato "club di Roma" ebbe molta fortuna predicendo la fine dell'oro nero entro il 2000. A loro rispose circa dieci anni fa lo sceicco saudita Yamani con la famosa frase "l'età della pietra non finì quando finirono le pietre, ma quando si trovò qualcosa di meglio. Per il petrolio sarà la stessa cosa".

La grande espansione delle energie rinnovabili, la lotta al cambio climatico, la chimica verde stanno modificando il nostro modo di guardare al petrolio. E' vero. Ma allora perché le previsioni dell'agenzia internazionale dell'energia continuano a prevedere che i combustibili fossili continueranno a rappresentare oltre il 70% del nostro mix energetico nei prossimi 50 anni? Un ruolo sempre maggiore giocherà il gas naturale, è vero, mentre il carbone verrà gradualmente accantonato, probabilmente, resta il fatto che la liberazione dell'umanità dai combustibili fossili non è ancora alle viste.

Quanto dovrebbe costare?
La questione più esoterica e incomprensibile è il meccanismo di formazione del prezzo che sfugge di solito anche agli esperti e a quelli che nel ramo lavorano come le stesse compagnie petrolifere. Era un dramma quando valeva 150 dollari a barile per chi doveva fare rifornimento alla pompa. E' un dramma ora perché ne vale meno di trenta e le compagnie falliscono, tagliano, riducono, licenziano.. Nel frattempo non è che i pattern di produzione e di consumo si siano modificati più di tanto e certo non in proporzione. Qualunque nuovo equilibrio tra domanda ed offerta viene amplificato a dismisura dalla finanza, i barili di carta, creati dalle scommesse sul prezzo futuro nelle borse delle commodities amplificano le oscillazioni del prezzo in modi difficili da prevedere anche per gli esperti.

Se il prezzo scende perché non è un bene?
Il petrolio è stato anche, nella storia recente, il meccanismo più potente di redistribuzione del reddito tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Quando il prezzo sale, banalizzando, gli sceicchi si coprono d'oro, quando scende i paesi occidentali, la Cina ed il Giappone conoscono fasi di espansione dei consumi e della produzione. Stavolta però non sta avvenendo. Gli sceicchi piangono come da copione ma l'occidente non ride. Perche'? Non lo sappiamo. Oggi il petrolio intorno ai 30 dollari deprime gli investimenti e l'occupazione (l'Eni tanto per fare un esempio ha fissato il break-even intorno ai 44 dollari a barile) ma non sta dando ai consumatori dei paesi industrializzati lo slancio sperato. Forse perché interagisce con un mondo dalla domanda depressa? Perché elimina l'inflazione di cui, ci dicono, avremmo tanto bisogno? Ancora una volta capiamo che l'oro nero è qualcosa che non abbiamo ancora capito.

Barile

Nel giugno del 2014 ci volevano 110 dollari per comprare un barile di greggio Brent. All'inizio del 2015 questo prezzo era sceso a 60. Oggi siamo a 34 dollari al barile.

Eccesso di offerta

L'offerta di petrolio rimane sempre molto più alta della domanda: circa 1.5 milioni di barili al giorno vengono accantonati nelle riserve.

Inverno caldo

A causa di un inverno particolarmente caldo, anche la domanda di combustibile per il riscaldamento ha registrato una notevole flessione.

La guerra dei prezzi

Gli Stati Uniti hanno contribuito alla crescita dell'offerta di petrolio aumentando a dismisura la produzione di idrocarburi grazie al fracking. L'OPEC ha deciso di mantenere inalterato il pompaggio per salvarequote di mercato e mettere in ginocchio i petrolieri americani.

Chi la dura, la vince?

Ciò che rende unica l'Arabia Saudita tra i produttori d'energia, è che in un certo modo riesce a dettare il prezzo di mercato. Essa ha le riserve di petrolio più grandi del mondo e i costi medi della produzione più bassi di tutti. L'Arabia Saudita può fare soldi sulla sua produzione di petrolio a partire da $10 al barile.

Il ritorno dell'Iran

Dopo l'annuncio dell'accordo nucleare con l'Iran il prezzo del Brent è sceso di circa il 2%. La rimozione delle sanzioni americane e europee apre la strada a un aumento delle esportazioni iraniane stimato per il 2016 dall'Opec in circa 600mila barili al giorno.

La Cina ferma la crescita

La Cina è il principale importatore mondiale di petrolio e la frenata dell'economia cinese incide sulla richiesta di materie prime energetiche contribuendo al calo della domanda, che spinge il prezzo del petrolio al ribasso.

Discesa libera

Il prezzo del petrolio non sembra aver toccato ancora il fondo con i due benchmark del mercato mondiale, Brent - il petrolio dolce del Mare del Nord - e WTI - il pregiato West Texas Intermediate statunitense - ormai scesi intorno a quota 30$ al barile, un livello mai così basso dagli anni '90.

Annegare in un mare d'olio
E l'interrogativo è: potrebbe calare ancora? Nel suo più recente rapporto la IEA ipotizza uno scenario in cui il mercato del petrolio, che dal 2014 vede l'offerta eccedere costantemente la domanda, potrebbe letteralmente annegare a causa di questa super produzione. La risposta alla domanda dunque, conclude il rapporto, è un enfatico sì, potrebbe calare ancora.
E gli operatori finanziari, infatti, continuano a scommettere al ribasso mentre questa prospettiva mette a repentaglio i bilanci di molti paesi produttori in cui i profitti da estrazione di petrolio sono sempre meno in grado di coprire il costo della spesa pubblica, a sostenere gli investimenti del sistema bancario, ad alimentare la domanda interna.

Che sta succedendo? Quali le cause? Quali le prospettive?
In questo webdoc proviamo a raccontare da un lato l'intreccio degli scenari economici e geopolitici globali che hanno innescato la caduta, dall'altro l'impatto che tutto questo ha (o non ha) per il consumatore italiano alla pompa di benzina mentre in Italia si è aperta la discussione sulle trivellazioni sbloccate dalla Legge di stabilità.

Nel luglio del 2008, poco prima che la crisi finanziaria travolgesse le economie mondiali e del boom dello shale gas in Usa, occorrevano circa 150$ per un barile di greggio, record storico. Alla fine del 2010, passato il momento acuto della crisi e alla vigilia delle cosiddette primavere arabe, il prezzo viaggiava ancora intorno ai 120$. Ma è dalla metà del 2014 che è iniziato il declino tutt'ora in atto.
In una frase si può riassumere così: il mondo produce molto più petrolio di quanto ne utilizza, in numeri: 1 milione e mezzo di greggio di troppo al giorno.

Partita a scacchi
Dietro questo fenomeno s'intrecciano questioni economiche, nodi geopolitici e le prospettive tecnologiche legate ai limiti ecologici dello sviluppo. Il rallentamento della locomotiva cinese e il perdurare della crisi nell'eurozona, la guerra dei prezzi lanciata nell'estate del 2014 dall'Arabia Saudita per proteggere le proprie quote di mercato dall'assalto dei produttori americani di shale gas - è del dicembre del 2015 la decisione del Congresso Usa di abolire il divieto delle esportazioni - dalla concorrenza russa e, in prospettiva, dal ritorno dell'Iran sul mercato dopo l'accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni. Una partita a scacchi che rende assai complesso un accordo per un taglio della produzione che sospinga in alto i prezzi.

Tutto questo mentre il mondo fronteggia la minaccia terroristica di Isis che, mettendo radici e tentando di espandere la propria influenza territoriale nel quadrante del Medioriente allargato - dalla guerra in Siria alla crisi libica - proprio dal commercio del petrolio iracheno - che ha raddoppiato la produzione in questo stesso periodo - trae profitti e linfa. Non a caso ritroviamo i principali produttori che si fronteggiano più o meno direttamente e ciascuno con i propri interessi e la propria agenda in questo quadrante così instabile.

Lo sviluppo, al limite
Sullo sfondo anche le prospettive a lungo termine delineate da Cop21 a Parigi nel dicembre scorso con l'impegno a ridurre le emissioni di gas serra che passa anche dalla riduzione del consumo dei combustibili fossili. E se l'esaurimento tante volte annunciato dei giacimenti sembra essere sempre rimandato a data da destinarsi, sull'andamento del mercato impattano i costi delle riconversioni tecnologiche necessarie per rendere remunarative a medio termine la ricerca e l'estrazione. Chi riuscirà a stare sul mercato a questi prezzi?

«Genesi 6:13-14»

Dio disse a Noé: «Fatti un'arca di legno di cipresso; la dividerai in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori ». Il petrolio accompagna la storia dell'uomo da secoli. I primi riferimenti si trovano nella Bibbia: dal calafataggio dell'arca di Noè all'uso del bitume nella costruzione della torre di Babele.

1850

Nel 1852 il canadese Abraham Gessner brevetta il procedimento per ottenere il cherosene, combustibile il cui largo impiego nell'illuminazione dà impulso all'industria petrolifera moderna.

1920

Un secondo notevole impulso alla produzione di derivati dal petrolio arriva dopo la Prima guerra mondiale, con l'affermazione dei motori a benzina nelle automobili.

1940

Durante la Seconda guerra mondiale il controllo del petrolio è al centro degli obiettivi strategico-militari di diverse potenze tra cui Germania e Giappone.

1960

Tra il 1945 e il 1973 le compagnie petrolifere americane si espandono nei grandi bacini mediorientali. Enrico Mattei tenta di portare l'Agip nel consorzio da lui rinominato "le sette sorelle". Per contrastarle, nel 1960 nasce l'Opec.

1973

Nel 1973 l'improvvisa e inaspettata interruzione del flusso di petrolio proveniente dalle nazioni appartenenti all'Opec provoca il grande "shock" energetico che investe tutto l'Occidente.

1979

Il 31 gennaio Ruhollah Khomeyni rientra in Iran dall'esilio, due mesi più tardi nasce la Repubblica islamica. Nel novembre dello stesso anno la crisi degli ostaggi dopo l'assalto all'ambasciata americana a Teheran che costerà la rielezione a Jimmy Carter.

1991

17 gennaio, scatta l'operazione Desert Storm, è l'inizio della Prima Guerra del Golfo. Il 17 luglio del 1990 Saddam Hussein aveva accusato i paesi confinanti di superare i tetti di estrazione del greggio per danneggiare economicamente l'Iraq e il 2 agosto dello stesso anno aveva invaso il Kuwait.

2008

Il 15 settembre la Lehman Brothers dichiara bancarotta in seguito alla crisi dei fondi subprime e alle accuse di negligenza e malafede, è l'inizio di uno tsunami finanziario su scala globale.

2014

In giugno Abu Bakr al-Baghdadi proclama unilateralmente la nascita dello Stato Islamico nei territori tra Iraq e Siria conquistati dal gruppo terroristico che tiene sotto controllo molti pozzi petroliferi e si alimenta con il commercio dei carburanti.

La pompa di benzina in Italia

Nel giro di due anni i costi sostenuti dall'Italia per approvvigionarsi di greggio all'estero si sono praticamente dimezzati, passando, secondo gli ultimi dati forniti dall'Unione petrolifera, dai 30 miliardi di euro del 2013 ai 16,2 miliardi del 2015.

Un bel risparmio in termini generali per il sistema Paese che ha visto la diminuzione delle tariffe di luce e gas, un calo dell'inflazione e la discesa del prezzo della benzina (ma sempre appesantito dalla componente fiscale).

Fai tu il prezzo alla pompa

Questo grafico interattivo mostra perchè a un crollo del 65% del prezzo del greggio non corrisponde un calo proporzionato del prezzo della benzina (cifre approssimate e indicative).
La pressione fiscale è talmente elevata che anche se la benzina fosse gratuita, un litro di carburante lo pagheremmo comunque quasi un euro.

Muovi il cursore a destra o a sinistra per variare il prezzo "di fabbrica" della benzina (attuale: 0.44 euro/lt).

Dal 2014 al 2016 il prezzo del barile di petrolio è passato da 105 dollari a circa 30, mentre la benzina, secondo quanto emerge dalle tabelle del Ministero dello Sviluppo Economico, è passata da circa 1,76 euro al litro agli 1,43 attuali. In termini percentuali, la flessione del 65% del prezzo del petrolio corrisponde a un calo di appena il 19% sul prezzo della benzina al distributore.

Inflazione
Il prezzo del greggio in picchiata, ha contribuito a tenere basso il tasso annuo d'inflazione arrivato allo 0,1% nel 2015, il livello minimo da 56 anni.

Risparmi in bolletta
L'ultimo aggiornamento dell'Autorità per l'energia, scattato il primo gennaio scorso, vede un calo dell'1,2% per l'elettricità e del 3,3% per il metano. In entrambi i casi il vantaggio deriva ovviamente dal forte calo dei costi relativi all'approvvigionamento della 'materia energia'. Per una famiglia tipo il risparmio complessivo nei 12 mesi è di quasi 60 euro.

Raffinazione in ripresa
Il petrolio meno caro è stato una boccata d'ossigeno anche per l'industria della raffinazione, da anni in crisi a causa non solo dei prezzi della materia prima, ma anche dei consumi sempre più scarsi: l'aumento della lavorazione, dovuto anche a qualche stop agli impianti, è stato invece nel 2015 del 10,6%. Da questa situazione ha tratto vantaggio, per la raffinazione, anche l'Eni: ma da un punto di vista più generale il gruppo, come tutti gli altri big a livello mondiale, ha ovviamente sofferto, con una serie di risultati in contrazione e con la decisione, presa lo scorso anno, di tagliare il dividendo.

Sblocca-trivelle
Con il decreto "Sblocca-italia", la Strategia Energetica Nazionale (Sen) intende raddoppiare l'estrazione di idrocarburi in Italia entro il 2020, incrementando l'attuale produzione di gas di circa 24 milioni di boe/anno (barili di olio equivalente) e 57 di olio.
Si prevede così di "mobilitare investimenti per circa 15 miliardi di euro e circa 25 mila posti di lavoro, e consentire un risparmio sulla fattura energetica di circa 5 miliardi di euro l'anno per la riduzione di importazioni di combustibili fossili".
Tuttavia, dieci regioni si sono mobilitate contro le trivellazioni proponendo un referendum composto da 6 quesiti, uno dei quali è stato dichiarato ammissibile dalla Consulta: quello che riguarda la norma che prevede che i permessi e le concessioni già rilasciati abbiano la "durata della vita utile del giacimento".

U.S.A.
la rivoluzione dello shale-gas

Nel novembre 2015 negli Stati Uniti sono stati prodotti 70,9 milioni di barili, quasi 4 milioni in meno rispetto al mese precedente. Il livello medio giornaliero della produzione di greggio è stato comunque superiore rispetto allo stesso mese del 2014 di circa il 5 per cento.

Anche i permessi di trivellazione rilasciati a dicembre sono diminuiti: sono stati 727, circa il 51 % in meno rispetto al totale emesso per lo stesso mese del 2014, mentre l'appetito diminuisce.

Il tasso di occupazione è in salita: dal 4,4% di ottobre al 4,6% di novembre con 16,300 posti di lavoro in più. Nonostante il calo dei prezzi nei pressi dei siti di estrazione si continuano a costruire case per accogliere gli operai.

"Abbiamo mantenuto i livelli di produzione da record - di fronte alle grandi sfide - qui in Texas perché l'industria è diventata più innovativa e più efficiente, e questo è un risultato di essere molto orgogliosi", ha detto David Porter, Texas Railroad Commission. Il Texas è il primo produttore della nazione.

Un camion attraversa la campagna col suo carico di gas. Siamo in Pennsylvania, non lontano dal Marcellus Shale uno dei più grandi giacimenti del mondo nel bacino Appalachian che tocca anche Ohio, New York e West Virginia

Qui la produzione di gas naturale secco è più che triplicata nei tre anni del boom passando da una media di 136 milioni di metri cubi al giorno, nel 2011, a una media di 413 milioni di metri cubi al giorno nel 2014.

Lo stato di New York ha messo ufficialmente al bando il fracking nel dicembre 2014 per ragioni ambientali. La città di Binghamton è stata l'epicentro della battaglia e tra le prime a vietare la ricerca e l'estrazione di gas sul territorio.

Watford City, North Dakota. Qui le dinamiche del boom del petrolio ricordano quanto accadde in California nel 1800 ai tempi della grande Corsa all'Oro. Le trivelle sono diventate parte integrante del territorio e svettano nei campi sterminati e spogli. L'economia dello Stato è salita a ritmi impressionanti e così il tasso di occupazione.

Vicino agli impianti, una distesa di camper e uffici. C'è chi ha lasciato tutto per trasferirsi qua in cerca di un futuro migliore

Lungo l'autostrada di Watford spuntano villette a schiera. Sono sorte nel nulla vere e proprie città di 15mila abitanti. A Williston sono state costruite 6.000 nuove unità abitative nel 2013 del valore di quasi $ 72 milioni di dollari. Quasi tutte sono andate ai dipendenti dei giacimenti Bakken e Three Fork.

Con il crollo dei prezzi del petrolio gli affitti sono stati drasticamente ridotti. Molti impianti stanno chiudendo e sono arrivati i licenziamenti.

Fracking in the Usa

Nel 2014, gli Stati Uniti hanno superato l'Arabia Saudita e la Russia diventando il primo produttore di petrolio al mondo con l'equivalente di 11 milioni di barili al giorno. La conquista americana dell'indipendenza energetica ha rimodulato gli equilibri geopolitici del mondo e contribuito al calo del prezzo del petrolio, determinando un aumento dell'offerta, in eccesso sulla domanda negli anni bui della recessione. Complice il crollo dei mercati asiatici dopo l'ennesima svalutazione della moneta cinese, il 2016 si è aperto con la caduta libera delle quotazioni del greggio sceso sotto i 30 dollari al barile per la prima volta negli ultimi 12 anni.

Shale Gas Revolution
Il miracolo a stelle e strisce è il risultato di una "rivoluzione partita in sordina" almeno vent'anni prima e realizzata con l'impiego massiccio della tecnica del fracking o fratturazione idraulica. Fu George Mitchell, un ingegnere texano che, alla fine degli anni Ottanta riuscì a rendere economicamente possibile l'estrazione dello "shale gas", gas naturale intrappolato nelle microporosità di rocce argillose poco permeabili, unendo due tecniche: la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica (fracking), che in seguito si sono rivelate efficaci anche nell'estrazione del petrolio (tight oil) da giacimenti "non convenzionali".

Il fracking consiste nell'iniezione di enormi volumi di acqua, sabbia e sostanze chimiche nel sottosuolo per fratturare - per effetto della pressione - le rocce impermeabili e rendere così possibile l'estrazione che sarebbe impossibile utilizzando trivelle tradizionali. Il gas, in prevalenza metano, è intrappolato infatti in rocce molto al di sotto della superficie terrestre, tra i 1500 e i 6100 metri; una volta raggiunto si inietta orizzontalmente un getto ad alta pressione di acqua mista a sabbia e altre sostanze chimiche - dai 7 ai 14 milioni di litri per pozzo - per provocare l'emersione in superficie.
Il processo può essere intrapreso sia sfruttando pozzi già esistenti ed estendere la loro lunghezza, sia creandone di nuovi, ma le enormi potenzialità vanno di pari passo con i costi, molto più elevati rispetto alla tradizionale estrazione per perforazione. Con l'ingresso di altre società nel settore e la scoperta di nuovi giacimenti, in piena Shale Gas Revolution, il mercato degli idrocarburi ha portato una boccata d'aria fresca agli Stati Uniti negli anni della crisi, tanto che nel 2009 sono diventati il primo produttore mondiale di gas superando la Russia.

La questione ambientale
A fronte dei benefici economici, tra cui l'aumento dell'occupazione in molte zone "depresse", molti studi dimostrano che il fracking rappresenta una seria minaccia all'ambiente. A partire dall'acqua, impiegata in quantità notevoli anche in aree dove è da sempre una risorsa scarsa come il Texas, in cui le falde acquifere sono già a rischio esaurimento. Un altro problema è la contaminazione: quando comincia l'estrazione del petrolio e del gas, risale in superficie con essi anche acqua inquinata di sostanze chimiche (a volte radioattive) che si trovano naturalmente nel sottosuolo, o addizionate. Non solo ma c'è il rischio di "avvelenare" le falde acquifere che servono i residenti della zona coinvolta, se troppo vicine ai pozzi. Tanto che proprio in Pennsylvania non è più possibile cercare gas e petrolio sotto alle foreste demaniali - ben due terzi sono situate sopra al Marcellus Shale - nemmeno trivellando da terre private confinanti come accadeva nel periodo d'oro.

Bad vibes
All'inquinamento ambientale e ai rischi per la salute si aggiungono segnalazioni di una maggiore incidenza di terremoti nelle zone dove si pratica il fracking. Tutto questo si ripercuote sulle industrie del settore costringendole a maggiori investimenti per garantire la sicurezza degli impianti e a restringere progressivamente le zone d'azione. Ma le compagnie per adesso sembrano resistere alle obiezioni degli ambientalisti e alla "guerra energetica" del cartello dell'Opec, e in particolare dell'Arabia Saudita, che ha scelto di tenere alta la produzione così da tenere bassi i prezzi.

Il prezzo scende, l'offerta no
Il calo del valore del barile, registrato già da metà 2014 ( 50% in meno) ha rallentano sì la produzione nelle aree marginali, ma non sono diminuiti gli investimenti nelle aree più sviluppate. Mentre si spopola progressivamente l'area di Fayetteville in Arkansas dove recentemente la Southwestern Energy Co. ha annunciato una riduzione del 50% della sua forza lavoro, continuano a lavorare a pieno regime gli impianti nel Barnett Shale in Texas, dove si produce il 50% dell'output totale, l'Haynesville in Lousiana e Texas, il Marcellus Shale in Pennsylvania (al secondo posto per produzione). Qui, dove è stato girato il film denuncia Gasland, si discute in questi giorni del varo di una nuova normativa che riduca l'impatto ambientale. Nel 2014, infatti, nella zona si sono verificate emissioni nell'ambiente pari a 100.000 tonnellate di metano, una quantità sufficiente a riscaldare circa 65.000 case.

Proprio nel Marcellus Shale, 270 mila chilometri quadrati, il più grande bacino di gas da scisti d'America che abbraccia Pennsylvania, West Virginia e Ohio la produzione di shale gas è passata dai 2 Bcf/d del 2010 ai 16,5 Bcf/d del 2015 nonostante un forte calo dei prezzi nel settore: dai 13 dollari per milione di Btu del 2008 ai 4 dollari del 2009 fino alla soglia recente dei 2 dollari. Eppure gli impianti chiudono. Secondo i dati forniti da Baker Hughes, il 22 gennaio 2016 negli Stati Uniti erano in funzione 637 pozzi, 13 in meno rispetto alla settimana precedente e ben 996 in meno rispetto a un anno fa.

Con il prezzo del petrolio sotto la soglia psicologica dei 30 dollari, produrre greggio non è più conveniente. Almeno non per tutti. Gli operatori più deboli sono usciti dal mercato o si sono uniti in società più grandi unendo capitali e, soprattutto tecnologie, per competere con le grandi compagnie (Exxon, Eni, Total) e cercare di abbassare i costi di produzione. L'offerta non cala perché è aumentata rispetto al passato l'efficienza dei processi produttivi, grazie al pad drilling, per esempio, che consente di perforare un numero multiplo di pozzi da una sola postazione. O al "re-fracking", cioè la "ri-fratturazione" idraulica di pozzi già fratturati - un'operazione che permette un aumento di produzione anche del 100 per cento a costi molto ridotti. Senza contare che i pozzi "non convenzionali" sono immuni dal fattore "tempo": non servono anni per raggiungere il picco produttivo e si possono avviare in poche settimane. O, eventualmente, fermare in attesa di prezzi migliori.

Quanto durerà?
Le previsioni non sono però rosee. Secondo tre grandi banche di investimento, Morgan Stanley, Goldman Sachs e Citigroup, i prezzi scivoleranno al di sotto della soglia dei 30 dollari e si porteranno in territorio 20 dollari, come risultato del rallentamento della crescita cinese, del rafforzamento del dollaro e del fatto che la produzione globale prosegue a livelli alti nonostante l'eccesso di offerta. Nel rapporto sul 2015, l'Aie ha tagliato le stime sulla crescita della domanda e per il 2016 vede un rallentamento di 1,2 milioni di barili al giorno, contro 1,7 milioni del 2015, per un totale di 95,7 milioni. Al tempo stesso, nella prima metà del 2016 l'Aie si attende un surplus di 1,5 milioni di barili al giorno nonostante il calo della produzione di greggio dei Paesi non Opec con un taglio stimato attorno ai 600.000 barili al giorno il più forte dal 1992. Una contrazione che con tutta probabilità sarà compensata dall'Iran che da metà 2016 punta a un export di 600.000 barili/giorno.

La Cina si avvicina
Se per il momento l'Opec aspetta e accetta di veder limare in maniera consistente i propri guadagni, pur di non perdere quote di mercato, gli Stati Uniti tentano altre strade. Dopo 40 anni è stato abolito il divieto delle esportazioni di petrolio, scattato negli anni 1970 dopo che l'embargo arabo aveva causato uno shock all'economia e a marzo partirà il primo carico di greggio 'Made in Usa' destinazione Cina. Un acquisto simbolico ma di grande rilevanza, che apre una nuova rotta per il greggio, quella tra le due maggiori economie al mondo.

Benzina sulla campagna presidenziale

La corsa alla Casa Bianca sta entrando nel vivo con le primarie. Quali sono i programmi dei principali candidati in materia di energia? Chi sarà un buon presidente per le compagnie petrolifere o per il consumatore o per l'ambiente?

Arabia VS Iran

Salman bin Abdulaziz (Getty Images)

Agli iraniani sono bastate 48 ore dalla fine dell'embargo, per annunciare l'aumento della produzione petrolifera.
Subito dopo l'entrata in vigore dell'accordo di Vienna, il capo della National Iranian Oil Company (NIOC) ha annunciato l'aumento della produzione di 500.000 barili al giorno. Una decisione che prende di mira soprattutto l'Arabia Saudita.
Il resto dei produttori ed esportatori di petrolio avrebbero preferito una scelta diversa da parte della Repubblica Islamica, considerato il basso prezzo del greggio.
Quella che sembra una guerra religiosa tra sciiti e sunniti non può nascondere la dura lotta tra i due paesi per dominare la regione. Lotta in cui non si risparmiano colpi a livello politico, militare, diplomatico e, soprattutto, petrolifero.

Le tensioni iraniano-saudite hanno dominato l'ultima riunione dell'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) il 4 dicembre 2015 a Vienna. Il giorno prima della riunione, in cui si è concluso di lasciare decidere il mercato, il Ministro del petrolio iraniano ha avvertito: "non accetteremo alcuna discussione sull'aumento della produzione iraniana dopo la revoca delle sanzioni", aggiungendo che l'Iran ha il "diritto" di produrre senza limiti.

Per gli iraniani non ci sono dubbi: a causare il crollo dei prezzi sono stati gli Stati Uniti, la Russia e l'Arabia Saudita. Infatti, la scelta saudita di abbassare il prezzo del greggio in risposta all'aumentata produzione di Stati Uniti e Russia, ha finito per indebolire proprio l'Iran che tramite il petrolio intenderebbe finanziare il proprio bilancio.

Hassan Rouhani (Getty Images)

Chiaro è che per l'Arabia Saudita il ritorno del petrolio iraniano non è una buona notizia. Si è visto dal tentativo - senza successo - di Riyadh di ostacolare l'accordo di Vienna.
L'obiettivo saudita è diventato adesso fare di tutto per compromettere il ritorno dell'Iran "nel mondo del petrolio".
Lo fa già scontando il suo greggio ai clienti naturali della Repubblica Islamica come Cina e India. E tutto indica che continuerà a farlo producendo in maniera massiccia, consapevole che per l'Iran ci vorrà tempo per diventare un vero concorrente.

L'Arabia Saudita e l'Iran sono due dei cinque stati che nel 1960 fondarono l'OPEC. Da allora, i membri dell'Organizzazione sono sempre stati in grado di superare le loro divergenze politiche per regolamentare il mercato. Anche durante la guerra Iran-Iraq negli anni '80 e durante l'invasione del Kuwait da parte dell'esercito di Saddam Hussein nel 1990. Riyadh ha sempre accettato le regole del gioco, anche quando avrebbe potuto approfittare del suo ruolo di produttore principale per alzare o abbassare i prezzi. Con la situazione di tensione continua nella regione, i sauditi rifiutano qualsiasi mediazione preferendo una spietata guerra di quote di mercato nella speranza, con il tempo, di vincere.

Le vie di terra
Il fittissimo reticolato di gasdotti e oleodotti esistenti e in via di realizzazione mostrato su una mappa interattiva. Si tratta in particolare delle reti di trasporto di idrocarburi attraverso diverse aree instabili in Sud America e Africa (Venezuela e Delta del Niger) da un lato e tra la Russia e l'Europa e la Russia e il continente asiatico dall'altro, oltre che ovviamente il Medio Oriente allargato e il Golfo Persico.
Fonte: FracTracker Alliance

Russia VS Arabia Saudita

Vladimir Putin (Getty Images)

Nel dicembre del 2015 la Russia ha raggiunto il picco record nella produzione del greggio dalla fine dell’Unione Sovietica, 10,8 milioni di barili al giorno, entrando così di diritto nel club ristretto dei grandi produttori accanto all’Arabia Saudita, leader dei paesi Opec.

Negli ultimi 20 anni l’aspirazione del Cremlino di tornare a ricoprire un ruolo di superpotenza nello scacchiere internazionale è stata sostenuta proprio dalle massicce entrate provenienti dal mercato energetico. La caduta libera dei prezzi cominciata nel 2014 mette a repentaglio questo obiettivo e mina la solidità di una economia colpita anche dalle sanzioni internazionali per il conflitto ucraino.

I numeri parlano chiaro: all’inizio del 2016 il prodotto interno lordo russo registra un calo del 3,7%, il declino più grave dal 2009, il Fondo Monetario Internazionale prevede un altro anno di vacche magre nel 2016 e il perdurare della crisi pone interrogativi sulle possibili conseguenze sociali e politiche interne - nei primi 9 mesi del 2015 oltre 2 milioni di russi sono scesi sotto la soglia della povertà. Potrà la retorica nazionalista del regime putiniano controbilanciare questi colpi?.

In questo scenario sembrerebbe interesse di Mosca operare per un taglio concordato nella produzione di greggio per spingere i prezzi al rialzo. E in questa direzione sembrano andare i contatti con l’OPEC e in particolare con l’Arabia Saudita dell’inizio del 2016. Le voci di un possibile accordo per il taglio del 5% della produzione ventilate dallo stesso ministro dell’Energia Alexander Novak hanno rianimato il mercato del Brent negli ultimi giorni. Ma le cose non sono come sembrano o almeno non così lineari. Anche riguardo alle scelte di fronte il Cremlino rimangono sul tappeto più interrogativi che risposte.

Solo un accordo con l’OPEC, che pesa complessivamente per un terzo della produzione mondiale, potrebbe frenare la corsa al ribasso che rischia di avvicinare pericolosamente il prezzo del barile a quota 15$, considerata dagli analisti di Gazprom il livello di break-even. Ma in realtà tra i paesi OPEC solo Venezuela e Algeria si sono espresse chiaramente a favore di un taglio.

Per Mosca dunque rimane Riyad l’interlocutore decisivo e la partita degli interessi contrastanti sulla piazza del mercato petrolifero si gioca su diversi scenari economici e geopolitici.In primo luogo il dialogo che porti Russia e Arabia Saudita a concordare il taglio della produzione è reso difficile dal fatto che i due paesi si trovano su fronti contrapposti nel teatro mediorientale e in particolare nella crisi siriana.

Recep Tayyip Erdogan e Salman bin Abdulaziz (Getty Images)

Il secondo scenario assai rilevante per gli interessi russi è il rientro dell’Iran nel mercato dopo l’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni. Teheran si prepara a inondare con nuovo greggio un mercato saturo che già attualmente produce 1,5 milioni di barili in più del fabbisogno mondiale. Da questo punto di vista sia dal Cremlino sia dai vertici di Rosneft e Lukoil, i due colossi petroliferi russi, si è manifestata estrema cautela per non dire scetticismo su possibili accordi di un taglio che servirebbe solo a perdere quote di mercato a favore appunto dell’Iran e dei produttori americani di shale gas, veri obiettivi della guerra del prezzo del petrolio.

Inoltre, sempre dai vertici delle aziende petrolifere russe si fa capire che tagli coordinati alla produzione non sarebbero visti affatto di buon occhio da un’industria che, nel medio termine, vede prospettarsi un declino naturale della produzione, un aggravio delle imposizioni fiscali e un problema nell’ammodernamento delle tecnologie, fattori questi su cui le sanzioni internazionali pesano.

Da un altro punto di vista il rientro di Teheran sul mercato non rappresenta solo un problema per Mosca ma anche un’opportunità. L’Iran infatti è un partner privilegiato per il settore della Difesa dell’apparato industriale russo. E questo chiude il cerchio e ci riporta all’instabilità nello scacchiere mediorientale che vede Teheran e Riyad ai ferri corti, dopo l’esecuzione del leader sciita Al Nimr e l’incendio dell’ambasciata saudita a Teheran con l’interruzione delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.

Recep Tayyip Erdogan e Hassan Rouhani (Getty Images)

Mosca è diretta protagonista dell’instabilità della regione e in prima linea nel conflitto siriano, uno degli elementi di rischio geopolitico capaci di influenzare pesantemente il mercato dei prodotti petroliferi dove le scommesse sul ribasso dei prezzi seguono un trend puramente statistico che tende a sottovalutare i rischi geopolitici dell'area.

Dopo l’abbattimento del caccia russo da parte della Turchia le relazioni tra i due paesi sono giunte al calore bianco. Mosca ha esplicitamente accusato Ankara di “andare a letto” con il nemico, il Daesh. Accuse non nuove e già espresse da John Biden nel 2014 anche se presto dimenticate. Ma le voci sugli affari di famiglia di Recep Tayyip Erdogan continuano a circolare, in particolare sul figlio Bilal accusato di commerciare petrolio dell’ISIS estratto dai pozzi petroliferi iracheni.

Il "prezzo" dell'ambiente

Il crollo del prezzo del petrolio potrebbe vanificare gli sforzi per contrastare il cambiamento climatico. La transizione auspicata dalla Conferenza di Parigi, Cop21, che dovrebbe accelerare il passaggio all'energia verde, può essere rallentata da questa particolare situazione.

(laPresse)

Il petrolio a buon mercato scoraggerebbe gli investimenti nelle più efficenti infrastrutture energetiche e energie rinnovabili. In alcuni Paesi poi scende anche il costo del carbone rendendo sempre più economico l'uso di queste fonti altamente inquinanti e responsabili della formazione dei gas serra. Dall'altra parte i prezzi bassi che colpiscono i guadagni di questa industria hanno portato a congelare i progetti di estrazione. A fermarsi sono stati soprattutto quelli più costosi, come le trivellazioni in acque profonde e l'estrazione di riserve non convenzionali. Quindi una parte di queste risorse dovrebbe restare sotto terra.

Il carbon pricing
Alla conferenza internazionale del clima i leader mondiali hanno deciso di adottare nuove strategie per combattere i cambiamenti climatici. La battaglia per rallentare il riscaldamento climatico dovrebbe quindi passare attraverso politiche di incentivi per le fonti rinnovabili.
Da molte parti inoltre si auspica l'introduzione di una forma efficace di carbon pricing cioè una tariffazione del carbonio. Secondo economisti e scienziati questo strumento scoraggerebbe l'uso dei carburanti fossili. Il carbon pricing inoltre sarebbe in grado di dare molteplici vantaggi tra cui la riduzione degli impatti sulla salute e sull'ambiente, come le morti premature dovute all'esposizione all'inquinamento dell'aria. L'introduzione del carbon pricing potrebbe inoltre fornire ai governi i finanziamenti necessari per promuovere lo sviluppo sostenibile e stimolare maggiori investimenti in una crescita low carbon. Un incentivo per le imprese e gli investitori a ridurre la loro impronta carbonica.