Original qstring:  | /dl/archivio-rainews/articoli/Aldo-Moro-lo-statista-e-il-suo-dramma-Intervista-a-Guido-Formigoni-e6d670a3-a942-4993-80ba-c776c946cdc7.html | rainews/live/ | true
CULTURA

A 100 anni dalla nascita

Aldo Moro, lo statista e il suo dramma. Intervista a Guido Formigoni

​Domani al Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e delle alte cariche dello Stato, si svolgerà la Cerimonia per il Centenario della nascita di Aldo Moro. Lo statista pugliese è stato l’uomo più importante, dopo De Gasperi, per la democrazia italiana. La sua tragica fine, ucciso barbaramente dalle BR, segnò per sempre la storia dell’Italia repubblicana e della Democrazia Cristiana. Quali sono le radici politiche di Aldo Moro? Cosa ha significato Moro per la democrazia italiana? Di questo, e altro, parliamo con lo storico Guido Formigoni, Ordinario di Storia Contemporanea all’Università IULM di Milano. Formigoni è un conoscitore profondo della vicenda politica morotea. E’ appena uscita, per la casa editrice Il Mulino, una biografia sul leader democristiano: Aldo Moro, Lo statista e il suo dramma.

Condividi
di Pierluigi Mele
Professor Formigoni, il 23 settembre sono cento anni dalla nascita Aldo Moro, lei ha appena pubblicato una corposa biografia, per la casa editrice Il Mulino, sullo statista pugliese. Il suo è stato un lavoro profondo di ricerca archivistica. Quali novità storiografiche sono presenti nel suo libro? 

Ho tentato di dare un’immagine di Moro che tenga assieme gli aspetti diversi della sua personalità, come uomo, credente, intellettuale, giurista, marito e padre di famiglia, oltre che politico. Non è cosa semplice, soprattutto per la riservatezza del suo carattere, che ha lasciato poche tracce. Ma egli, pur essendo profondamente dedito alla sua vocazione politica, non ha mai voluto essere un “politico di professione”. Poi, ho voluto inserire la sua biografia su uno sfondo internazionale complessivo (le carte americane sono a questo proposito molto utili) e in una comprensione più articolata del dibattito politico interno alla Dc (soprattutto in alcuni momenti cruciali). La documentazione inedita aiuta a fare qualche passo avanti in questa direzione.
Devo anche dire che ho tentato di fare un lavoro che sia simpatetico con il personaggio (condizione necessaria per capirlo), ma non agiografico. Ho anche individuato alcuni limiti e soprattutto una tensione interna alla sua politica, che mi ha fatto usare il sottotitolo “Lo statista e il suo dramma”. Non solo il dramma dell’assassinio, ma della crescente difficoltà che egli sperimentò a far convergere tutti gli elementi della sua proposta politica.

Sicuramente dopo De Gasperi è l'uomo più importante nella storia della democrazia italiana. Qual era la sua visione della politica? Per alcuni, denigratori, rappresentava "gli arcani del potere". Invece era l'uomo che guardava lontano, nel senso che capiva i movimenti profondi della società italiana. Perché questa dicotomia?

Il suo modo di far politica, e anche la sua peculiare leadership, erano in effetti complessi da capire. Non tanto per il luogo comune del linguaggio astruso (che gli fu cucito addosso: fu la stampa a confezionare addirittura alcune delle famose espressioni contraddittorie, come “convergenze parallele”). In realtà egli parlava con grande logicità e chiarezza, anche se non era certo un demagogo e forse era un po’ prolisso e qualche volta noioso. Ma il problema è più profondo. Da una parte egli capiva in anticipo molti problemi e sapeva dove voleva andare: aveva un progetto, un discorso sul ruolo dello Stato rispetto alla società e sul ruolo dell’Italia nel mondo, che erano indubbiamente lungimiranti. Ma aveva poi la convinzione che questo progetto andasse perseguito con grande prudenza e trainandosi per così dire un mondo che era lontano, distratto, problematico. Per non causare controreazioni pericolosissime (in un paese dalla democrazia fragile e incerta), non bisognava mai forzare. Costruire piuttosto lentamente il consenso. Qui stanno le origini sia di alcuni suoi grandi successi, sia di una possibile rilettura del suo ruolo come pigro insabbiatore delle novità, quando non riusciva a rendere palese che le sue lentezze erano mirate a non pregiudicare un obiettivo, e non semplicemente frutto di conservatorismo. Comunque, quando lo riteneva necessario, sapeva usare la battaglia e la durezza del confronto delle idee: si pensi alla lotta contro il ritorno indietro reazionario dei primi anni Settanta.

Moro è un "figlio" spirituale di Montini (che diventerà, poi, Papa Paolo VI). La sua era una spiritualità profonda, per certi versi, a mio modo di vedere, anche mistica. Quali sono le radici della spiritualità morotea?

Certo, abbiamo coscienza di un legame con la cultura montiniana e la sintesi tra fede e modernità che essa perseguiva. Però abbiamo poche tracce per indicare i tratti profondi e personali della sua spiritualità. Possiamo ricordare la frequentazione diretta del Vangelo fin da giovane, il piacere nell’incontrare il Concilio (anche se non ne parlò mai in pubblico), alcuni struggenti cenni di fede negli scritti dalla prigionia brigatista. Non so se si possa parlare di mistica, ma certo di una fede interiorizzata e vissuta, che ogni giorno guidava la vita.

Qual è stato il contributo più importante di Aldo Moro nella storia dei cattolici italiani?

Forse il suo impegno a costruire le premesse di una autonomia della Dc dalla Chiesa, costruita non su una laicizzazione qualunque, ma sulla coscienza di un’assunzione di responsabilità del laicato, nel dialogo onesto con la comunità cristiana tutta. La battaglia sul centro-sinistra (osteggiato dalla gerarchia) coincide con questo difficilissimo processo, che riesce a ottenere risultati importanti (anche se la generazione successiva alla sua non coltiverà molto tale assetto). La sua idea di ispirazione cristiana come “principio di non appagamento” e stimolo interiore verso la giustizia, espressa nel congresso della Dc del 1973, è il risvolto ulteriore di questa coscienza forte di una unità tra fede e vita non giocata sul richiamo confessionale, ma piuttosto sulla coerenza delle scelte quotidiane.

Quest'uomo mite aveva molti nemici (dagli Usa alla destra cattolica). Dove nasce quest’odio? Cosa faceva paura di Aldo Moro?

Non solo la destra cattolica, ma tutta la destra. Pensiamo alla P2. Pensiamo a una certa stampa ferocemente a lui avversa. Nel caso degli Stati Uniti bisogna distinguere: da una parte c’è la vera ostilità preconcetta di Kissinger, dall’altra invece ci sono ambienti politici e diplomatici che percepiscono la sua capacità politica e lo stimano e apprezzano (soprattutto nel mondo progressista kennediano). Nei suoi nemici c’era probabilmente proprio la consapevolezza che egli guardava altrove e che poteva riuscire a realizzare progetti di cambiamento, non era solo un innocuo utopista. In questo senso era percepito come più pericoloso di altri: era un vero statista, non un predicatore qualunque.

L'idea di Moro sulla DC era un’idea riformista e progressista, pur nei limiti della struttura del partito. E’ così?

Beh, lui si rende conto che la Dc è (degasperianamente) un partito composito che deve stare al centro del sistema e garantire in qualche modo il suo equilibrio complessivo. Cioè appunto la sua lenta trasformazione verso il modello dello Stato sociale previsto dalla Costituzione. In questo senso la Dc per lui va guidata dall’interno con abilità e prudenza, senza forzature, portandosi dietro possibilmente tutto il moderatismo. Per questo spesso interloquisce con le correnti della sinistra interna, ma solo tra il 1969 e il 1973 si fa mettere nell’angolo con le sinistre: lui voleva piuttosto gestire in modo progressista un partito ambivalente, non fare semplicemente testimonianza dall’opposizione.

La "terza fase", il disegno politico-strategico moroteo, si interruppe con la sua tragica fine. Quale sarebbe stato lo sviluppo della democrazia italiana?

Questo è difficile dirlo. C’è una controversia sul modo di intendere il progetto della terza fase. Recentemente molti hanno messo l’accento sulla sua volontà di fermare l’avanzata comunista, di logorare il Pci in mezzo al guado. Io non credo sia da leggere in questo modo. E’ chiarissimo da tutte le fonti che egli non pensi al governo insieme al Pci: non accetta la proposta berlingueriana del compromesso storico.
Pensa che non sarebbe accettabile né nel paese né a livello internazionale, e soprattutto vede ancora la lentezza del processo di ripensamento del partito comunista. Ma pensa necessaria una fase di avvicinamento e rilegittimazione reciproca per coinvolgere il Pci più radicalmente sul terreno della difesa delle istituzioni democratiche, in modo da favorire il suo processo di revisione ideologica e politica. Al fondo di questo percorso forse ci sarebbe stato il superamento della “democrazia diffiicile” segnata dall’impatto delle guerra fredda. Ma non è certo facile immaginare in che modi e in che tempi.

A quasi 40 anni dalla sua morte resta sempre la domanda: perché fu ucciso?

Sicuramente fu ucciso dalla follia brigatista che vedeva in lui ben più di un semplice simbolo del potere democristiano, ma propriamente colui che poteva stabilizzare la democrazia (con il suo dialogo con il Pci, ma anche con la sua attenzione ai movimenti sociali post-sessantottini). Poi, è evidente che i cinquantacinque giorni sono ancora un buco nero in cui non sappiamo tutta la verità, nemmeno su aspetti molto banali e concreti (la prigione, i tempi…). Per cui c’è la sensazione che sull’azione delle Br forse si sia innestata anche la volontà di altri ambienti che odiavano il suo ruolo politico. Si è spesso citato la Cia o il Kgb (senza nessun appiglio diretto in realtà). Forse sarebbe anche da guardare a centri di potere interni alla società italiana, che condizionavano ad esempio la passività degli apparati di sicurezza…

Cosa resta della sua lezione politica?

A tratti sembra di essere ormai troppo lontani dai suoi giorni per poter parlare di una lezione viva. Anche perché purtroppo la sua assenza non ha aiutato una continuità delle sue intuizioni, dei suoi metodi e della sua ispirazione. Ma credo senz’altro che anche la politica attuale potrebbe imparare dalla sua capacità di intuire i problemi storici senza farsi condizionare troppo dall’attualità, dalla sua volontà di usare in modo mite la parola e la ragione per ricondurre sempre le tensioni su un terreno di dialogo e di crescita della democrazia, della sua arte della mediazione non finalizzata alla propria sopravvivenza, ma all’evoluzione lenta e sicura di un sistema fragile come la democrazia italiana.