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MONDO

Cina-Taiwan, una guerra anche psicologica

Il caso dei vascelli pirata cinesi dragatori di sabbia nelle isole intorno a Taiwan

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di Maria Novella Rossi

"Vincere il nemico senza combattere. È quella la massima abilità”.

 E’ una delle frasi divenute ormai celebri tratte da “L’arte della guerra” di Sun Tzu, il classico di strategia militare risalente al VI secolo a. c. L’ aforisma rivela quanto sia radicato nella cultura cinese il concetto di studiare, osservare e sfiancare il nemico per poi vincerlo senza attaccarlo. Una tattica che Pechino mette in atto da tempi immemorabili per far fronte a qualunque criticità, un tratto culturale che ritroviamo anche oggi, applicato visibilmente sotto varie forme nel  conflitto Cina/USA ormai in escalation: dalla guerra commerciale a quella tecnologica, e in generale a quella geopolitica, l’avanzata di Pechino si nutre di questo approccio che di volta in volta si modella sull’obiettivo da raggiungere.

Le incursioni dei vascelli pirata battenti bandiera cinese per pescare sabbia nelle Matsu, le isole dell’arcipelago di Taiwan, si inquadrano in questa filosofia strategica: scorrerie piratesche che si sono intensificate nelle ultime settimane con la stagione delle maree, favorevole al dragaggio di una materia prima largamente usata nelle costruzioni e nell’industria delle infrastrutture in Cina. Il mese scorso la guardia costiera di Nangan ha espulso 59 imbarcazioni illegali che raccoglievano sabbia nelle acque distanti appena 10 chilometri dalle coste cinesi del Fujien, nel sud della Repubblica Popolare. Un fenomeno che incalza per rispondere alla richiesta pressante delle città costiere della Cina continentale bisognosa di una delle merci più usate al mondo nell’edilizia.

I “pescatori di sabbia” costituiscono una minaccia per i 13.000 abitanti del territorio insulare delle Matsu intorno a Taiwan, scrive il Financial Times, una sorta di intimidazione psicologica nei confronti degli abitanti locali, secondo Su Tzu yun, studioso del Ministero della Difesa di Taipei.

“Le imbarcazioni cinesi che  agiscono privatamente  per procurarsi la sabbia”, sostiene lo studioso, “fanno parte di quella zona grigia tattica usata da Pechino per sfiancare le capacità difensive dell’isola usando anche una forma di intimidazione sulla popolazione senza ricorrere alla forza militare”.

I vascelli, con una stazza da 1000 a 9000 tonnellate, arrivano fino a 100 metri di lunghezza, e costituiscono una piccola flotta che in un primo momento operava tra Nangan e le Xiju, circa 600 chilometri da Taipei, ma poi hanno cominciato minacciosamente a sconfinare nelle acque sotto la giurisdizione  di Taiwan tanto che la guardia costiera locale ha sparato persino con i cannoni ad acqua per farli retrocedere verso la Cina.

Dietro il dragaggio massiccio di sabbia ci sono interessi e dinamiche diverse. Le più evidenti vanno in due direzioni opposte: da una parte i profitti della vendita della sabbia in territorio cinese, un business da capogiro (tanto per dare un’idea, la sabbia trasportata in una barca da 5000 tonnellate può essere venduta a circa 64.000 euro); dall’altra la strategia e la provocazione, la guerra psicologica portata avanti da Pechino per fiaccare la  resistenza dell’isola di Taiwan che il governo cinese centrale considera una provincia ribelle. 

Nell’ultimo anno la tensione tra Repubblica Popolare e Taiwan è andata via via crescendo: l’Esercito Popolare di Liberazione ha condotto almeno un’operazione al giorno nell’isola inviando velivoli da guerra nella zona di identificazione di difesa aerea.

E così le autorità di Taipei sembrano chiuse in un tunnel senza via di uscita: da una parte l’idea di assistere impotente alla distruzione del proprio ambiente naturale da parte dei pescatori di sabbia cinesi, dall’altra l’ipotesi di reagire attivamente, ma questo significherebbe dare alla Cina il pretesto per incrementare una tensione che sembra già alle stelle.