CULTURA
Il quotidiano nasceva il 14 gennaio del 1976
I 40 anni di Repubblica, Mino Fuccillo: "Non eravamo lottizzati, eravamo liberi"
"Il luogo principe era la riunione del mattino. Un po' salotto settecentesco, un po' palestra della ragione astratta, un po' ultima classe del liceo, un po' bar della chiacchiera colta, un po' campetto di calcio dove ci si allenava, si imparava a palleggiare, si guardavano i virtuosismi di quelli che ne erano capaci, e si prendevano calci": Mino Fuccillo, firma storica del giornale fondato da Eugenio Scalfari, ricorda quegli anni, e riflette su come è cambiato il quotidiano che oggi compie 40 anni, e la stampa italiana in generale

Che pensavamo in quella irripetibile terza liceo che fu Repubblica? Pensavamo di aver quadrato il cerchio. Mettevamo in piedi ogni giorno un'attività, intellettuale e concreta, guadagnavamo ogni giorno copie, prestigio sociale e aumento di salario. Eravamo ogni giorno più rispettati e noti. Veniva soddisfatta la nostra vanità, ma al seguito e all'interno di un lavoro che portava denaro e gloria e appariva perfino socialmente utile. Lavoro e
divertimento erano sposi e facevano ottimo sesso insieme. Il nostro vantaggio personale coincideva con quello della collettività. Ci sorridevano nei salotti e nei quartieri. Eravamo un'autorità benevola socialmente riconosciuta. Premiati sul mercato dei valori e dei profitti.
E la chiave di tutto questo era il nostro giornalismo, non dovevamo soltanto guardare e riferire, tanto meno solo raccogliere e riportare. Certo, questo c'era. Ma fosse stato solo questo, sarebbe stato noioso, banale. E comunque lo si faceva da decenni. Noi eravamo autorizzati, stimolati, anzi obbligati a fare altro. Per dirla con Scalfari, indotti a "pensare con gli occhi". Dare forma non solo letteraria a quel che vedevamo ma dare forma concettuale a ciò che accadeva. Era questo il divertimento da offrire al lettore, non la leggerezza. Era questa la nostra diversità, vera o presunta che fosse. Richiedeva presunzione, almeno una dose. Altrimenti non puoi nemmeno sognarti di comprendere quello che vedi e poi pensarlo e poi riportarlo al lettore trasferendo sia l'immagine di ciò che hai visto sia la nozione di ciò che hai sentito, sia l'ordito del pensato. Pensato, non opinato, non era la nostra opinione che volevamo diffondere. Eravamo più superbi, volevamo indurre pensiero, non opinione.

(Scalfari e i giornalisti mostrano il numero zero del quotidiano)
E per farlo occorreva cultura. Ce n'era, per una involontaria somma di circostanze. C'era un miscuglio di energia giovanile e saggezza matura che andavano a dibattito quotidiano sempre sul terreno del sapere e addirittura dell'erudizione. C'era ideologia, però diluita in un laico impegno civile. C'era accademia, sostenuta però da pratica e attitudine agli studi, sì, si studiava e dagli studi si veniva. Più tardi si dirà fosse un partito. Sbagliato, era un club, molto democratico all'interno, molto esclusivo però nelle caratteristiche che richiedeva per essere ammessi.
Prima fra tutte la disponibilità e l'uso quotidiano di una mini filosofia della storia. Quella che consentiva di inventare e identificare il fatto del giorno e costruirci sopra la pagina 2 e 3. Quella che consentiva di legare lo "sfoglio" in una sceneggiatura dove la storia di un giorno si dipanava con un senso e dove la storia minima occhieggiava apertamente con quella più grande. Il fatto del giorno, il formato tabloid, lo sfoglio, le pagine tematizzate, il racconto come nei settimanali...E vennero tutti dietro, tutti i quotidiani oggi sono così. Repubblica lo fu per prima e cuciva il tutto con il filo di quella mini filosofia della storia senza il quale lo sfoglio alla fine diventa accumulo. Pensammo, una volta affermato il modello, che fosse fatta, una volta per tutte e per tutti. Miopia, eravamo un'eccezione di gran successo, già allora il giornalismo incubava i taccuini viventi, i registratori parlanti.
Il luogo principe era la riunione del mattino. Un po' salotto settecentesco, un po' palestra della ragione astratta, un po' ultima classe del liceo, un po' bar della chiacchiera colta, un po' campetto di calcio dove ci si allenava, si imparava a palleggiare, si guardavano i virtuosismi di quelli che ne erano capaci, e si prendevano calci. Perché l'esame del lavoro fatto e perfino delle parole pronunciate era impietoso, crudele, sfacciato. Corale e cordiale dileggio dell'errore fatto. Dolcissima e inebriante la lode nel caso contrario. E tutto pubblico, davanti a tutti, ogni giorno. Poi si poteva passare a discutere della Bessarabia come si fosse al congresso di Vienna o della caduta tendenziale del saggio di profitto, dell'annosa questione del rapporto tra socialismo e democrazia, di valzer, di rock, di letteratura, di libri, di uomini, di donne. Durava tre ore la riunione e forse più. Ed erano tre ore di divertimento, quel divertimento che ti ricordi poi quando ripensi agli anni della scuola superiore.
(Rai Storia, La Repubblica debutta in edicola)
Nella riunione si decideva ovviamente il da farsi. E nel da farsi c'era cosa avevano fatto i protagonisti della cronaca, cosa facevano ora, cosa avrebbero dovuto fare e anche come indurli a fare o non fare. Per certi aspetti un delirio di onnipotenza. Per altri aspetti l'esercizio consapevole di una egemonia culturale, operativa e quindi anche politica.
Spesso, rispondendo a domande, ho cercato di spiegarlo incontrando sempre incredulità: non eravamo lottizzati, eravamo liberi. Non perché fossimo di pasta migliore degli altri, insensibili alle lusinghe, incorruttibili dalla vanità e dall'ambizione. Eravamo uguali agli altri ma operavamo in una condizione diversa.
Il potere interno era enorme, dentro nel caso Scalfari ti faceva a fette. Ma il potere interno era così forte che faceva da scudo ad ogni potere esterno. Così potevi provare una delle sensazioni più inebrianti di questo mestiere, molto spesso negata anche ai più bravi. Persone molto più ricche e potenti di te, abituate a comandare o almeno a suggerire sicure di essere esaudite ti chiedevano se "quella cosa, quella piccola cosa" che stava loro a cuore si poteva fare sul giornale. E tu potevi rispondere: spiacente, no, non si può fare. Non riservavi questo trattamento solo a chi era lontano dalla linea editoriale del giornale, questo son buoni tutti. Opponevi, libero di farlo, il tuo cortese no anche a chi pensava di giocare in casa o quasi.
Era questa la prima diversità. La seconda era che...altro che partito di carta stampata. Era soprattutto azienda di carta stampata. Il perno e il pilastro, il parametro e l'oracolo, il giudice supremo era il mercato. Il supremo giudizio era quello letto ogni mattina o quasi pochi minuti dopo l'inizio della riunione: il numero delle copie vendute.
La terza diversità era appunto quella presunzione e pratica di egemonia, che ci crediate o no non ci si faceva dettare nulla dalla politica e da nessun politico per l'ottimo motivo che si provava a dettarla noi la politica, anche ai politici. Che ci crediate o no, perfino nelle interviste e nelle loro dichiarazioni, non solo nei nostri titoli e commenti. Era questo il lavoro, ed era questo il divertente.
In quegli anni, negli anni dei primi 20 anni di Repubblica, non siamo stati sempre e comunque i migliori. Ma di certo siamo stati unici e ci siamo divertiti più degli altri. Perché quelli che si sarebbero chiamati poi il "palazzo" e la "gente" ci venivano dietro. Esentandoci dall'andare dietro a qualcuno.
Poi sono arrivati altri anni, per tutti. E ovviamente anche per Repubblica. Il giornale divenne più giornale e spesso solo giornale. Comunque l'egemonia si liquefaceva, sul pianeta, negli usi, costumi e idee. Anche Repubblica diventava più liquida, come la società. E meno presuntuosa. Attendibile, autorevole, ma non più egemone.
Sono gli anni, gli anni nostri, in cui la pubblica opinione fa la politica e fa la comunicazione e i giornali e non viceversa. Anni in cui dettare la politica invece che trascriverla alla lettera forse è impossibile, forse sbagliato. Comunque non lo fa più nessuno e ai giorni nostri apparirebbe perfino un po' blasfemo. Così accade che Repubblica continui ad avere l'ispirazione, la voglia di essere il quotidiano della sinistra riformista, di governo e che non ha paura di avere sinistre più radicali all'opposizione (parole di Ezio Mauro), ma contemporaneamente pratichi nelle sue cronache minime e massime, giudiziarie e politiche, nere e bianche, uno storytelling inconsapevolmente grillino. Quel che detta, appunto, buona parte della gente di sinistra cui il riformismo appare rinuncia, tradimento, sconfitta, danno.
Già, è diventato più difficile fare Repubblica che oggi compie 40 anni. E dei 40 anni vive il riflusso, per quanto maturo e saggio sia. Eppure, per dirla ancora con il direttore che se ne va, Repubblica è "una infrastruttura democratica del nostro paese". Al direttore che viene e a tutta Repubblica l'augurio di farne ancor più grattacielo, maxi ponte, super metro, grande hub...di quella infrastruttura. Di festeggiarne l'agilità e la flessibilità al sessantesimo di compleanno. Auguri da parte di uno per cui Repubblica per venti anni ha coinciso con casa e vita.
(Mino Fuccillo, 67 anni, iniziò la carriera giornalistica al Manifesto ed entrò a La Repubblica nel 1979. Fu caporedattore degli interni, caporedattore della sede di Milano, ed editorialista. Nel 1998 diresse l'Unità, poi fu a capo di Italia Radio. Ha lavorato nel gruppo Espresso. Tiene un blog su Blitz quotidiano)
divertimento erano sposi e facevano ottimo sesso insieme. Il nostro vantaggio personale coincideva con quello della collettività. Ci sorridevano nei salotti e nei quartieri. Eravamo un'autorità benevola socialmente riconosciuta. Premiati sul mercato dei valori e dei profitti.
E la chiave di tutto questo era il nostro giornalismo, non dovevamo soltanto guardare e riferire, tanto meno solo raccogliere e riportare. Certo, questo c'era. Ma fosse stato solo questo, sarebbe stato noioso, banale. E comunque lo si faceva da decenni. Noi eravamo autorizzati, stimolati, anzi obbligati a fare altro. Per dirla con Scalfari, indotti a "pensare con gli occhi". Dare forma non solo letteraria a quel che vedevamo ma dare forma concettuale a ciò che accadeva. Era questo il divertimento da offrire al lettore, non la leggerezza. Era questa la nostra diversità, vera o presunta che fosse. Richiedeva presunzione, almeno una dose. Altrimenti non puoi nemmeno sognarti di comprendere quello che vedi e poi pensarlo e poi riportarlo al lettore trasferendo sia l'immagine di ciò che hai visto sia la nozione di ciò che hai sentito, sia l'ordito del pensato. Pensato, non opinato, non era la nostra opinione che volevamo diffondere. Eravamo più superbi, volevamo indurre pensiero, non opinione.

(Scalfari e i giornalisti mostrano il numero zero del quotidiano)
E per farlo occorreva cultura. Ce n'era, per una involontaria somma di circostanze. C'era un miscuglio di energia giovanile e saggezza matura che andavano a dibattito quotidiano sempre sul terreno del sapere e addirittura dell'erudizione. C'era ideologia, però diluita in un laico impegno civile. C'era accademia, sostenuta però da pratica e attitudine agli studi, sì, si studiava e dagli studi si veniva. Più tardi si dirà fosse un partito. Sbagliato, era un club, molto democratico all'interno, molto esclusivo però nelle caratteristiche che richiedeva per essere ammessi.
Prima fra tutte la disponibilità e l'uso quotidiano di una mini filosofia della storia. Quella che consentiva di inventare e identificare il fatto del giorno e costruirci sopra la pagina 2 e 3. Quella che consentiva di legare lo "sfoglio" in una sceneggiatura dove la storia di un giorno si dipanava con un senso e dove la storia minima occhieggiava apertamente con quella più grande. Il fatto del giorno, il formato tabloid, lo sfoglio, le pagine tematizzate, il racconto come nei settimanali...E vennero tutti dietro, tutti i quotidiani oggi sono così. Repubblica lo fu per prima e cuciva il tutto con il filo di quella mini filosofia della storia senza il quale lo sfoglio alla fine diventa accumulo. Pensammo, una volta affermato il modello, che fosse fatta, una volta per tutte e per tutti. Miopia, eravamo un'eccezione di gran successo, già allora il giornalismo incubava i taccuini viventi, i registratori parlanti.
Il luogo principe era la riunione del mattino. Un po' salotto settecentesco, un po' palestra della ragione astratta, un po' ultima classe del liceo, un po' bar della chiacchiera colta, un po' campetto di calcio dove ci si allenava, si imparava a palleggiare, si guardavano i virtuosismi di quelli che ne erano capaci, e si prendevano calci. Perché l'esame del lavoro fatto e perfino delle parole pronunciate era impietoso, crudele, sfacciato. Corale e cordiale dileggio dell'errore fatto. Dolcissima e inebriante la lode nel caso contrario. E tutto pubblico, davanti a tutti, ogni giorno. Poi si poteva passare a discutere della Bessarabia come si fosse al congresso di Vienna o della caduta tendenziale del saggio di profitto, dell'annosa questione del rapporto tra socialismo e democrazia, di valzer, di rock, di letteratura, di libri, di uomini, di donne. Durava tre ore la riunione e forse più. Ed erano tre ore di divertimento, quel divertimento che ti ricordi poi quando ripensi agli anni della scuola superiore.
(Rai Storia, La Repubblica debutta in edicola)
Nella riunione si decideva ovviamente il da farsi. E nel da farsi c'era cosa avevano fatto i protagonisti della cronaca, cosa facevano ora, cosa avrebbero dovuto fare e anche come indurli a fare o non fare. Per certi aspetti un delirio di onnipotenza. Per altri aspetti l'esercizio consapevole di una egemonia culturale, operativa e quindi anche politica.
Spesso, rispondendo a domande, ho cercato di spiegarlo incontrando sempre incredulità: non eravamo lottizzati, eravamo liberi. Non perché fossimo di pasta migliore degli altri, insensibili alle lusinghe, incorruttibili dalla vanità e dall'ambizione. Eravamo uguali agli altri ma operavamo in una condizione diversa.
Il potere interno era enorme, dentro nel caso Scalfari ti faceva a fette. Ma il potere interno era così forte che faceva da scudo ad ogni potere esterno. Così potevi provare una delle sensazioni più inebrianti di questo mestiere, molto spesso negata anche ai più bravi. Persone molto più ricche e potenti di te, abituate a comandare o almeno a suggerire sicure di essere esaudite ti chiedevano se "quella cosa, quella piccola cosa" che stava loro a cuore si poteva fare sul giornale. E tu potevi rispondere: spiacente, no, non si può fare. Non riservavi questo trattamento solo a chi era lontano dalla linea editoriale del giornale, questo son buoni tutti. Opponevi, libero di farlo, il tuo cortese no anche a chi pensava di giocare in casa o quasi.
Era questa la prima diversità. La seconda era che...altro che partito di carta stampata. Era soprattutto azienda di carta stampata. Il perno e il pilastro, il parametro e l'oracolo, il giudice supremo era il mercato. Il supremo giudizio era quello letto ogni mattina o quasi pochi minuti dopo l'inizio della riunione: il numero delle copie vendute.
La terza diversità era appunto quella presunzione e pratica di egemonia, che ci crediate o no non ci si faceva dettare nulla dalla politica e da nessun politico per l'ottimo motivo che si provava a dettarla noi la politica, anche ai politici. Che ci crediate o no, perfino nelle interviste e nelle loro dichiarazioni, non solo nei nostri titoli e commenti. Era questo il lavoro, ed era questo il divertente.
In quegli anni, negli anni dei primi 20 anni di Repubblica, non siamo stati sempre e comunque i migliori. Ma di certo siamo stati unici e ci siamo divertiti più degli altri. Perché quelli che si sarebbero chiamati poi il "palazzo" e la "gente" ci venivano dietro. Esentandoci dall'andare dietro a qualcuno.
Poi sono arrivati altri anni, per tutti. E ovviamente anche per Repubblica. Il giornale divenne più giornale e spesso solo giornale. Comunque l'egemonia si liquefaceva, sul pianeta, negli usi, costumi e idee. Anche Repubblica diventava più liquida, come la società. E meno presuntuosa. Attendibile, autorevole, ma non più egemone.
Sono gli anni, gli anni nostri, in cui la pubblica opinione fa la politica e fa la comunicazione e i giornali e non viceversa. Anni in cui dettare la politica invece che trascriverla alla lettera forse è impossibile, forse sbagliato. Comunque non lo fa più nessuno e ai giorni nostri apparirebbe perfino un po' blasfemo. Così accade che Repubblica continui ad avere l'ispirazione, la voglia di essere il quotidiano della sinistra riformista, di governo e che non ha paura di avere sinistre più radicali all'opposizione (parole di Ezio Mauro), ma contemporaneamente pratichi nelle sue cronache minime e massime, giudiziarie e politiche, nere e bianche, uno storytelling inconsapevolmente grillino. Quel che detta, appunto, buona parte della gente di sinistra cui il riformismo appare rinuncia, tradimento, sconfitta, danno.
Già, è diventato più difficile fare Repubblica che oggi compie 40 anni. E dei 40 anni vive il riflusso, per quanto maturo e saggio sia. Eppure, per dirla ancora con il direttore che se ne va, Repubblica è "una infrastruttura democratica del nostro paese". Al direttore che viene e a tutta Repubblica l'augurio di farne ancor più grattacielo, maxi ponte, super metro, grande hub...di quella infrastruttura. Di festeggiarne l'agilità e la flessibilità al sessantesimo di compleanno. Auguri da parte di uno per cui Repubblica per venti anni ha coinciso con casa e vita.
(Mino Fuccillo, 67 anni, iniziò la carriera giornalistica al Manifesto ed entrò a La Repubblica nel 1979. Fu caporedattore degli interni, caporedattore della sede di Milano, ed editorialista. Nel 1998 diresse l'Unità, poi fu a capo di Italia Radio. Ha lavorato nel gruppo Espresso. Tiene un blog su Blitz quotidiano)