ECONOMIA
L'analisi
86 anni fa la crisi del '29. Le foto di allora, i dubbi di oggi
Perché la grande recessione di oggi, la crisi detta dei “mutui subprime” non si è mai trasformata in qualcosa di paragonabile alla “grande depressione”? E come possiamo evitare di impantanarci nella grande stagnazione?



A partire da quel giovedì nero, infatti, la crisi partita dalla finanza si propagò senza trovare ostacoli in tutte le direzioni. L’America subì la peggiore distruzione di posti di lavoro mai vista, la disoccupazione arrivò ad un certo punto a toccare il 25% — livello tristemente raggiunto oggi in Europa in Spagna, in Grecia e in ampie zone dell’Italia del sud — gli Stati Uniti conobbero la povertà diffusa, e una nuova stagione di imponenti migrazioni interne, il crollo dei prodotti agricoli colpì in particolare le masse rurali nel cuore del paese che diedero vita a una migrazione biblica verso le città della costa, narrata splendidamente in “Furore” di Steinbeck, mentre l’industria non trovò mai più, fino alla seconda guerra mondiale, uno sbocco per la sua cronica sovracapacità produttiva. La grande depressione non risparmiò nessun comparto e nessuna nazione del mondo allora sviluppato.
Perché la grande recessione di oggi, la crisi detta dei “mutui subprime” non si è mai trasformata in qualcosa di paragonabile alla “grande depressione”?. Tra i massimi studiosi della “grande depressione” c’è quel Ben Bernanke cui toccò guidare la Federal Reserve durante la crisi provocata dal crak Lehman Brothers. In questi giorni Bernanke ha pubblicato la sua versione dei fatti. In un libro intitolato “Il coraggio di agire” sostiene che fu l’azione delle banche centrali a segnare la differenza. Mentre nel 1929 le autorità si limitarono ad assistere al collasso di una entità finanziara dopo l’altra, tra il 2008 e il 2010 la Fed agì da prestatore di urgenza, rifinanziò il sistema bancario, gli intermediari, i fondi, le banche centrali straniere, inondò il mercato di biglietti verdi, ingoiò migliaia di miliardi di crediti deteriorati consentendo al sistema di tornare liquido e attivo, impedendo, in ultima istanza, il panico.
Da questa ricostruzione dissente parzialmente il premio Nobel Paul Krugman, che pur dà atto a Bernanke di decisione e coraggio. Per lui decisiva per evitare un’altra depressione non è stata solo l’azione non convenzionale della Fed, ma anche la resilienza di uno stato sociale molto più solido e importante di quello di allora che ha sostenuto famiglie ed imprese nei momenti peggiori, un apparato di welfare che negli anni ’30 non era concepito neppure come modello teorico. Ne è prova, scrive Krugman, l’aumento importante del debito pubblico negli anni della crisi, che ha fatto da ammortizzatore al collasso del debito privato.
E’ interessante anche la diagnosi che Bernanke fa della crisi. Secondo lui se da una parte Lehman Brothers non era salvabile perché troppo esposta, in altre parole non aveva più collaterale per ottenere prestiti, il sistema finanziario rimaneva sufficientemente forte per reagire, a condizione di evitare il panico. Panico generato dalla scarsa trasparenza nel settore del credito. I mutui subprime, quelli concessi con leggerezza a soggetti non in grado di ripagarli, erano appena il 16% del totale. L’azione decisa della Fed e le successive operazioni di vigilanza per la trasparenza del settore bancario, furono in effetti tali da far emergere abbastanza rapidamente dalla crisi i soggetti più solidi.
Quel che manca nell’analisi di Bernanke è una teoria convincente del perché la crisi del 2008 sia esplosa, scrive sul Washington Post Robert Samuelson, il quale poi punta il dito contro l’eccesso di fiducia nel futuro, la trascuratezza con cui venivano concessi crediti a chiunque. La domanda è importante perché, a distanza di sette anni, non si è del tutto certi che la crisi sia veramente finita. I tassi di interesse sono ancora a zero, la Cina rallenta e il fardello del debito continua a condizionare il ritmo di crescita (anemico) dell’eurozona. Non abbiamo avuto la grande depressione ma potrebbe toccarci, come scrive Lawrence Summers, la “stagnazione secolare”, con una economia che tarderebbe ancora venti o trenta anni per ritrovare il ritmo e la brillantezza dei primi anni 2000.
“Una crescita solida è più difficile che gonfiare delle bolle”, è il titolo di un editoriale di Martin Wolf, appena apparso sul Financial Times, dedicato alla frenata cinese. “Il mondo ha appena perso il suo ultimo, significativo, motore della domanda” scrive Wolf, sottolineando come, in realtà, ancora una volta, oggi come nel ’29, il problema è sollecitare una domanda sufficiente per i beni e i servizi che il nostro sistema è in grado di produrre in quantità praticamente infinite.
Dalla crisi del '29 si uscì con un vertiginoso aumento della domanda pubblica, una guerra mondiale e decadi di inflazione che tra tanti guai fecero però sparire i debiti. Finita la grande recessione come possiamo evitare di impantanarci nella grande stagnazione?
Investimenti, investimenti, investimenti. Questo il mantra del Fondo Monetario. Ma chi dovrebbe farli? E per finanziare cosa? Una buona domanda per l’Europa in crisi di domanda.