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CULTURA

Le celebrazioni per il 70esimo anniversario dello sbarco

Storia e industria, da sempre legate. In Normandia è boom di turisti

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di Roberto Olla
Nel pomeriggio del 13 novembre 1944 Harold Rupert Leofric George Alexander si piazzò davanti al microfono della radio e cominciò a leggere. Si era preparato ed aveva trovato il tono più autorevole e rassicurante possibile. Tuttavia le sue parole crearono sconcerto tra i partigiani che lo ascoltavano sulle frequenze di “Italia combatte”. Il generale inglese invitava letteralmente tutta la resistenza a cessare le operazioni. A poco servì la precisazione scritta  nelle ultime righe del suo proclama: “eventualmente tenersi pronti poiché nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti).”  

L’altro fronte, l’unico altro fronte che avrebbe potuto influenzare gli eventi italiani era quello francese. Gli alleati si erano fermati lungo gli Appennini, sotto la linea gotica. I nazisti avevano  avuto tutto il tempo tutto il tempo di liquidare nel sangue le repubbliche partigiane sorte nella speranza di una rapida liberazione dell’intera Italia. La decisione alleata prolungò di quasi un anno l’occupazione e costò al nord una lunga scia di stragi e di lutti. Per il generale Cadorna e per gli altri capi della resistenza fu una vera impresa evitare lo sbandamento delle brigate partigiane. Il fronte italiano usciva dagli interessi primari angloamericani. Diventava secondario, fermo,  trascurato. Terminata la lettura il generale Alexander se ne tornò al quartiere generale a leggere i rapporti dei suoi ufficiali. Rapporti da un fronte ormai quasi dimenticato. Gli ordini erano ordini e lui era stato educato a non discuterli ma, certo, non gli era risultato facile ingoiare il rospo. Era stato spedito in Italia come sostituto. Comandante in capo, ma pur sempre in sostituzione del Generale  Bernard Law Montgomery, il leggendario Monty che ora guidava le armate nell’impetuosa avanzata, dallo sbarco in Normandia verso il cuore del Terzo Reich.

I tedeschi avevano le migliori tecnologie, bombe radiocomandate (come quella che affondò la corazzata Roma), mini carriarmati radiocomandati e carichi di esplosivi, i primi elicotteri, i primi aerei a reazione. Erano in grado di condurre, con le V2, i primi attacchi missilistici della storia. Ma la seconda guerra mondiale  era soprattutto una guerra industriale e l’apparato industriale  tedesco era decisamente  più debole di quello americano. Con un progetto ingegneristico molto avanzato per i tempi, a Cherbourg, in Normandia, gli alleati costruirono a tempo di record il più grande porto del mondo. Serviva per far arrivare l’enorme quantità di mezzi, jeep, camion, cannoni, munizioni, rifornimenti, carburante, che le industrie producevano a ritmo continuo.

Tutto sommato, ciò che il comando alleato aveva in mente stava scritto in buona evidenza nel proclama Alexander: spontanea ritirata tedesca dall’Italia per influenza di altri fronti. Tutti cercavano la vittoria finale nel nord del continente. Così è andata: nella grande storia la guerra ha legato il suo destino all’industria. Ed oggi la memoria lega il suo destino ad un’altra industria, quella turistica. Nella piccola Normandia, circa 50 chilometri di costa, ci sono 42 musei, tutti attivi, tutti diversi, tutti affollati. Un vero e proprio boom, un flusso di turisti provenienti da mezzo mondo sta portando da anni lavoro e benessere. Dove la crisi economica ha colpito causando la chiusura di fabbriche, miniere, uffici e negozi, l’intelligenza di investire nella storia e nella cultura sta dando più di una boccata di ossigeno alla popolazione locale.

La storia non si ripete, ma è paradossale verificare che a settanta anni di distanza il fronte italiano è ancora trascurato e dimenticato. Roma viene liberata il 4 giugno e nessuno ricorda gli eventi del 70° anniversario. Il D-Day, lo sbarco in Normandia avviene appena 2 giorni dopo, il 6 giugno, e tutti sanno cosa è successo nel 70°: si sono incontrati persino Putin e Obama (primo approccio per la crisi in Ucraina), c’erano moltissimi  capi di governo e di stato, anche il nostro. E non si può obiettare che questo turismo storico sia animato dai reduci. Ormai, a settanta anni di distanza, ne sono rimasti proprio pochi. Si tratta, purtroppo per noi, di risultati economici che arrivano per una differente visione della storia. Della cultura. Del mondo.