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SALUTE

Ecomafie, attacco all’ambiente e alla salute

Nessuno è in grado di valutare quanto pesi sull’economia mondiale la criminalità organizzata che fa affario sporchi con l’ambiente: di certo sono centinaia di miliardi, ogni anno. Le ricadute sono economiche, ma come dimostra la Terra dei Fuochi anche di salute, oltre che ambientali.

Colloqio con Antonio Pergolizzi, coordinatore Osservatorio Ambiente e legalità di Legambiente

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Tumori, malattie della pelle e respiratorie per intere comunità, in nome del business di qualcuno. Voi le chiamate ecomafie. Quali sono e come agiscono?

L’ecomafia, come in generale l’ecocriminalità, ha quale obiettivo accumulare denaro e potere contando sulla sistematica violazione delle norme previste a tutela degli ecosistemi e della salute dei cittadini, così come la messa a tacere di ogni principio etico. Accanto alle vecchie e nuove mafie, eserciti di professionisti, uomini d’affari, politici e funzionari pubblici hanno individuato nel saccheggio ambientale una facile occasione di guadagno mettendo in piedi ben strutturati network ecocriminali. Collante di questi mondi diversi è sempre stata la corruzione, che soprattutto in campo ambientale può manifestarsi con particolare facilità, grazie a un impianto normativo particolarmente vulnerabile e alla stessa labilità nel definire nei vari settori il confine tra lecito e illecito: si pensi, per esempio, alla gestione illegale dei rifiuti, laddove il semplice cambio di un codice alfanumerico (Cer) può comportare risparmi economici davvero significativi per ogni singola impresa. Facile, quindi immaginarsi la predisposizione di un servizio parallelo a quello ufficiale dove si scaricano i costi sociali e ambientali sulla collettività. A sostenere l’operatività degli ecocriminali non è solo la fredda analisi in termini di costi-opportunità, ma anche la qualità delle policies e la stessa tenuta del tessuto sociale, condizioni determinanti per aprire oppure chiudere spazi alle strategie ecocriminali. 




Esistono però anche altri canali, all'apparenza non hanno a che fare con la criminalità ma impattano sulla nostra salute: l'Agenzia delle Dogane, i Nas, la Guardia di Finanza sequestrano di continuo prodotti che arrivano soprattutto dall'estremo oriente, fatti con materiali da noi vietati perché cancerogeni. 

Le regole del libero mercato e del profitto a tutti i costi può contenere parecchie insidie, anche per la salute pubblica e per la tutela delle matrici ambientali. Se il criterio guida dell’azione economica è allargare la forbice tra costi e ricavi, la tentazione di spingere in basso i costi si può manifestare attraverso il ricorso al classico dumping ambientale e/o sociale, cioè spostare la produzione dove insistono minori standard di tutela ambientale e di welfare, per poi vendere quegli stessi prodotti sui diversi mercati, compreso il nostro. Questa operazione di cost/shifiting può assumere connotati legali, cioè rispettando le regole, oppure spingersi fino a violare – in tutto o in parte – quelle stesse regole. La globalizzazione ha infatti spinto oltre il limite massimo la circolazione di merci e messo sul mercato una mole impressionante di prodotti omologati e di bassa qualità, oltreché dannosi per la salute umana. Chi è in grado di poter controllare questo flusso continuo? Le regole del commercio mondiale sono nei fatti incompatibili con l’implementazione di sistemi di controlli efficaci per intercettare i flussi illegali. Oltre ai danni sanitari, gravissimi, queste strategie economiche spregiudicate creano enormi costi sociali in termini di occupazione, alterando il mercato grazie all’intrusione di prodotti realizzati senza rispettare gli standard ambientali e sociali minimi fissati nei paesi di vendita. Penalizzando la manifattura locale, soprattutto quella che ha da sempre investito nella qualità e nel suo radicamento territoriale. Si pensi solo ai danni che questa forma di globalizzazione senza regole ha causato alla nostra industria agroalimentare, tessile o alla meccanica, settori oggi in crisi. A soffrire non è solo la salute dei cittadini/consumatori ma interi segmenti economici e la stessa tenuta sociale in tante parti del Paese.  




Di alcuni prodotti scopriamo a distanza di decenni che erano potenzialmente dannosi: clamorosa la rivelazione di fibre d'amianto nella vecchia versione del Das, la creta con cui giocavamo da bambini. E di mesotelioma si continua a morire, in Italia, decine di siti sono inquinati dall'amianto, quello che ancora riveste molti edifici anche pubblici resta dov'è?

A 23 anni dalla sua messa al bando, l’amianto è ancora diffusissimo, in diverse forme, sul nostro territorio: le stime (per difetto) di CNR-Inail parlano di ben 32 milioni di tonnellate; il Programma nazionale di bonifica del Ministero dell’Ambiente conta 75mila ettari di territorio in cui è accertata la presenza di materiale in cemento amianto. Basta guardarsi attorno per capire l’entità della minaccia. Nonostante la Legge 257 prevedesse Piani Regionali Amianto redatti entro 180 giorni dalla sua pubblicazione, ad oggi Abruzzo, Calabria, Lazio, Molise, Puglia e Sardegna non li hanno ancora approvati. 

Intanto il censimento, fondamentale per calcolare le quantità da recuperare e realizzato (in modo disomogeneo) solo in 10 Regioni (Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria e Valle d’Aosta), indica oltre230mila strutture censite. In particolare, gli edifici pubblici e privati contenenti amianto sarebbero più di 188.000 cui vanno aggiunti i 6.913 siti industriali dislocati su tutto il territorio nazionale e altre strutture contenenti la pericolosa fibra. Sono pochi infatti gli interventi di bonifica realizzati ad oggi: 27.020 edifici tra pubblici e privati; lenti quelli in corso: 26.868; molti quelli ancora da iniziare, tanto che di questo passo si stimano non meno di 85 anni per completare le bonifiche




Le leggi attuali servono davvero a difendere la nostra salute da chi fa soldi avvelenando l'ambiente?

Con la nuova legge sugli ecoreati (Legge N. 68/2015) dello scorso mese di maggio si è sicuramente fatto un passo in avanti sul fronte repressivo e preventivo, introducendo 6 nuovi delitti ambientali nel nostro codice penale. Un risultato ottenuto dopo decenni di dura lotta, che ha visto la nostra associazione da sempre in prima linea nel rappresentare gli interessi dell’intera collettività. Con questi nuovi strumenti chi inquina paga veramente. Oggi l’impresa che inquina violando la legge rischia pene severe, sia in termini penali – verso i propri manager – che in termini di sanzioni economiche. Per la prima volta in Italia, l’ambiente riceve degna tutela penale. Le prime applicazione da parte delle forze dell’ordine delle nuove norme sono più che incoraggianti. Ma rimane ancora molto da fare. A cominciare dalla riforma del sistema della Arpa (Agenzie regionali di protezione ambientale), da nuove norme in materia di contrasto all’abusivismo edilizio (in primis con riferimento alle demolizione dei manufatti illegali che sfregiano il nostro territorio) e in generale nuove politiche a sostegno dell’economia circolare e per la preservazione e valorizzazione del territorio e delle sue bellezze.