SALUTE
bufale e prevenzione
Diagnosi precoce o screening, cosa serve davvero contro il cancro
Non sempre individuare in modo molto precoce una lesione tumorale giustifica il costo di analisi, diagnostica: ha un senso solo se si risponde a certi canoni, come la familiarità o l'età. Colloquio con Nino Cartabellotta, medico chirurgo e Presidente della Fondazione GIMBE

Dottore spesso si fa confusione tra screening oncologico e diagnosi precoce dei tumori. Sono concetti sovrapponibili?
Assolutamente no.
La diagnosi precoce dei tumori è un concetto che affascina, perché si è istintivamente portati a credere che l’identificazione precoce di una lesione e la conseguente tempestività del trattamento permettano di eliminare le conseguenze del tumore e di ridurre la mortalità. Di conseguenza, tutti i test per la diagnosi precoce dei tumori vengono accolti con grande entusiasmo dai professionisti sanitari e richiesti dai cittadini, anche se la ricerca non ha dimostrato la loro efficacia e il loro profilo rischi-benefici.
Viceversa, gli screening oncologici vengono attuati, secondo le migliori evidenze scientifiche, nell’ambito dei programmi di prevenzione offerti dal SSN su fasce a rischio della popolazione, al fine di individuare precocemente il tumore prima che si manifesti con i sintomi, al fine di aumentare le probabilità di cura.
In Italia la prevenzione oncologica è una delle priorità del “Piano Nazionale della Prevenzione”, nell’ambito del quale il Ministero della Salute ha definito programmi di screening per tre tumori:
• Mammella, attraverso una mammografia ogni 2 anni per le donne tra i 50 e i 69 anni)
• Collo dell’utero, mediante Pap-test ogni tre anni per le donne tra i 25 e i 64 anni, oppure con la ricerca del papillomavirus, ogni 5 anni a partire dai 30 anni
• Colon-retto, attraverso la ricerca del sangue occulto nelle feci ogni due anni, per uomini e donne tra i 50 e i 69 anni, oppure la sigmoidoscopia, una volta nella vita o con intervallo non inferiore a 10 anni per le persone di 58-60 anni.
Quindi una diagnosi precoce non sempre si traduce in un vantaggio per i pazienti?
Proprio così. Le evidenze scientifiche documentano che solo gli screening oncologici offerti alla popolazione sono in grado di ridurre la mortalità tumorespecifica. Viceversa, altri accertamenti diagnostici hanno un valore molto discutibile, o addirittura nullo: il dosaggio del CA125 e l’ecografia transvaginale per il tumore dell’ovaio, il PSA per il tumore della prostata, la TAC spirale e la radiografia del torace per il tumore del polmone. Peraltro, la presunta efficacia della diagnosi precoce viene spesso rafforzata da fuorvianti strategie di comunicazione: infatti, qualunque esame che anticipa il momento della diagnosi, pur non modificando la data o la causa della morte, aumenta artificiosamente la sopravvivenza, senza ridurre la mortalità.
Ma perché rinunciare a identificare precocemente lesioni tumorali che crescono in silenzio nel nostro corpo, se gli esami non sono invasivi e non comportano rischi?
In realtà non è affatto così! Una persona sana che si muove lungo la cascata dello screening può incorrere in diversi rischi, non solo in termini di salute fisica: possono sempre esserci complicanze legate ai vari accertamenti diagnostici, e psicologica, come ansia e insonnia nell’attesa dei risultati, ma anche in termini economici - per esempio problemi finanziari in seguito a risultati di screening o di test diagnostici positivi - e di perdita di opportunità, con la distrazione da altri significativi eventi della vita. Inoltre, tutti gli accertamenti diagnostici presentano il rischio di sovradiagnosi (definita come “epidemia del 21° secolo”), ovvero possono identificare lesioni che non diventeranno mai sintomatiche, né saranno causa di mortalità precoce. In altre parole, il paziente “morirà con il tumore, ma non per il tumore”. Ovviamente, quando identificate, tutte queste lesioni “senza conseguenze” richiedono ulteriori accertamenti diagnostici anche invasivi e terapie spesso inutili, ma che presentano gravi effetti collaterali: dalla tossicità di chemioterapia e radioterapia, alla sepsi conseguente alla biopsia, alle complicanze e alla mortalità post-operatorie e, in casi estremi, anche il suicidio. Senza contare che tutto questo fa lievitare inutilmente sia i costi.
E quindi cosa bisognerebbe fare, rassegnarsi al fatalismo?
Bisogna considerare che la parola “cancro”, oggi utilizzata per descrivere una gamma sempre più ampia di lesioni, mantiene una enorme carica di paura, influenzando negativamente il pensiero e condizionando le scelte delle persone. Ecco perché di fronte a lesioni non invasive definite con termini che implicano l’inevitabilità del cancro, persone sane, improvvisamente etichettate come pazienti oncologici, sono pronte ad accettare terapie dai benefici incerti, ma dai rischi sicuri. Per interrompere questo circolo vizioso innanzitutto è necessaria una revisione della terminologia, che dovrebbe riservare la definizione di “cancro” e di “carcinoma” esclusivamente alle lesioni che hanno probabilità di evolvere se non trattate. In secondo luogo, medici, pazienti e cittadini dovrebbero acquisire una maggiore consapevolezza non solo dei vantaggi, ma anche dei potenziali rischi della diagnosi precoce in oncologia, al di fuori degli screening organizzati. Infine, è indispensabile arginare la percezione professionale e sociale, istintivamente molto attraente, che in oncologia la diagnosi precoce costituisce sempre e comunque la migliore opzione per tutte le persone.
Torniamo agli screening oncologici: dovrebbero essere organizzati in tutto il Paese secondo le indicazioni del Ministero della Salute. Ma è così?
Purtroppo solo sulla carta. Secondo i dati 2013 dell'Osservatorio Nazionale Screening (ONS) esistono notevoli differenze nella attuazione degli screening da parte delle Regioni, in particolare tra Nord e Sud. Riguardo lo screening del tumore della mammella circa 3 donne su 4 della popolazione target sono state regolarmente invitate, ma con grandi differenze tra Nord (oltre 9 donne su 10), Centro (oltre 8 donne su 10) e Sud (4 donne su 10). Per quanto riguarda lo screening del tumore del colon-retto il Nord sostanzialmente copre tutta la popolazione target, il Centro invita 6 persone su 10 e il Sud rimane il solito fanalino di coda. Per quanto riguarda lo screening del tumore del collo dell’utero la copertura maggiore si ha nel Centro dove si raggiungono con l’invito quasi 9 donne su 10. Questo valore scende a valori inferiori al 70% al Sud e al Nord, dove pesa la decisione della Lombardia di non implementare questo programma in tutto il territorio. Oltre a queste disomogeneità nell’invito della popolazione a rischio, va ricordato che solo una metà delle persone aderisce agli screening organizzati, con il solito gradiente decrescente Nord-Centro-Sud.
Assolutamente no.
La diagnosi precoce dei tumori è un concetto che affascina, perché si è istintivamente portati a credere che l’identificazione precoce di una lesione e la conseguente tempestività del trattamento permettano di eliminare le conseguenze del tumore e di ridurre la mortalità. Di conseguenza, tutti i test per la diagnosi precoce dei tumori vengono accolti con grande entusiasmo dai professionisti sanitari e richiesti dai cittadini, anche se la ricerca non ha dimostrato la loro efficacia e il loro profilo rischi-benefici.
Viceversa, gli screening oncologici vengono attuati, secondo le migliori evidenze scientifiche, nell’ambito dei programmi di prevenzione offerti dal SSN su fasce a rischio della popolazione, al fine di individuare precocemente il tumore prima che si manifesti con i sintomi, al fine di aumentare le probabilità di cura.
In Italia la prevenzione oncologica è una delle priorità del “Piano Nazionale della Prevenzione”, nell’ambito del quale il Ministero della Salute ha definito programmi di screening per tre tumori:
• Mammella, attraverso una mammografia ogni 2 anni per le donne tra i 50 e i 69 anni)
• Collo dell’utero, mediante Pap-test ogni tre anni per le donne tra i 25 e i 64 anni, oppure con la ricerca del papillomavirus, ogni 5 anni a partire dai 30 anni
• Colon-retto, attraverso la ricerca del sangue occulto nelle feci ogni due anni, per uomini e donne tra i 50 e i 69 anni, oppure la sigmoidoscopia, una volta nella vita o con intervallo non inferiore a 10 anni per le persone di 58-60 anni.
Quindi una diagnosi precoce non sempre si traduce in un vantaggio per i pazienti?
Proprio così. Le evidenze scientifiche documentano che solo gli screening oncologici offerti alla popolazione sono in grado di ridurre la mortalità tumorespecifica. Viceversa, altri accertamenti diagnostici hanno un valore molto discutibile, o addirittura nullo: il dosaggio del CA125 e l’ecografia transvaginale per il tumore dell’ovaio, il PSA per il tumore della prostata, la TAC spirale e la radiografia del torace per il tumore del polmone. Peraltro, la presunta efficacia della diagnosi precoce viene spesso rafforzata da fuorvianti strategie di comunicazione: infatti, qualunque esame che anticipa il momento della diagnosi, pur non modificando la data o la causa della morte, aumenta artificiosamente la sopravvivenza, senza ridurre la mortalità.
Ma perché rinunciare a identificare precocemente lesioni tumorali che crescono in silenzio nel nostro corpo, se gli esami non sono invasivi e non comportano rischi?
In realtà non è affatto così! Una persona sana che si muove lungo la cascata dello screening può incorrere in diversi rischi, non solo in termini di salute fisica: possono sempre esserci complicanze legate ai vari accertamenti diagnostici, e psicologica, come ansia e insonnia nell’attesa dei risultati, ma anche in termini economici - per esempio problemi finanziari in seguito a risultati di screening o di test diagnostici positivi - e di perdita di opportunità, con la distrazione da altri significativi eventi della vita. Inoltre, tutti gli accertamenti diagnostici presentano il rischio di sovradiagnosi (definita come “epidemia del 21° secolo”), ovvero possono identificare lesioni che non diventeranno mai sintomatiche, né saranno causa di mortalità precoce. In altre parole, il paziente “morirà con il tumore, ma non per il tumore”. Ovviamente, quando identificate, tutte queste lesioni “senza conseguenze” richiedono ulteriori accertamenti diagnostici anche invasivi e terapie spesso inutili, ma che presentano gravi effetti collaterali: dalla tossicità di chemioterapia e radioterapia, alla sepsi conseguente alla biopsia, alle complicanze e alla mortalità post-operatorie e, in casi estremi, anche il suicidio. Senza contare che tutto questo fa lievitare inutilmente sia i costi.
E quindi cosa bisognerebbe fare, rassegnarsi al fatalismo?
Bisogna considerare che la parola “cancro”, oggi utilizzata per descrivere una gamma sempre più ampia di lesioni, mantiene una enorme carica di paura, influenzando negativamente il pensiero e condizionando le scelte delle persone. Ecco perché di fronte a lesioni non invasive definite con termini che implicano l’inevitabilità del cancro, persone sane, improvvisamente etichettate come pazienti oncologici, sono pronte ad accettare terapie dai benefici incerti, ma dai rischi sicuri. Per interrompere questo circolo vizioso innanzitutto è necessaria una revisione della terminologia, che dovrebbe riservare la definizione di “cancro” e di “carcinoma” esclusivamente alle lesioni che hanno probabilità di evolvere se non trattate. In secondo luogo, medici, pazienti e cittadini dovrebbero acquisire una maggiore consapevolezza non solo dei vantaggi, ma anche dei potenziali rischi della diagnosi precoce in oncologia, al di fuori degli screening organizzati. Infine, è indispensabile arginare la percezione professionale e sociale, istintivamente molto attraente, che in oncologia la diagnosi precoce costituisce sempre e comunque la migliore opzione per tutte le persone.
Torniamo agli screening oncologici: dovrebbero essere organizzati in tutto il Paese secondo le indicazioni del Ministero della Salute. Ma è così?
Purtroppo solo sulla carta. Secondo i dati 2013 dell'Osservatorio Nazionale Screening (ONS) esistono notevoli differenze nella attuazione degli screening da parte delle Regioni, in particolare tra Nord e Sud. Riguardo lo screening del tumore della mammella circa 3 donne su 4 della popolazione target sono state regolarmente invitate, ma con grandi differenze tra Nord (oltre 9 donne su 10), Centro (oltre 8 donne su 10) e Sud (4 donne su 10). Per quanto riguarda lo screening del tumore del colon-retto il Nord sostanzialmente copre tutta la popolazione target, il Centro invita 6 persone su 10 e il Sud rimane il solito fanalino di coda. Per quanto riguarda lo screening del tumore del collo dell’utero la copertura maggiore si ha nel Centro dove si raggiungono con l’invito quasi 9 donne su 10. Questo valore scende a valori inferiori al 70% al Sud e al Nord, dove pesa la decisione della Lombardia di non implementare questo programma in tutto il territorio. Oltre a queste disomogeneità nell’invito della popolazione a rischio, va ricordato che solo una metà delle persone aderisce agli screening organizzati, con il solito gradiente decrescente Nord-Centro-Sud.