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CULTURA

The Beatles

Abbey Road compie 50 anni

Dopo le tensioni esplose durante la lavorazione di Let It Be, per il breve periodo necessario alla produzione del loro ultimo disco i Fab Four riuscirono a trovare la serenità di tempi migliori

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di Diego Antonelli
George Martin – lo storico produttore dei Beatles, considerato con buone ragioni il quinto elemento della band - disse che l’album Abbey Road riuscì così bene perché tutti quanti avevano capito che quello che stavano mettendo in scena era, finalmente, l’ultimo atto di quella indimenticabile avventura. Le tensioni cresciute ai tempi del White Album ed esplose durante la lavorazione di Let it Be (che fu inciso prima di Abbey Road, ma ebbe una produzione travagliatissima e litigiosa riuscendo nel capolavoro zemeckisiano di andare in commercio dopo) erano finalmente superate e i quattro, per il breve periodo necessario alla lavorazione del disco, riuscirono a trovare la serenità di tempi migliori.
 
Il risultato è – come dice George Martin – un disco meraviglioso. Un lato A che parte a mille all’ora con Come Togheter di John e Something, considerato il capolavoro assoluto di George, e si chiude con la falciatrice ipnotica di I Want You – She’s so Heavy (ancora John). Un lato B che si apre con la deliziosa leggerezza di Here Comes the Sun (ancora George) e diventa memorabile grazie al Long Medley, un medley, per l’appunto, che miscela magistralmente, sotto la sapiente regia di Paul, una serie di scampoli di canzoni che i Beatles avevano nel cassetto da alcuni anni, e che profeticamente si chiude con The End di Paul e il suo shakespeariano distico: “And in the end the love you take is equal to the love you make”, che lo stesso John definì cosmico. Un perfetto epitaffio (a proposito, l’attore americano John Ritter, il Jack di Tre cuori in affitto, se lo è fatto incidere sulla tomba) per una storia come la loro.
 
Abbey Road è la dimostrazione che i Beatles hanno chiuso la loro avventura quando avevano ancora moltissimo da dire, quando il dio della musica, benevolo, ancora volgeva il suo sguardo su di loro. Abbey Road è l’album della consacrazione di George Harrison come autore. Something è una delle canzoni dei Fab Four che vanta il maggior numero di cover. Quando Frank Sinatra la cantava la definiva “La più bella canzone d’amore” purtroppo aggiungendo “di Lennon-McCartney”. Sebbene George abbia dichiarato che ai tempi non era affatto eccitato all’idea che un artista così distante da lui cantasse il suo capolavoro, deve avere sofferto non poco questo mancato riconoscimento. Sofferenza e imbarazzo che George provò anche quella volta che alla BBC si incrociò con Michael Jackson e – a un commento dell’intervistatore sulla bellezza di “Something” – dovette incassare lo stupore di Jacko: “Ma dai, l’hai scritta tu? Pensavo fosse di Lennon-McCartney”. E invece l’aveva proprio scritta lui, ispirato dal grande amore della sua vita, la modella Pattie Boyd, conosciuta sul set di A Hard Day’s Night. George – allora ventunenne - dopo averle chiesto come si chiamava passò direttamente alla proposta di matrimonio. Pattie – allora ventenne – non lo prese molto sul serio e lui ripiegò su un più convenzionale invito a cena. Accettato. Ma le intenzioni di George erano incredibilmente serie e due anni più tardi i due si sposarono. Resteranno legati tutta la vita, anche dopo la fine del matrimonio. Pattie, la musa che aveva ispirato a George quell’incipit sublime: “Something in the way she moves, attracts me like no other lover”, lo lasciò per andare a ispirare il di lui migliore amico, Eric Clapton. Che, nascondendola sotto le mentite spoglie di Layla, così descrive l’impatto di Pattie nella sua vita “Like a fool I fell in love with you. You turned my whole world upside down, Layla you got me on my knees”.
 
Eric era l’amico che George volle a tutti i costi a suonare la chitarra con i Beatles – primo musicista ad avere questo onore – in occasione della registrazione della sua While my Guitar Gently Weeps del White Album. Eric “slowhand” Clapton era l’amico dalla grandissima tecnica da cui George cercava di imparare. Eric era l’amico che offriva a George ospitalità ogni volta che Harrison aveva voglia di starsene un po’ per conto suo. E nel giardino di Hurtwood Edge, la villa dell’amico Eric, George andò a rifugiarsi (anzi, come dice lui stesso, a bigiare le noiose sedute con legali e contabili della Apple per discutere delle “funny paper” della loro “impresa”) nel primo giorno di sole dopo uno dei tipici, infiniti, inverni inglesi. E in quella occasione nacque Here Comes the Sun.
 
Abbey Road, come tutte le opere dei Beatles, è un intreccio di storie incredibili e di aneddoti divertenti. A partire dalla foto di copertina, la celeberrima passeggiata dei quattro sulle strisce pedonali (diventate) più famose del mondo. Abbandonata l’idea di affrontare una lunga trasferta per andare sull’Everest a fare lo scatto (Everest per un certo periodo fu il nome che si pensava di dare all’album) la scelta cadde sull’esatto opposto: troviamo un fotografo, apriamo la porta e facciamo questa dannata foto. Il fotografo è lo scozzese Iain Macmillan che si presenta l’otto agosto agli Studios con una scala e le macchine fotografiche. Un vigile ferma il traffico, Macmillan sale sulla scala in mezzo al trivio formato dalla intersezione di Grove End Road, Garden Road e Abbey Road e dice ai quattro di attraversare sulle strisce pedonali. Fa caldo e i Fab Four non hanno voglia di perdere tanto tempo, anche perché cominciano ad affollarsi i curiosi e la situazione si fa complicata. John, in completo bianco con cintura maron e camicia di pizzo, attraversa per primo. Ringo lo segue con una giacca a tre quarti nera su pantalone nero, scarpe stringate nere e una cravatta colorata. Chiude la fila George in completo di jeans. Tra Ringo e George si mette Paul. Veste un abito blu scuro con una camicia celeste. Ai piedi avrebbe un paio di sandali infradito senza calze ma decide di toglierseli per lo shooting. Nello scatto decisivo appare quindi scalzo e con una sigaretta – lui mancino - nella mano destra. Sarà l’unico dei quattro ad avere il piede destro avanti e quello sinistro indietro e gli occhi chiusi. Queste peculiarità (insieme ad altre come la targa del maggiolino Volkswagen parcheggiato sul lato sinistro, la presenza di un furgone simile a un carro funebre sul lato destro…) infiammarono il partito del PID, Paul Is Dead, quei teorici del complotto che decisero che il 9 novembre del 1966 Macca dovesse essere morto in un incidente stradale e immediatamente sostituito da un sosia.
 
Ma Paul, per fortuna, è vivo ed è quello dei quattro più attivo nella realizzazione dell’album. E’ sua in particolare l’idea del Long Medley (che John invece detesta). E tutto suo è il gran finale di The End di cui in parte abbiamo già detto. Non abbiamo detto che The End contiene tre assoli di chitarra di Paul, George e John che si “sfidano” come in un contest, ciascuno con una tecnica diversa. E quella di George è talmente simile a quella di Eric Clapton che ancora oggi su alcuni siti di Beatles-fans esiste una scuola di pensiero secondo la quale a fare quell’assolo sarebbe stato proprio slowhand. Che l’idea piacque moltissimo a John, che senza dare troppe spiegazioni piantò per un istante Yoko in una stanza degli Studios per raggiungere gli altri due e registrarla (mentre George era molto riluttante). Poi (anzi, prima) c’è l’unico assolo di Ringo Starr alla batteria in tutta la storia dei Beatles. Ringo detestava gli assolo di batteria e pare ci siano volute diverse insistenze per convincerlo a farlo. E poi c’è quel geniale verso conclusivo, così geniale e così conclusivo da sembrare essere nato per diventare l’ultima cosa fatta dai Fab Four insieme. E invece per una serie di strane coincidenze fu penultima in tutto. Penultima sull’album perché a chiuderlo finirono per sbaglio quei 23 secondi di Her Majesty, scartati dal medley da Paul (erano collocati tra le lennoniane  Mean Mr. Mustard e Polythene Pam), “resusictati” per errore da un tecnico distratto e confermati da un McCartney divertito da questa casualità. Sul penultimo album, perché, nonostante sia stato l’ultimo inciso dai Beatles, finì sugli scaffali prima di Let it be. E penultima anche in sala d’incisione. A spegnere la luce agli Studios fu infatti l’incisione di Because, un brano di John, sempre per Abbey Road. A ispirarlo sarebbe stato l’ascolto di Yoko che al pianoforte suonava la Sonata al chiaro di luna di Beethoven. John le chiese di suonare gli accordi al contrario e, ascoltandola, compose Because. Si tratta di un pezzo caratterizzato da atmosfere oniriche e da un testo – anche lui – dal sapore cosmico. Ma soprattutto da armonie vocali create da John, Paul e George (e moltiplicate in fase di produzione). E, se vogliamo, è curioso anche che a chiudere la loro splendida avventura insieme ci sia stato questo impasto vocale, così vicino alla cifra stilistica (rivoluzionaria) della loro primissima produzione.