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L'intervista

Il "metodo Falcone", una preziosa eredità nella lotta contro la Mafia

Il "metodo Falcone", una preziosa eredità nella lotta contro la Mafia (WikipediaCommons)
Il criminologo Vincenzo Musacchio racconta della lettera che ricevette trent’anni fa da Giovanni Falcone quando era ancora un giovane laureando

Professore, sono passati trent’anni da quel terribile attentato di Capaci, eppure dopo tutto questo tempo ancora non tutto è chiaro. Cosa resta ancora da accertare?
Sono passati tanti anni e si sono tenuti molti processi, ancora oggi si cerca disperatamente di capire perché invece di avvicinarci alla verità, ci si allontana. Giudizialmente non è ancora chiaro chi siano effettivamente i mandanti di quella terribile strage. Molte cose non hanno funzionato. Ci sono state indagini e processi con all’interno anche depistaggi. È mancato il supporto dei vari Governi e di alcune istituzioni. Questo ha inevitabilmente generato l’allontanamento dalla verità. Credo sia molto probabile che ci siano state delle menti esterne a Cosa Nostra. Giovanni Falcone dopo l’attentato all’Addaura parlò di “menti raffinatissime” che guidavano la mafia. Io ritengo avesse ragione.

Cosa aveva capito della mafia Giovanni Falcone e qual è la sua eredità più importante?
La risposta a questa domanda è contenuta nel suo metodo di lotta alla criminalità organizzata tuttora adottato a livello mondiale. Grazie ai suoi innovativi metodi d’indagine, il magistrato palermitano ha, di fatto, posto termine alla lunghissima serie di assoluzioni per insufficienza di prove che caratterizzarono i processi di mafia negli anni ottanta in Sicilia. Fu in grado di ottenere il massimo dalle norme in vigore all’epoca arrivando alle storiche condanne del Maxiprocesso di Palermo. Fu precursore degli accertamenti bancari come strumento d’indagine. “Segui il denaro troverai la mafia”, era il suo motto. È stato tra i primi investigatori a utilizzare proficuamente i contatti diretti con i giudici stranieri nelle attività di cooperazione internazionale. Le sue rogatorie internazionali dettero grandi risultati alle indagini a livello transnazionale soprattutto con la Svizzera e gli Stati Uniti. Memorabile fu l’operazione “Pizza Connection” sul traffico internazionale di droga. Resta ancora oggi uno dei pilatri mondiali della lotta al crimine organizzato. L’Onu nel 2020 voterà la “Risoluzione Falcone”. Il metodo del giudice di Palermo entra così nella storia e ispirerà la lotta alle mafie del mondo.

Secondo lei qual era la marcia in più di Falcone?
La perseveranza. Era un mastino. Non mollava mai. Conosceva la mentalità mafiosa ed era capace di comprendere il loro linguaggio e il loro modo di agire. Era siciliano e aveva vissuto nel quartiere della Kalsa, lo stesso di molti futuri capi mafia come, ad esempio, Tommaso Spadaro. Antonino Caponnetto mi raccontò un episodio nel quale da un semplice gesto o da un certo tipo di linguaggio usato, Falcone fu in grado di comprendere cosa un pentito volesse far capire pur non dicendolo esplicitamente. La sua grandezza – diceva sempre Caponnetto – era che anche da questi atteggiamenti apparentemente insignificanti riusciva a trovare spunti investigativi su cui lavorare e che alla fine portavano sempre a risultati concreti. Emblematica l’offerta della sigaretta a Buscetta quando lo interrogò la prima volta. Falcone sapeva come non umiliarlo. Buscetta infatti dirà: “Ho accettato le sue sigarette perché era un pacchetto già aperto. Una stecca o anche qualche pacchetto intero non li avrei accettati perché avrebbero significato che lei intendeva umiliarmi”.

Quali furono a suo parere i momenti più difficili nella sua carriera?
Uno posso dirlo con certezza perché fu una confidenza che mi fece Antonino Caponnetto. Rimase profondamente deluso e amareggiato quando Antonino Meli fu nominato al suo posto alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo. Ne ebbe poi tante altre note a noi tutti. Non idoneo come procuratore capo di Palermo, come membro del Csm. Sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso prima. I suoi nemici, purtroppo per lui, non erano solo i mafiosi. Lo dirà lui stesso dopo l’attentato all’Addaura al giornalista Saverio Lodato: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi, ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”. Scriverà poi nel suo libro “Cose di Cosa Nostra”: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. In effetti, alcuni giorni prima dell'attentato, Falcone disse ad alcuni amici: “Mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano”. Premonitrici, purtroppo, furono le sue parole.

So che lei era entrato in contatto con Giovanni Falcone, ci racconta come è avvenuto?
Era il 1991 e decisi di scrivergli, quasi per rimproverarlo, dopo la sua decisione di lasciare Palermo per andare a Roma a dirigere la Direzione generale degli affari penali al Ministero di Grazia e Giustizia. Naturalmente non mi aspettavo una risposta, invece, arrivò. Non dimenticherò mai la mattina in cui trovai sotto il portone di casa una busta bianca con l'intestazione della Procura della Repubblica di Palermo. La aprii e ricordo ancora l’odore della lettera impregnata di un misto tra un profumo o un dopobarba e il fumo di sigaretta. Lessi la sua firma, il suo contenuto ancora oggi mi accompagna in molte scelte professionali e di vita.

Cosa c’era scritto nella lettera?
Mi rispose con un garbo e una gentilezza unici. In merito al fatto che io non condividessi la sua scelta di lasciare Palermo, mi scrisse che il suo non era un abbandono ma un modo per combattere la mafia in maniera più efficace (aveva ragione lui e torto io). Poi, la frase che ha cambiato la mia vita facendomi dedicare anima e corpo alla diffusione della legalità nelle scuole: “Continui a credere nella giustizia, c'è tanto bisogno di giovani con nobili ideali”. Un messaggio universale, ovviamente, rivolto a tutti i giovani. Di Falcone, che purtroppo non ho potuto conoscere personalmente, non voglio dimenticare il suo altissimo senso del dovere, da cui tutti noi dovremmo trarre esempio e insegnamento. Un particolare mi rimane impresso tutt'oggi: il suo sorriso. Mi dava in quegli anni, così come oggi, la forza per credere che le mafie si possano vincere se soltanto comprendessimo quanto importante sia impegnarsi in prima persona. Falcone ne era profondamente convinto.

Nel trentesimo anniversario della sua morte, quale messaggio vorrebbe lanciare?
Credo che per ricordare Giovanni Falcone non abbiamo bisogno di discorsi da commedianti, inutili e vuoti o di presenze un giorno l’anno da parte delle istituzioni, quando poi nei fatti non si lotta la mafia, né la corruzione a essa strettamente correlata. Se volessimo davvero fare omaggio alla vita e al valore di Giovanni Falcone, c’è un solo modo: impegnarsi seriamente nello sconfiggere le mafie ristabilendo la supremazia dello Stato sul crimine organizzato e sulla corruzione dilagante. Chi vuole onorarlo non deve mollare la lotta alle mafie, dal singolo cittadino sino al Presidente della Repubblica, ognuno con i propri mezzi e le proprie forze, dalle piccole cose sino ai grandi sforzi che spettano allo Stato. Falcone diceva: “Non si può sconfiggere la mafia chiedendo l’eroismo d’inermi cittadini, ma mettendo in campo tutte le forze migliori delle istituzioni”. Spero tanto che un giorno questo suo desiderio di vedere unite le forze migliori delle istituzioni si realizzi. Mi piacerebbe infine concludere riportando un messaggio personale di Maria Falcone a me inviato e diretto ai giovani che così recita: “Vorrei che faceste vibrare le vostre vite dei sogni più belli, alti e nobili: sognate parchi pubblici in cui giocare, scuole dotate di computer per sviluppare le vostre conoscenze, scuole, biblioteche, locali pubblici, puliti e intonacati. E quindi lottate per ottenerlo!
Come? Ripudiando la mafia e i suoi perversi meccanismi con cui promette benefici a chi si lascia corrompere e impone uno stato di vergognosa arretratezza a tutto il resto del Paese”. Credo non possa esserci migliore chiusura per la nostra intervista.


Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.  È oggi uno dei più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali, un autorevole studioso a livello internazionale di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative a livello europeo.