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CULTURA

Gli articoli su Rinascita

Berlinguer, teoria e tecnica del compromesso storico

Nell'autunno del 1973, con tre articoli pubblicati dalla rivista Rinascita, il segretario del Pci Enrico Berlinguer getta le basi ideologiche di quello che passerà poi alla storia come il "compromesso storico"

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Enrico Berlinguer ed Aldo Moro nel 1977
Alla voce “compromesso storico”, l’enciclopedia Treccani recita: “Espressione con cui si indica la strategia politica elaborata e sostenuta, tra il 1973 e il 1979, dal Partito comunista italiano, in seguito alla riflessione compiuta dal segretario E. Berlinguer sull’esperienza cilena del governo di Unidad Popular di S. Allende . Tale strategia si fondava sulla necessità della collaborazione e dell’accordo fra le forze popolari di ispirazione comunista e socialista con quelle di ispirazione cattolico-democratica, al fine di dar vita a uno schieramento politico capace di realizzare un programma di profondo risanamento e rinnovamento della società e dello Stato italiani, sulla base di un consenso di massa tanto ampio da poter resistere ai contraccolpi delle forze più conservatrici. Essa trovò parziali applicazioni prima nell’astensione del PCI sul governo Andreotti nel 1976-77, quindi nell’esperienza dei governi di solidarietà nazionale (1978-79), ma l’omicidio di A. Moro, principale interlocutore del progetto di Berlinguer, avvenuto proprio all’inizio di tale esperienza (9 mag. 1978), contribuì fortemente al suo fallimento”.

All’idea, prima che ancora alla definizione di compromesso storico, Berlinguer arrivò seguendo un percorso ideale che partiva almeno dalla Costituente repubblicana dove l’allora segretario del Pci Palmiro Togliatti seguì una linea di non belligeranza e di collaborazione con la Dc in primis ma comunque con tutte le forze democratiche presenti nell’Italia post fascista. Un’idea nata quindi almeno un quarto di secolo prima dei fatti cileni ma che il sanguinario golpe di Augusto Pinochet dimostrò essere quasi imprescindibile. Nella realtà politica degli anni ’70, con un mondo rigidamente diviso in blocchi, era infatti impensabile un governo a partecipazione comunista nel cosiddetto mondo occidentale. L’assassinio di Salvador Allende ne era la dimostrazione.

Di seguito il secondo dei tre articoli a firma di Enrico Berlinguer che furono pubblicati nelle settimane successive al golpe cileno sulla rivista Rinascita e che costituiscono la base del “compromesso storico”:

“È necessario ricordare sempre le ragioni di fondo che ci hanno portato a elaborare e a seguire quella strategia politica che Togliatti chiamò di 'avanzata dell’Italia verso il socialismo nella democrazia e nella pace'. È noto che le origini di questa elaborazione stanno nel pensiero e nell’azione di Antonio Gramsci e del gruppo dirigente che si raccolse attorno a lui e lavorò nel solco del suo insegnamento. Il Congresso di Lione del 1926 sancì la vittoria della lotta contro l’estremismo e il settarismo che avevano caratterizzato l’azione del partito nel primissimo periodo della sua esistenza e che Lenin aveva aspramente criticato e invitato energicamente a superare. Il Congresso di Lione segnò l’avvio di quella analisi comunista della storia e delle strutture della società italiana che fu poi sviluppata e approfondita da Gramsci negli scritti dal carcere e negli orientamenti e nell’attività del gruppo dirigente, guidato da Togliatti, che fu alla testa del partito durante gli anni del fascismo e che lo rese capace di svolgere azione politica.

(...)

Dopo la liberazione, riconquistate le libertà democratiche, l’Italia si trovò nelle condizioni di paese occupato dagli eserciti delle potenze capitalistiche (Stati Uniti, Gran Bretagna). Questo dato di fatto non poteva davvero essere sottovalutato, così come successivamente e ancor oggi non può essere sottovalutato il dato – che abbiamo già ricordato – costituito dalla collocazione dell’Italia in un determinato blocco politico-militare. Dove, come nella Grecia del 1945, questa condizione internazionale non fu considerata in tutte le sue implicazioni, il movimento operaio e comunista andò incontro alla avventura, subì una tragica sconfitta e venne ricacciato indietro, in quella situazione di clandestinità dalla quale era appena uscito.

Ma non fu questo il solo fattore che determinò le nostre scelte di strategia e di tattica. Il senso più profondo della svolta stava nella necessità e nella volontà del partito comunista di fare i conti con tutta la storia italiana, e quindi anche con tutte le forze storiche (d’ispirazione socialista, cattolica e di altre ispirazioni democratiche) che erano presenti sulla scena del paese e che si battevano insieme a noi per la democrazia, per l’indipendenza del paese e per la sua unità. La novità stava nel fatto che nel corso della guerra di liberazione si era creata una unità che comprendeva tutte queste forze. Si trattava di una unità che si estendeva dal proletario, dai contadini, da vasti strati della piccola borghesia fino a gruppi della media borghesia progressiva, a gran parte del movimento cattolico di massa e anche a formazioni e quadri delle forze armate.

'Noi eravamo stati in prima fila tra i promotori, organizzatori e dirigenti di questa unità, che possedeva un suo programma di rinnovamento di tutta la vita del paese, un programma che non venne formulato in tavole scritte se non parzialmente, ma era orientato verso la instaurazione di un regime di democrazia politica avanzata, riforme profonde di tutto l’ordinamento economico e sociale e l’avvento alla direzione della società di un nuovo blocco di forze progressive. La nostra politica consistette nel lottare in modo aperto e coerente per questa soluzione, la quale comportava uno sviluppo democratico e un rinnovamento sociale orientati nella direzione del socialismo. Non è, dunque, che noi dovessimo fare una scelta tra la via di una insurrezione legata alla prospettiva di una sconfitta, e una via di evoluzione tranquilla, priva di asprezze e di rischi. La via aperta davanti a noi era una sola, dettata dalle circostanze oggettive, dalle vittorie riportate combattendo e dalla unità e dai programmi sorti nella lotta. Si trattava di guidare e spingere avanti, sforzandosi di superare e spezzare tutti gli ostacoli e le resistenze, un movimento reale di massa, che usciva vittorioso dalle prove di una guerra civile. Questo era il compito più rivoluzionario che allora si ponesse, e per adempierlo, concentrammo le forze'. Così Togliatti si esprimeva in quella magistrale sintesi della nostra politica con la quale aprì il rapporto presentato al X Congresso del partito.

Sappiamo bene che la politica di rottura dell’unità delle forze popolari e antifasciste perseguìta dai gruppi conservatori e reazionari interni e internazionali e dalla Democrazia cristiana – una politica che il paese ha pagato duramente – ha interrotto il processo di rinnovamento avviato dalla Resistenza. Essa non è però riuscita a chiuderlo. Un esteso e robusto tessuto unitario ha resistito nel paese e nelle coscienze a tutti i tentativi di lacerazione; e questo tessuto, negli ultimi anni, ha ripreso a svilupparsi, sul piano sociale e su quello politico, in forme nuove, certo, ma che hanno per protagoniste le stesse forze storiche che si erano unite nella Resistenza.

Il compito nostro essenziale – ed è un compito che può essere assolto – è dunque quello di estendere il tessuto unitario, di raccogliere attorno a un programma di lotta per il risanamento e rinnovamento democratico dell’intera società e dello Stato la grande maggioranza del popolo, e di far corrispondere a questo programma e a questa maggioranza uno schieramento di forze politiche capace di realizzarlo. Solo questa linea e nessun’altra può isolare e sconfiggere i gruppi conservatori e reazionari, può dare alla democrazia solidità e forza invincibile, può far avanzare la trasformazione della società. In pari tempo, solo percorrendo questa strada si possono creare fin d’ora le condizioni per costruire una società e uno Stato socialista che garantiscano il pieno esercizio e lo sviluppo di tutte le libertà.

Abbiamo sempre saputo e sappiamo che l’avanzata delle classi lavoratrici e della democrazia sarà contrastata con tutti i mezzi possibili dai gruppi sociali dominanti e dai loro apparati di potere. E sappiamo, come mostra ancora una volta la tragica esperienza cilena, che questa reazione antidemocratica tende a farsi più violenta e feroce quando le forze popolari cominciano a conquistare le leve fondamentali del potere nello Stato e nella società. Ma quale conclusione dobbiamo trarre da questa consapevolezza? Forse quella, proposta da certi sciagurati, di abbandonare il terreno democratico e unitario per scegliere un’altra strategia fatta di fumisteria, ma della quale è comunque chiarissimo l’esito rapido e inevitabile di un isolamento dell’avanguardia e della sua sconfitta? Noi pensiamo, al contrario, che, se i gruppi sociali dominanti puntano a rompere il quadro democratico, a spaccare in due il paese e a scatenare la violenza reazionaria, questo deve spingerci ancora più a tenere saldamente nelle nostre mani la causa della difesa delle libertà e del progresso democratico, a evitare la divisione verticale del paese e a impegnarci con ancora maggiore decisione, intelligenza e pazienza a isolare i gruppi reazionari e a ricercare ogni possibile intesa e convergenza fra tutte le forze popolari.

(...)

Proprio la fermezza e la coerenza nell’attuazione di questi princìpi e di questi metodi di lotta politica hanno consentito di abbattere la tirannide fascista, di ristabilire un regime democratico e di far fallire i tentativi compiuti dalle forze conservatrici e reazionarie – da Scelba fino ad Andreotti – di colpire le libere istituzioni o comunque di ricacciare indietro il movimento operaio e popolare. Così è avvenuto, a partire dal 1947-’48, nella lotta contro la politica di discriminazione, le persecuzioni e gli attentati liberticidi dei governi centristi. Così è avvenuto nel 1953 quando fu battuto il tentativo di distorcere in senso antidemocratico, con la legge-truffa, il meccanismo elettorale e la rappresentatività del Parlamento. Così è avvenuto nel 1960, quando fu stroncata sul nascere l’avventura autoritaria iniziata dal governo Tambroni. Così è avvenuto nel 1964, quando furono sventate le manovre antidemocratiche e i propositi di colpi reazionari che videro anche il tentativo di coinvolgere e di utilizzare contro la Repubblica una parte delle forze armate e dei corpi di pubblica sicurezza. Così è avvenuto dal 1969, nella lotta contro la catena di atti di provocazione e di sedizione reazionaria e fascista, ispirati e sostenuti anche da circoli imperialistici e fascisti di altri paesi, con i quali si cercò di alimentare un clima di esasperata tensione e di determinare una situazione di marasma politico ed economico per aprire la via a soluzioni autoritarie, anticostituzionali o comunque a una duratura svolta verso destra.

In tutti questi casi noi abbiamo sempre risposto facendo nostra la bandiera della difesa della libertà e del metodo della democrazia, chiamando a lotte che sono state anche assai aspre, le grandi masse lavoratrici e popolari, e promuovendo la più ampia intesa e convergenza tra tutte le forze interessate alla salvaguardia dei princìpi della Costituzione antifascista.

(...)

Sbagliato ci è sembrato sempre anche definire la via democratica semplicemente come una via parlamentare. Noi non siamo affetti da cretinismo parlamentare, mentre qualcuno è affetto da cretinismo antiparlamentare. Noi consideriamo il Parlamento un istituto essenziale della vita politica e non soltanto oggi ma anche nella fase del passaggio al socialismo e nel corso della sua costruzione. Ciò tanto più è vero in quanto la rinascita e il rinnovamento dell’istituto parlamentare è, in Italia, una conquista dovuta in primo luogo alla lotta della classe operaia e delle masse lavoratrici. Il Parlamento non può dunque essere concepito e adoperato come avveniva all’epoca di Lenin e come può accadere in altri paesi solo come tribuna per la denuncia dei mali del capitalismo e dei governi borghesi e per la propaganda del socialismo. Esso, in Italia, è anche e soprattutto una sede nella quale i rappresentanti del movimento operaio sviluppano e concretano una loro iniziativa, sul terreno politico e legislativo, cercando di influire sugli indirizzi della politica nazionale e di affermare la loro funzione dirigente. 

(...)

Ma vi è anche un altro aspetto assai importante della nostra strategia democratica. La decisione del movimento operaio di mantenere la propria lotta sul terreno della legalità democratica non significa cadere in una sorta di illusione legalitaristica rinunciando all’impegno essenziale di promuovere, sia da posizioni di governo che stando all’opposizione, una costante iniziativa per rinnovare profondamente in senso democratico le leggi, gli ordinamenti, le strutture e gli apparati dello Stato. La stessa nostra esperienza, prima ancora di quella di altri paesi, ci richiama a tenere sempre presente la necessità di unire alla battaglia per le trasformazioni economiche e sociali quella per il rinnovamento di tutti gli organi e i poteri dello Stato. L’impegno in questa direzione deve tradursi in una duplice attività: quella diretta a far sì che in tutti i corpi dello Stato e in coloro che vi lavorano penetrino e si affermino sempre più estesamente orientamenti ispirati a una cosciente fedeltà e lealtà alla Costituzione e sentimenti di intimo legame con il popolo lavoratore; e quella diretta a promuovere misure e provvedimenti concreti di democratizzazione nell’organizzazione e nella vita della magistratura, dei corpi armati e di tutti gli apparati dello Stato. Quest’azione può contribuire in misura assai rilevante a far sì che il processo di trasformazione democratica della società non prenda indirizzi unilaterali e non determini uno squilibrio tra settori che vengono investiti da questi processi e altri che ne vengono lasciati fuori o che vengono respinti in posizioni di ostilità: rischio, questo, gravissimo e che può divenire fatale.

In definitiva, le prospettive di successo di una via democratica al socialismo sono affidate alla capacità del movimento operaio di compiere le proprie scelte e di misurare le proprie iniziative in relazione, oltre che al quadro internazionale, ai concreti rapporti di forza esistenti in ogni situazione e in ogni momento, e alla sua capacità di badare, costantemente, alle reazioni e contro-reazioni che l’iniziativa trasformatrice determina in tutta la società: nell’economia, nelle strutture e negli apparati dello Stato, nella dislocazione e negli orientamenti delle varie forze sociali e politiche e nei loro reciproci rapporti. Si ripropongono così i problemi dei criteri di valutazione dei rapporti di forza, della politica delle alleanze, del rapporto tra trasformazioni sociali e sviluppo economico e i problemi degli schieramenti politici".
 
5 ottobre 1973