MONDO
Maternità e nascita nel Sud Sudan in preda alla guerra civile
Sud Sudan. Partorire in un paese distrutto
Il progetto di una ONG italiana, il CCM, per documentare con la fotografia le drammatiche condizioni in cui partoriscono le donne nel Sud Sudan, una nazione giovanissima, e già dilaniata da una guerra civile che ha creato 2 milioni di sfollati, l'intervista con il reporter Alessandro Rota

Nascita e morte in Sud Sudan, un racconto per immagini realizzato dagli stessi protagonisti delle storie
Una delle idee che ci è venuta è stata quella di coinvolgere la comunità locale, per evitare che fosse l’ennesimo reportage in Africa in cui c’è un reporter occidentale che arriva, filma e fotografa e racconta quel che succede
come avete coinvolto le comunità locali?
Abbiamo distribuito delle macchinette usa e getta, quelle a rullino che si usavano per le vacanze qualche anno fa. Le abbiamo distribuite alla popolazione locale aiutati da operatori del settore sanitario che lavorano con il governo, abbiamo chiesto loro di individuare delle famiglie significative, per raccontare il tema della maternità in Sud Sudan e a queste famiglie sono state distribuite le macchine fotografiche, ne abbiamo distribuite 11 a 6 famiglie. Poi le abbiamo raccolte durante le nostre uscite dal compound, abbiamo sviluppato le foto soltanto in seguito, in Italia. è stato molto bello vedere queste foto, fatte dai bambini, dai mariti in altri casi dalle altre donne. Una esperienza molto appagante, che poi a loro è piaciuta moltissimo, si sono divertiti molto, erano entusiasti di poter fotografare loro. E le foto hanno una dote, una atmosfera intima che, io, da fotografo, ho apprezzato molto.
Un po’ come in un reality…
abbiamo chiesto di poter raccontare con i loro stessi occhi le storie di donne negli ultimi mesi di gravidanza, una fase abbastanza delicata, quando il parto avviene effettivamente, in Sud Sudan uno dei problemi più delicati è il trasporto, per raggiungere l’ospedale o il centro medico partendo dai villaggi. Abbiamo individuato delle donne significative perché rappresentano delle categorie. Avevamo una donna che ha vissuto la gravidanza in un campo profughi, un’altra che viveva in una zona particolarmente disagiata e difficile da raggiungere. Quando io sono andato in Jeep ci abbiamo messo 4 ore per coprire una distanza di appena 15 chilometri. Questo per rendere l’idea di quanto è difficile spostarsi in Sud Sudan perché non ci sono strade. Abbiamo identificato questi casi, oltre alle donne che partoriscono nelle città, per loro è più facile essere assistite, abbiamo voluto raccontare la complessità della nazione mostrando la condizione dei profughi della guerra civile in corso da 2 anni ormai, ma anche i disagi della popolazione nelle zone più remote e rurali che solo marginalmente sono colpite dalla guerra in senso stretto ma che comunque soffrono della condizione di sottosviluppo del paese
Quanto pesa questa guerra civile sulla vita della gente?
Questa guerra sta pesando in maniera drammatica. Io ho viaggiato in Sud Sudan nel dicembre 2014, ad un anno dallo scoppio dell’attuale conflitto. Sono tornato quest’anno, la seconda visita nell’arco di 11 mesi. Mi è sembrata una situazione ancora più volatile e più fragile di qualche anno fa. Nonostante l’emergenza stretta, i flussi di sfollati della guerra all’interno del paese, ce ne sono 2,2 milioni, siano abbastanza gestiti, così come la crisi alimentare, persone che non hanno letteralmente cibo con cui sfamare la famiglia ormai non ci sono più, grazie all’impegno delle organizzazioni internazionali, a parte questo la situazione è molto grave è veramente instabile, sono stati firmati 7 accordi di pace nell’ultimo anno e mezzo e tutti questi accordi di pace sono stati regolarmente infranti da entrambe le parti in conflitto
Una brutto epilogo per le speranze di pace e sviluppo che erano nate dopo l’indipendenza dal nord
L’indipendenza dal nord era un atto dovuto, il Sud Sudan è stato in guerra per un arco di quasi 50 anni. Una popolazione che combatte per 50 anni per chiedere l’indipendenza non poteva vedersela ancora negare. Forse il passaggio è stato troppo veloce, è stato sbagliato lasciare il paese a se stesso, ed infatti dopo un anno è ricominciato lo scontro all’interno della stessa popolazione sud sudanese, tra il presidente Salva Kiir Mayardit e il vice presidente Riek Machar. Io non ero in Sud Sudan appena dopo l’indipendenza ma tanti amici giornalisti mi raccontano che l’indipendenza aveva creato speranze ed un grande entusiasmo, la popolazione era realmente fiera di essere finalmente indipendente dal nord. Poi la situazione è degenerata nell’arco di pochi mesi.
Quindi la fase di oggi è di un ritorno della presenza internazionale per porre rimedio al collasso di questa giovanissima nazione e per scongiurare un disastro umanitario
Esattamente. Il governo sud sudanese oggi non ha neanche le risorse economiche per rimanere in piedi perché una delle poche risorse naturali che veniva esportata e portava ricchezza era il petrolio ma i giacimenti sono stati distrutti durante la guerra civile, gli oleodotti che trasportavano il greggio dal Sud Sudan fino a Khartum dove ci sono le raffinerie sono stati distrutti. Quindi fondamentalmente il governo non ha introiti, e quindi, è impossibile mantenere uno stato senza avere la capacità di retribuire, ad esempio gli insegnanti, è diventata una situazione ingestibile, senza contare che il governo deve sostenere ingenti spese militari
La popolazione non ha alcuna capacità di trovare mezzi di sotentamento?
La guerra ha distrutto quel poco di capacità di sostentamento che la popolazione aveva. Nel Sud Sudan ci sono oltre 2 milioni di sfollati che non hanno letteralmente più nulla. Mi raccontavano degli operatori delle Nazioni Unite che, quando sono arrivati per la prima volta nel sito di Minkaman, la popolazione che era fuggita dalla città di Bora, circa 100mila persone, erano state ammassate in un pezzo di terra su cui non c’era nulla, hanno dovuto addirittura donare i secchielli di plastica perché la gente potesse raccogliere l’acqua e il cibo che veniva loro distribuito. Le campagne oggi sono quasi più sicure delle città. La situazione peggiore è a Juba, la capitale, dove la questione sicurezza diventa veramente rilevante. C’è un coprifuoco informale per tutti i lavoratori delle ONG e per il personale espatriato. Non è consigliabile uscire la sera, questo perché l’FLA, che è l’esercito governativo, crea dei posti di blocco nella città e spesso non si sa cosa succede quando si viene fermati da questi militari. Ci sono stati casi di stupri, di rapine a mano armata commesse proprio da elementi dell’esercito governativo. Lascio immaginare cosa vuol dire vivere in una città come Juba, dove le persone sono disperate, e per questo il livello di ciminalità è alle stelle.
In questo contesto voi avete voluto inquadrare nell’obiettivo proprio il tema della maternità, della nascita
Una maternità sana è uno degli obiettivi del millennio secondo le Nazioni Unite per il 2016 che consiste nel tentativo di ridurre il tasso di mortalità infantile e materna, in Sud Sudan come nel resto del mondo. C’è poi sembrato un tema particolarmente significativo perché tema si presta a raccontare anche delle storie positive, documentiamo le storie di madri che partoriscono in mezzo a queste difficoltà, in un paese che ha un tasso tra i più alti al mondo di mortalità materna e infantile, che comunque danno alla luce nuove vite, e questo ci sembra, comunque un messaggio di speranza per una nazione che sta nascendo. Una delle esperienze più intense per me è stato seguire una mamma di 15 anni che ha partorito in un posto medico di Minkaman, in un’area in cui sono confluiti 80mila profughi. Questa madre è arrivata una mattina con una ambulanza. Questa cosa normalissima ci è sembrata quasi un miracolo perché la popolazione locale non chiama le ambulanze, a torto o ragione sono convinti che non possa esistere un servizio gratuito. Quando sono andato in giro nei villaggi per spiegare che potevano chiamare l’ambulanza per farsi portare in ospedale mi è stato risposto che non credevano fosse gratise che non erano in grado di pagare. E così invece di imporre ad una donna che sta per partorire una marcia di oltre 20 chilometri preferiscono farle partorire nel villaggio. Quando insistevamo nel dirgli di chiamare l’ambulanza si mettevano a ridere. Questo spiega il contesto in cui abbiamo lavorato. Sono stato ben contento, anche per questo, di poter documentare il parto di Ayen Mayok, si chiama così questa ragazza di 15 anni, è arrivata in ospedale la mattina e ha partorito la sera ed io ho seguito tutto il travaglio. Una esperienza tra le più intense della mia carriera di fotografo.
Il Comitato Collaborazione Medica, Ccm, è un’Organizzazione non governativa fondata nel 1968 per promuovere e assicurare il diritto alla salute in particolare alle persone più vulnerabili che vivono nei Paesi a basso reddito. In Sud Sudan opera dal 1983 per garantire a tutti le cure di base e per rispondere all’emergenza sanitaria nelle zone fortemente colpite dal conflitto e dalle carestie.
Una delle idee che ci è venuta è stata quella di coinvolgere la comunità locale, per evitare che fosse l’ennesimo reportage in Africa in cui c’è un reporter occidentale che arriva, filma e fotografa e racconta quel che succede
come avete coinvolto le comunità locali?
Abbiamo distribuito delle macchinette usa e getta, quelle a rullino che si usavano per le vacanze qualche anno fa. Le abbiamo distribuite alla popolazione locale aiutati da operatori del settore sanitario che lavorano con il governo, abbiamo chiesto loro di individuare delle famiglie significative, per raccontare il tema della maternità in Sud Sudan e a queste famiglie sono state distribuite le macchine fotografiche, ne abbiamo distribuite 11 a 6 famiglie. Poi le abbiamo raccolte durante le nostre uscite dal compound, abbiamo sviluppato le foto soltanto in seguito, in Italia. è stato molto bello vedere queste foto, fatte dai bambini, dai mariti in altri casi dalle altre donne. Una esperienza molto appagante, che poi a loro è piaciuta moltissimo, si sono divertiti molto, erano entusiasti di poter fotografare loro. E le foto hanno una dote, una atmosfera intima che, io, da fotografo, ho apprezzato molto.
Un po’ come in un reality…
abbiamo chiesto di poter raccontare con i loro stessi occhi le storie di donne negli ultimi mesi di gravidanza, una fase abbastanza delicata, quando il parto avviene effettivamente, in Sud Sudan uno dei problemi più delicati è il trasporto, per raggiungere l’ospedale o il centro medico partendo dai villaggi. Abbiamo individuato delle donne significative perché rappresentano delle categorie. Avevamo una donna che ha vissuto la gravidanza in un campo profughi, un’altra che viveva in una zona particolarmente disagiata e difficile da raggiungere. Quando io sono andato in Jeep ci abbiamo messo 4 ore per coprire una distanza di appena 15 chilometri. Questo per rendere l’idea di quanto è difficile spostarsi in Sud Sudan perché non ci sono strade. Abbiamo identificato questi casi, oltre alle donne che partoriscono nelle città, per loro è più facile essere assistite, abbiamo voluto raccontare la complessità della nazione mostrando la condizione dei profughi della guerra civile in corso da 2 anni ormai, ma anche i disagi della popolazione nelle zone più remote e rurali che solo marginalmente sono colpite dalla guerra in senso stretto ma che comunque soffrono della condizione di sottosviluppo del paese
Quanto pesa questa guerra civile sulla vita della gente?
Questa guerra sta pesando in maniera drammatica. Io ho viaggiato in Sud Sudan nel dicembre 2014, ad un anno dallo scoppio dell’attuale conflitto. Sono tornato quest’anno, la seconda visita nell’arco di 11 mesi. Mi è sembrata una situazione ancora più volatile e più fragile di qualche anno fa. Nonostante l’emergenza stretta, i flussi di sfollati della guerra all’interno del paese, ce ne sono 2,2 milioni, siano abbastanza gestiti, così come la crisi alimentare, persone che non hanno letteralmente cibo con cui sfamare la famiglia ormai non ci sono più, grazie all’impegno delle organizzazioni internazionali, a parte questo la situazione è molto grave è veramente instabile, sono stati firmati 7 accordi di pace nell’ultimo anno e mezzo e tutti questi accordi di pace sono stati regolarmente infranti da entrambe le parti in conflitto
Una brutto epilogo per le speranze di pace e sviluppo che erano nate dopo l’indipendenza dal nord
L’indipendenza dal nord era un atto dovuto, il Sud Sudan è stato in guerra per un arco di quasi 50 anni. Una popolazione che combatte per 50 anni per chiedere l’indipendenza non poteva vedersela ancora negare. Forse il passaggio è stato troppo veloce, è stato sbagliato lasciare il paese a se stesso, ed infatti dopo un anno è ricominciato lo scontro all’interno della stessa popolazione sud sudanese, tra il presidente Salva Kiir Mayardit e il vice presidente Riek Machar. Io non ero in Sud Sudan appena dopo l’indipendenza ma tanti amici giornalisti mi raccontano che l’indipendenza aveva creato speranze ed un grande entusiasmo, la popolazione era realmente fiera di essere finalmente indipendente dal nord. Poi la situazione è degenerata nell’arco di pochi mesi.
Quindi la fase di oggi è di un ritorno della presenza internazionale per porre rimedio al collasso di questa giovanissima nazione e per scongiurare un disastro umanitario
Esattamente. Il governo sud sudanese oggi non ha neanche le risorse economiche per rimanere in piedi perché una delle poche risorse naturali che veniva esportata e portava ricchezza era il petrolio ma i giacimenti sono stati distrutti durante la guerra civile, gli oleodotti che trasportavano il greggio dal Sud Sudan fino a Khartum dove ci sono le raffinerie sono stati distrutti. Quindi fondamentalmente il governo non ha introiti, e quindi, è impossibile mantenere uno stato senza avere la capacità di retribuire, ad esempio gli insegnanti, è diventata una situazione ingestibile, senza contare che il governo deve sostenere ingenti spese militari
La popolazione non ha alcuna capacità di trovare mezzi di sotentamento?
La guerra ha distrutto quel poco di capacità di sostentamento che la popolazione aveva. Nel Sud Sudan ci sono oltre 2 milioni di sfollati che non hanno letteralmente più nulla. Mi raccontavano degli operatori delle Nazioni Unite che, quando sono arrivati per la prima volta nel sito di Minkaman, la popolazione che era fuggita dalla città di Bora, circa 100mila persone, erano state ammassate in un pezzo di terra su cui non c’era nulla, hanno dovuto addirittura donare i secchielli di plastica perché la gente potesse raccogliere l’acqua e il cibo che veniva loro distribuito. Le campagne oggi sono quasi più sicure delle città. La situazione peggiore è a Juba, la capitale, dove la questione sicurezza diventa veramente rilevante. C’è un coprifuoco informale per tutti i lavoratori delle ONG e per il personale espatriato. Non è consigliabile uscire la sera, questo perché l’FLA, che è l’esercito governativo, crea dei posti di blocco nella città e spesso non si sa cosa succede quando si viene fermati da questi militari. Ci sono stati casi di stupri, di rapine a mano armata commesse proprio da elementi dell’esercito governativo. Lascio immaginare cosa vuol dire vivere in una città come Juba, dove le persone sono disperate, e per questo il livello di ciminalità è alle stelle.
In questo contesto voi avete voluto inquadrare nell’obiettivo proprio il tema della maternità, della nascita
Una maternità sana è uno degli obiettivi del millennio secondo le Nazioni Unite per il 2016 che consiste nel tentativo di ridurre il tasso di mortalità infantile e materna, in Sud Sudan come nel resto del mondo. C’è poi sembrato un tema particolarmente significativo perché tema si presta a raccontare anche delle storie positive, documentiamo le storie di madri che partoriscono in mezzo a queste difficoltà, in un paese che ha un tasso tra i più alti al mondo di mortalità materna e infantile, che comunque danno alla luce nuove vite, e questo ci sembra, comunque un messaggio di speranza per una nazione che sta nascendo. Una delle esperienze più intense per me è stato seguire una mamma di 15 anni che ha partorito in un posto medico di Minkaman, in un’area in cui sono confluiti 80mila profughi. Questa madre è arrivata una mattina con una ambulanza. Questa cosa normalissima ci è sembrata quasi un miracolo perché la popolazione locale non chiama le ambulanze, a torto o ragione sono convinti che non possa esistere un servizio gratuito. Quando sono andato in giro nei villaggi per spiegare che potevano chiamare l’ambulanza per farsi portare in ospedale mi è stato risposto che non credevano fosse gratise che non erano in grado di pagare. E così invece di imporre ad una donna che sta per partorire una marcia di oltre 20 chilometri preferiscono farle partorire nel villaggio. Quando insistevamo nel dirgli di chiamare l’ambulanza si mettevano a ridere. Questo spiega il contesto in cui abbiamo lavorato. Sono stato ben contento, anche per questo, di poter documentare il parto di Ayen Mayok, si chiama così questa ragazza di 15 anni, è arrivata in ospedale la mattina e ha partorito la sera ed io ho seguito tutto il travaglio. Una esperienza tra le più intense della mia carriera di fotografo.
Il Comitato Collaborazione Medica, Ccm, è un’Organizzazione non governativa fondata nel 1968 per promuovere e assicurare il diritto alla salute in particolare alle persone più vulnerabili che vivono nei Paesi a basso reddito. In Sud Sudan opera dal 1983 per garantire a tutti le cure di base e per rispondere all’emergenza sanitaria nelle zone fortemente colpite dal conflitto e dalle carestie.