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MONDO

Alta tensione

Arabia Saudita-Iran: conflitto religioso o lotta per la supremazia nella regione?

Nelle sabbie mobili della regione è chiaro che Teheran ha guadagnato terreno. Riyadh ne è cosciente, considera l’indecisione americana parte del problema e cerca di provocare una reazione iraniana che possa mettere in discussione gli accordi nucleari di luglio.

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di Zouhir Louassini Roma
L’alta tensione tra l’Arabia Saudita e l’Iran fa parte della cronaca d’una guerra annunciata. La storia conflittuale dei due paesi e i problemi religiosi tra sciiti e sunniti non possono nascondere una lotta di potere nella regione che dura da decenni. Basta dare una rapida occhiata all’ubicazione geografica dei due stati per capire che il conflitto è molto più complesso di quello che pare. E come sempre, nei conflitti di questo genere, non ci sono buoni o cattivi ma solo interessi da saper decifrare.

Ci troviamo di fronte a due regimi dittatoriali e teocratici che cercano da anni, ognuno a modo suo, di dominare la regione del Golfo. I sauditi giocano con il vantaggio d’una “alleanza naturale” con i paesi sunniti. L’islam è nato nel suo territorio e fino oggi i musulmani, inclusi gli sciiti, si dirigono cinque volte verso la Mecca per le loro preghiere. L’importanza simbolica dell’Arabia Saudita nel mondo islamico è fuori dubbio.

L’Iran invece è il punto di riferimento del 10% dei musulmani, quelli sciiti, che trovano in Teheran il paladino che difende la loro esistenza. Lo sfondo religioso e simbolico è importante ma non sufficiente per giustificare l’escalation degli ultimi giorni.

L’isolamento internazionale in cui è vissuta la Repubblica Islamica Iraniana dopo la caduta dello Scià nel 1979, è stato ammorbidito dopo la firma dell’accordo nucleare con gli Stati Uniti nel luglio del 2015. I mass media occidentali hanno evidenziato le preoccupazioni israeliane per l’accordo, ma poco si è detto, nonostante la risposta “diplomatica” dell’Arabia Saudita, di come questo accordo abbia segnato una battuta di arresto di Riyadh nel tentativo di isolare ancora di più il suo nemico regionale per eccellenza.

La stampa dei paesi del Golfo ha mostrato tutta la sua delusione per la decisione americana di aprire le porte al dialogo con l’Iran. L’Arabia Saudita, in questo senso, si è sentita abbandonata dagli Stati Uniti con il bisogno di reagire anche senza l’approvazione del suo migliore alleato. L’uccisione “provocatoria” del leader sciita al-Namer fa parte di questa reazione unilaterale e calcolata.

Se si guardano gli ultimi conflitti nell’area che hanno visto contrapposte le due  potenze appare evidente la supremazia di Teheran: il regime siriano è riuscito a resistere, lo Yemen, che sembrava un conflitto facile da risolvere militarmente, è risultato arduo grazie all’appoggio che Teheran fornisce agli Houthi, l’Iraq è stato quasi un regalo che gli americani hanno fatto agli Ayatollah, almeno così è letta la situazione dal punto di vista di Riyadh. L’unica battaglia vinta rimane quella del Bahrain che non è sufficiente per tranquillizzare la monarchia saudita.

Nelle sabbie mobili della regione è chiaro che Teheran ha guadagnato terreno. Riyadh ne è cosciente, considera l’indecisione americana parte del problema e cerca di provocare una reazione iraniana che possa mettere in discussione gli accordi nucleari di luglio.

L’escalation tra i due stati è l’ennesima prova dell’incapacità della  comunità internazionale di avere un ruolo propositivo nella soluzione dei diversi conflitti  che infiammano l’area. L’elemento religioso è utile certamente a giustificare un possibile scontro diretto tra le due potenze ma è evidente che i reali interessi in gioco son ben altri.