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SPETTACOLO

Verità massima: intervista a Daniele Vicari

Tra fiction e documentario si divide la carriera di un altro dei nostri più apprezzati registi

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di Giancarlo Usai
Tra fiction e documentario si divide la carriera di un altro dei nostri più apprezzati registi. Daniele Vicari, solo un anno fa, è uscito al cinema prima con Diaz, applauditissimo lungometraggio presentato a Berlino che ricostruisce i fatti della scuola dove ebbero luogo gli scontri durante il G8 di Genova del 2001, e poi con il documentario La nave dolce, appassionata rievocazione dell’arrivo della nave dall’Albania che trasportava diciottomila profughi verso l’Italia.
 
Come spiega l'exploit del documentario nel 2013? 
Da quindici anni a questa parte il cinema documentaristico in Italia ha avuto uno sviluppo straordinario, sia sul piano della ricerca artistica che su quello produttivo. La qualità dei nostri film è ormai universalmente riconosciuta. Abbiamo alcune decine di registi che hanno realizzato opere preziose e importanti. Parlo di registi di tutte le generazioni, non solo giovani. Basti pensare che già l’anno scorso abbiamo vinto a Berlino con Cesare deve morire dei Taviani. E poi i nostri documentari vengono regolarmente invitati nelle competizioni in tutti i festival del mondo. Lo  scorso anno ne sono stati prodotti circa seicento in Italia. Trovo divertente che gli addetti del settore se ne stiano accorgendo solo ora.
 
600 documentari prodotti ma quanti ne vediamo poi in sala?
In tutta Europa i documentari vengono distribuiti regolarmente nei cinema e le televisioni hanno spazi dedicati al genere. Ci vuole poco, basta essere un po' lungimiranti. Il mio La nave dolce, passato in seconda serata su Rai3, ha totalizzato 750mila spettatori per il 7,5% di share. Un pubblico c'è, bisogna solo avere coraggio di cambiare.
 
Che cosa pensa delle polemiche seguite alla vittoria di “Sacro Gra” a Venezia? Pupi Avati disse che era un Leone d’oro che segnava la crisi del nostro cinema, dato che a vincerlo è stato un regista che non ha mai diretto attori professionisti
Mi sembra una polemica un po' fiacca, secondo la filosofia espressa da Avati Joris Ivens o Jean Rouch non sarebbero registi perché nella loro filmografia è assente la figura dell'attore. Mi chiedo poi se il cinema italiano sia più o meno in crisi oggi rispetto a dieci o venti anni fa. In questo momento un film italiano, La Grande Bellezza, concorre ai Golden Globe e, speriamo tutti, potrebbe entrare nella cinquina degli Oscar. Se ne può dedurre una considerazione contraria rispetto alla crisi.  Direi che certamente stiamo assistendo a un grande mutamento della nostra cinematografia e bisognerebbe avere un po' più di curiosità e di generosità per costruire il futuro.
 
Lei si divide fra documentari e fiction: c’è un motivo dietro la scelta di un genere piuttosto che un altro per realizzare un nuovo film? 
Non c'è mai un solo motivo dietro la scelta del genere cinematografico attraverso il quale raccontare una storia. Può essere il genere in sé a imporsi oppure la storia a imporre il genere. Non c'è dubbio che il documentario permetta di raccontare storie che la fiction farebbe fatica a rendere credibili, perché il documentario può avere una prossimità straordinaria con i fenomeni reali, ma questo può essere anche il suo limite.  Un film come The Act of Killing utilizza insieme tutte le possibilità espressive di entrambi i genere ed è un capolavoro.