MONDO
A 40 anni dalla caduta di Saigon
Vietnam, l’Africa di ieri: i primi boat people sono partiti da lì
Tra il 1970 e il 1997 si stima che 2 milioni di profughi siano fuggiti dal Vietnam (durante la guerra e negli anni immediatamente successivi) e abbiano affrontato il Mare Cinese Meridionale, i pirati e la morte per raggiungere i Paesi vicini. In alcuni casi, come racconta una dei sopravvissuti, gli eserciti che volevano respingerli li trascinavano in mezzo al mare e li abbandonavano dopo averli derubati di viveri, bussole e oggetti di valore.

Con gli oltre 1700 migranti annegati nel Mediterraneo da gennaio ad oggi si ripete una tragedia iniziata negli anni Settanta in Vietnam. È dalle macerie dell’Indocina – in guerra prima e guidata dal regime comunista poi – che fuggono infatti i primi boat people della Storia. Lo schema della disperazione è sempre lo stesso: famiglie lacerate dove i genitori vendono tutto e fanno partire i figli, barchette di legno stracolme di uomini e di fame, Paesi di approdo che dopo la selezione impietosa delle acque si trovano costretti ad accoglierli controvoglia. Nel caso dell’esodo vietnamita, ad esempio, l’Indonesia accorderà all’UNHCR la costruzione dei campi a patto di non assorbire nessun profugo, di non investire risorse e di evitare qualsiasi contatto con la popolazione locale.
La traversata e le navi che rifiutavano di aiutarli
Fino al 1975, anno della fine della Guerra in Vietnam, scappano dalla morte, dalle bombe e dalla miseria di un conflitto la cui fine sembra irraggiungibile. Con la presa di Saigon a fuggire sono soprattutto le persone del ceto medio, chi si trovava dalla parte sbagliata dopo la vittoria del Nord. Circa 2 milioni di vietnamiti hanno affrontato il mare: incontrano mercantili che rifiutano di caricarli perché sanno che nessun porto li avrebbe fatti sbarcare, vengono aggrediti e derubati dai pirati. Almeno mezzo milione, si stima, non ce l’ha fatta ed è annegato nel Mar Cinese Meridionale.
I campi profughi e la crisi umanitaria
Chi sopravvive arriva in Malesia, in Indonesia, Hong Kong (allora colonia britannica) e nelle Filippine dove l’UNHCR ha aperto alcuni campi profughi. Ci sono templi buddisti per i migranti, moschee (per il personale locale) e chiese (per i volontari di mezzo mondo), una scuola inglese e una francese per prepararli al futuro. Il piano è chiaro, come dimostra il caso di Pulau Galang (il più grande), la permanenza deve essere limitata: vengono aperte una scuola inglese e una francese per preparare i vietnamiti alla loro seconda vita – che arrivava dopo mesi o anni - la naturalizzazione: 420 mila negli Stati Uniti, 110 mila in Australia, 103 mila in Canada, le prime tre mete. Un destino cui non tutti hanno diritto: 127 mila vietnamiti vengono rimpatriati. All’inizio con un programma volontario (ne esiste uno anche oggi in Italia) poi forzato: la sola Hong Kong ne ha rimandati in Vietnam 67 mila nel 2000, chiudendo così definitivamente il campo di Pillar Point 25 anni dopo il primo arrivo di 3700 persone su una fregata danese.
Carina Hoang, la voce dei sopravvissuti
Un esodo muto, cancellato dalla Storia, il cui ricordo sarebbe seppellito in una manciata di isole del Sudest asiatico e negli incubi dei profughi sopravvissuti se non fosse per Carina Hoang. Nata a Saigon, a 16 anni scappa insieme alla sorella e al fratello: di 373 profughi, 73 sono bambini. La speranza arriva e viene strappata via in un istante: mentre stanno per approdare in Malesia i militari saltano invece sulla barchetta e la trascinano in mezzo al mare legata ad una fune che strapperanno solo dopo averli derubati dell’oro, del cibo e delle mappe. Per miracolo approdano a Keramut, in Indonesia, stremati. La seconda vita per Carina arriva dopo la fame, la morte dei compagni di viaggio, la carenza cronica di acqua potabile, l’assenza di un futuro: gli Stati Uniti e, anni dopo, un marito e una figlia. Torna nel 1998 per la prima volta: vuole sistemare la tomba di un cugino a Pulau Galang e viene travolta dalla memoria, dal dolore, dal sollievo e dal terrore che nessuno ricorderà questo esodo. Torna di nuovo, nel 2009, guardando una parente capisce che tornando riesce a curare in qualche modo le ferite di una vita. Lo racconta su un quotidiano australiano, dove nel mentre si è trasferita, e decine di profughi le scrivono per ringraziarla, per chiederle come tornare in quei luoghi e pacificarsi.
Il Vietnam di allora, l’Africa di oggi
Da quel momento Carina Hoang inizia ad organizzare viaggi per accompagnare gli ex profughi nelle isole, a curare le tombe dei loro genitori e fratelli morti nei campi e a riconciliarsi con il passato: “Quando partiamo – racconta – la tensione è altissima, c’è molto silenzio, hanno paura di non trovare traccia dei parenti o di non reggere l’ondata di ricordi, poi quando trovano la lapide o aiutano gli altri allora è come se scoppiasse qualcosa, poi il clima diventa quasi disteso”. Molti di loro riescono a fare emergere episodi visti da bambini e in qualche modo a pacificarsi: episodi di cannibalismo, il senso di colpa per essere sopravvissuti ad un fratello, i pirati che stuprano la madre, l’orrore di vedere i proprio figli scavati dalla fame. Altri, nonostante gli anni nei loro nuovi Paesi non riescono a darsi pace. Marcelo Bundhowi, ex insegnante di inglese nel campo, quel dolore lo ha visto portarsi all’estremo, con decine di persone che nel limbo di Galang hanno tentato il suicidio oppure vissuto scoppi di violenza: “Erano sopraffatti dall’incertezza, accecati dal dolore delle perdite, volevano lavorare – spiega a decenni di distanza raccontando quello che cambiando le date non è che il dramma dei migranti che sbarcano a Lampedusa, Catania, Augusta – e invece dopo essere sopravvissuti al mare e alla fame, per miracolo, si ritrovavano senza nulla, senza patria e senza futuro”.
La traversata e le navi che rifiutavano di aiutarli
Fino al 1975, anno della fine della Guerra in Vietnam, scappano dalla morte, dalle bombe e dalla miseria di un conflitto la cui fine sembra irraggiungibile. Con la presa di Saigon a fuggire sono soprattutto le persone del ceto medio, chi si trovava dalla parte sbagliata dopo la vittoria del Nord. Circa 2 milioni di vietnamiti hanno affrontato il mare: incontrano mercantili che rifiutano di caricarli perché sanno che nessun porto li avrebbe fatti sbarcare, vengono aggrediti e derubati dai pirati. Almeno mezzo milione, si stima, non ce l’ha fatta ed è annegato nel Mar Cinese Meridionale.
I campi profughi e la crisi umanitaria
Chi sopravvive arriva in Malesia, in Indonesia, Hong Kong (allora colonia britannica) e nelle Filippine dove l’UNHCR ha aperto alcuni campi profughi. Ci sono templi buddisti per i migranti, moschee (per il personale locale) e chiese (per i volontari di mezzo mondo), una scuola inglese e una francese per prepararli al futuro. Il piano è chiaro, come dimostra il caso di Pulau Galang (il più grande), la permanenza deve essere limitata: vengono aperte una scuola inglese e una francese per preparare i vietnamiti alla loro seconda vita – che arrivava dopo mesi o anni - la naturalizzazione: 420 mila negli Stati Uniti, 110 mila in Australia, 103 mila in Canada, le prime tre mete. Un destino cui non tutti hanno diritto: 127 mila vietnamiti vengono rimpatriati. All’inizio con un programma volontario (ne esiste uno anche oggi in Italia) poi forzato: la sola Hong Kong ne ha rimandati in Vietnam 67 mila nel 2000, chiudendo così definitivamente il campo di Pillar Point 25 anni dopo il primo arrivo di 3700 persone su una fregata danese.
Carina Hoang, la voce dei sopravvissuti
Un esodo muto, cancellato dalla Storia, il cui ricordo sarebbe seppellito in una manciata di isole del Sudest asiatico e negli incubi dei profughi sopravvissuti se non fosse per Carina Hoang. Nata a Saigon, a 16 anni scappa insieme alla sorella e al fratello: di 373 profughi, 73 sono bambini. La speranza arriva e viene strappata via in un istante: mentre stanno per approdare in Malesia i militari saltano invece sulla barchetta e la trascinano in mezzo al mare legata ad una fune che strapperanno solo dopo averli derubati dell’oro, del cibo e delle mappe. Per miracolo approdano a Keramut, in Indonesia, stremati. La seconda vita per Carina arriva dopo la fame, la morte dei compagni di viaggio, la carenza cronica di acqua potabile, l’assenza di un futuro: gli Stati Uniti e, anni dopo, un marito e una figlia. Torna nel 1998 per la prima volta: vuole sistemare la tomba di un cugino a Pulau Galang e viene travolta dalla memoria, dal dolore, dal sollievo e dal terrore che nessuno ricorderà questo esodo. Torna di nuovo, nel 2009, guardando una parente capisce che tornando riesce a curare in qualche modo le ferite di una vita. Lo racconta su un quotidiano australiano, dove nel mentre si è trasferita, e decine di profughi le scrivono per ringraziarla, per chiederle come tornare in quei luoghi e pacificarsi.
Il Vietnam di allora, l’Africa di oggi
Da quel momento Carina Hoang inizia ad organizzare viaggi per accompagnare gli ex profughi nelle isole, a curare le tombe dei loro genitori e fratelli morti nei campi e a riconciliarsi con il passato: “Quando partiamo – racconta – la tensione è altissima, c’è molto silenzio, hanno paura di non trovare traccia dei parenti o di non reggere l’ondata di ricordi, poi quando trovano la lapide o aiutano gli altri allora è come se scoppiasse qualcosa, poi il clima diventa quasi disteso”. Molti di loro riescono a fare emergere episodi visti da bambini e in qualche modo a pacificarsi: episodi di cannibalismo, il senso di colpa per essere sopravvissuti ad un fratello, i pirati che stuprano la madre, l’orrore di vedere i proprio figli scavati dalla fame. Altri, nonostante gli anni nei loro nuovi Paesi non riescono a darsi pace. Marcelo Bundhowi, ex insegnante di inglese nel campo, quel dolore lo ha visto portarsi all’estremo, con decine di persone che nel limbo di Galang hanno tentato il suicidio oppure vissuto scoppi di violenza: “Erano sopraffatti dall’incertezza, accecati dal dolore delle perdite, volevano lavorare – spiega a decenni di distanza raccontando quello che cambiando le date non è che il dramma dei migranti che sbarcano a Lampedusa, Catania, Augusta – e invece dopo essere sopravvissuti al mare e alla fame, per miracolo, si ritrovavano senza nulla, senza patria e senza futuro”.