SCIENZA
La ricerca
Dai social media al pronto soccorso
Una ricerca svolta presso la University of Pennsylvania mette in luce una relazione significativa tra le parole che usiamo nei social network e il nostro stato di salute.

Attenti a quanto scriviamo sui social network!
Non solo perché i datori di lavoro ci osservano (autorizzati dal nuovo corso su lavoro e diritti che segna i nostri tempi: si veda, per amor di chiarezza, il Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151 ). Ma soprattutto perché potremmo fornire, involontariamente, informazioni riservate sulla nostra salute.
È quanto si deduce da una ricerca della Perelman School of Medicine (della University of Pennsylvania): Linking social media and medical record data: a study of adults presenting to an academic, urban emergency department.
In breve: i ricercatori hanno costituito una banca dati di parole e collegamenti semantici che renderebbe possibile desumere, in base all'analisi del contenuto dei materiali postati su Facebook o su Twitter, lo stato di salute di chi li scrive e i comportamenti ad esso correlati.
La banca delle parole-chiave
La ricerca è partita da una richiesta rivolta a 5.256 pazienti avvicinati perché avevano avuto accesso a un Pronto Soccorso. Poco più della metà di essi (il 52%) aveva un profilo su Facebook o su Twitter. Il 53% dei membri di questo sottogruppo ha accettato di sottoporsi alla sperimentazione, ma solo 1.008 di loro hanno aderito all'idea di condividere i propri dati clinici sulle piattaforme social, congiungendo così i 1.395.720 messaggi da loro generati a quanto scritto e documentato su di loro dai medici. Un totale di oltre dodici milioni di parole.
I soggetti che si sono prestati all'esperimento sono risultati generalmente caratterizzati da un profilo economico-sociale più alto. Più elevato il titolo di studio, maggiore il reddito, minore l'età.
Che cosa insegna questa ricerca?
Le intenzioni sono state certamente lodevoli: utilizzare i profili più disponibili nei social media per comunicare campagne rivolte alla salute, per esempio. O per monitorare la correttezza delle terapie.
Però non si può negare che quest'apertura "social" costituisca anche un rischio: le compagnie di assicurazione - tanto per proporre un esempio significativo soprattutto negli USA - potrebbero interrogare l'immensa banca dati che quotidianamente contribuiamo a generare per "farsi gli affari nostri". E magari cambiare alcune tariffe specifiche; proporre correzioni alle quote di partecipazione e di rischio; oppure, peggio, escludere qualche voce dalla copertura sanitaria.
Conclusioni
Non viviamo nel migliore dei mondi, si sa. Tuttavia "diffidare sempre" non è una strategia relazionale efficace: crea infelicità e depressione. Ammettiamo però anche che chiacchierare troppo in piazza non sembra prudente e tornare a lavare i panni sporchi nel cortile interno potrebbe non essere, in fondo, una stupidaggine.
Non solo perché i datori di lavoro ci osservano (autorizzati dal nuovo corso su lavoro e diritti che segna i nostri tempi: si veda, per amor di chiarezza, il Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151 ). Ma soprattutto perché potremmo fornire, involontariamente, informazioni riservate sulla nostra salute.
È quanto si deduce da una ricerca della Perelman School of Medicine (della University of Pennsylvania): Linking social media and medical record data: a study of adults presenting to an academic, urban emergency department.
In breve: i ricercatori hanno costituito una banca dati di parole e collegamenti semantici che renderebbe possibile desumere, in base all'analisi del contenuto dei materiali postati su Facebook o su Twitter, lo stato di salute di chi li scrive e i comportamenti ad esso correlati.
La banca delle parole-chiave
La ricerca è partita da una richiesta rivolta a 5.256 pazienti avvicinati perché avevano avuto accesso a un Pronto Soccorso. Poco più della metà di essi (il 52%) aveva un profilo su Facebook o su Twitter. Il 53% dei membri di questo sottogruppo ha accettato di sottoporsi alla sperimentazione, ma solo 1.008 di loro hanno aderito all'idea di condividere i propri dati clinici sulle piattaforme social, congiungendo così i 1.395.720 messaggi da loro generati a quanto scritto e documentato su di loro dai medici. Un totale di oltre dodici milioni di parole.
I soggetti che si sono prestati all'esperimento sono risultati generalmente caratterizzati da un profilo economico-sociale più alto. Più elevato il titolo di studio, maggiore il reddito, minore l'età.
Che cosa insegna questa ricerca?
Le intenzioni sono state certamente lodevoli: utilizzare i profili più disponibili nei social media per comunicare campagne rivolte alla salute, per esempio. O per monitorare la correttezza delle terapie.
Però non si può negare che quest'apertura "social" costituisca anche un rischio: le compagnie di assicurazione - tanto per proporre un esempio significativo soprattutto negli USA - potrebbero interrogare l'immensa banca dati che quotidianamente contribuiamo a generare per "farsi gli affari nostri". E magari cambiare alcune tariffe specifiche; proporre correzioni alle quote di partecipazione e di rischio; oppure, peggio, escludere qualche voce dalla copertura sanitaria.
Conclusioni
Non viviamo nel migliore dei mondi, si sa. Tuttavia "diffidare sempre" non è una strategia relazionale efficace: crea infelicità e depressione. Ammettiamo però anche che chiacchierare troppo in piazza non sembra prudente e tornare a lavare i panni sporchi nel cortile interno potrebbe non essere, in fondo, una stupidaggine.