La 'new wave' dei documentaristi che vince ai festival
Il cinema italiano e la voglia di realtà
Gianfranco Rosi che ha vinto a Venezia con "Sacro Gra", Alberto Fasulo che ha vinto a Roma con "Tir", poi Stefano Liberti, Andrea Segre, Daniele Vicari, Gustav Hofer e Luca Ragazzi: sono tanti i registi che scelgono il documentario e lo impongono all'attenzione del pubblico, tanto da far pensare a una 'scuola italiana' del genere

Da quando "Sacro Gra" di Gianfranco Rosi ha vinto il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia il genere documentario ha smesso di essere un oggetto misterioso per il pubblico italiano. Gradualmente sta emergendo un panorama diversificato, ricco e pieno di piccoli gioielli nascosti. E ci si è accorti che alcuni dei nostri più stimati registi hanno anche un’anima da documentaristi.
L'inevitabile polemica
Quando poi un autore stimato del nostro cinema, Pupi Avati, ha deciso di alzare il tono della polemica, ecco che la questione è diventata addirittura universale: il documentario punta di diamante della nostra produzione cinematografica segna anche la crisi del settore così come lo abbiamo tradizionalmente conosciuto? Avati, che pure nella sua carriera si è cimentato con opere che fotografavano temi della realtà, non ci è andato leggero: “La vittoria del documentario di Rosi a Venezia testimonia la crisi del nostro cinema. Vince un regista che non ha mai diretto attori professionisti. I film che abbiamo amato nel passato e che abbiamo sempre cercato di fare è in caduta libera”.
Segre e il mercato senza coraggio
Nonostante la diffidenza di alcuni esponenti di primo piano, l'Italia vanta davvero molti giovani autori affermati o emergenti. “Avati avrebbe dovuto realizzare più documentari per capire di che si tratta davvero”, chiosa Andrea Segre, il regista veneto che, oltre alla sua attività da documentarista, ha già firmato preziose opere di fiction come "Io sono Li" e, proprio quest’anno, "La prima neve".
Il suo ultimo documentario è "Indebito", girato in Grecia in compagnia di Vinicio Capossela: un viaggio alla scoperta delle radici del rebetiko, la musica tradizionale che ha sempre raccontato storie di emarginazione o di povertà. “E' un progetto partito da un’idea di Vinicio, anche se la musica è un’occasione per parlare di una società che vive un momento delicato”.
La carriera di Segre è la dimostrazione della contiguità che può esistere tra fiction e documentario: pur in forme diverse, ha sempre ripreso storie che parlano di marginalità o difficoltà di integrazione. l mercato però non ha ancora abbastanza coraggio: “Bisognerebbe avere più convinzione nella distribuzione. Il mio film ha guadagnato 120mila euro in un solo giorno, tanti quanti ne è costati”.
Gustav Hofer e Luca Ragazzi, mettersi in gioco davanti alla telecamera
Gustav Hofer e Luca Ragazzi, coppia nella vita e dietro la telecamera, sono in giro per l’Italia a presentare il loro terzo lavoro. Dopo "Improvvisamente l’inverno scorso", odissea sull’affossamento della proposta di legge per le unioni di fatto, e "Italy: Love It, or Leave It", viaggio on the road lungo la Penisola alla ricerca dei motivi per restare a viverci, i due, con "What Is Left?", seguono lo psicodramma del centrosinistra dalle primarie dell’anno scorso fino alla crisi seguita alla mancata vittoria alle politiche.
“Per noi il documentario è un’occasione di giocare con il linguaggio, in questo caso lo abbiamo utilizzato per mettere in evidenza le contraddizioni della sinistra italiana”, dice Ragazzi. E per loro il documentario è inscindibile dalle vicende personali reali: “Anche stavolta, come nei precedenti due lavori, è tutto vero: riflettiamo sui temi che ci appassionano di più e li affrontiamo mettendo in gioco quello che siamo”.
Chiediamo anche a lui che cosa ha portato l’opinione pubblica ad accorgersi finalmente delle opportunità date da questo modo di 'fotografare' la realtà: “C’è un prima e un dopo Michael Moore. Dopo il suo successo ci siamo accorti anche in Italia che un documentarista poteva attirare l’attenzione su argomenti popolari”.
E poi arriva anche una spiegazione più 'sociale': “In questi ultimi anni soprattutto la fiction televisiva ha diffuso un’estetica del reale che non esiste là fuori, ecco perché il pubblico apprezza sempre più dei documentari che mostrino in modo più attendibile quello che accade”.
Liberti: "Gli italiani hanno voglia di realtà"
Stefano Liberti, giornalista e scrittore, è anche il coautore, proprio con Andrea Segre, del bellissimo "Mare chiuso", documentario del 2012 che affronta il tema dei respingimenti nel Mediterraneo dopo gli accordi tra il governo italiano e quello dell’ex raìs libico Gheddafi. Lo scorso novembre Liberti, in coppia con Enrico Parenti, era al Festival di Roma con "Container 158": “Abbiamo raccontato la vita quotidiana di un campo Rom alla periferia di Roma”.
Un lavoro completamente diverso dal precedente: “E' stato un percorso di avvicinamento molto complesso, le riprese sono durate molto, il tema dei respingimenti era già definito, stavolta si trattava di raccontare più storie nel corso del tempo”. Per Liberti c’è “voglia di realtà” da parte del pubblico italiano: “I documentari suppliscono a un deficit informativo. Meno approfondimento c’è sui media, più queste opere sono utili e apprezzate”.
La new wave del documentario italiano
Quella del documentario italiano è ormai una realtà: oltre a "Sacro Gra", nel 2013 c’è stata la vittoria a Roma di Alberto Fasulo con "Tir", e altri lavori apprezzati come "S.B. Io lo conoscevo bene" di Giacomo Durzi e Giovanni Fasanella, "Il castello" di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, fino al ritorno del maestro Ettore Scola che, con un’abile e originale miscela di materiale d’archivio e nuova finzione, ha rimesso in scena la sua antica amicizia con Fellini in "Che strano chiamarsi Federico!".
E poi Daniele Vicari, Alina Marazzi, Pietro Marcello. Tutti nomi di prestigio del cinema indipendente italiano, tutti partiti o venuti alla ribalta anche grazie al documentario. Segre trae una conclusione da questa rassegna di nomi: “Negli ultimi dieci anni le principali innovazioni del nostro cinema sono arrivate proprio dal documentario”.