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CULTURA

Il grande giornalista muore il 6 novembre del 2007

Enzo Biagi, un piccolo tributo al cronista del Novecento

"Ho sempre sognato di fare il giornalista: lo immaginavo come un 'vendicatore' capace di riparare danni e ingiustizie. Ero convinto che mi avrebbe portato a scoprire il mondo". Enzo Biagi è stato per tutta la vita un monumento con il senso del dovere di un praticante

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di Elisabetta Marinelli

Immaginatelo con il taccuino in mano, davanti a una telecamera. Era il cronista del Novecento, testimone del tempo. È stato sulla notizia fino all'ultimo, anche quando la notizia era lui: "se avete già pagato per il mio funerale fatevi restituire i soldi, oggi non muoio" disse quando il bollettino medico era impazzito.

Enzo Biagi era il ricordo di se stesso, come diceva l'amico Federico Fellini. Di un mondo e di un secolo che le ha viste tutte, e di un giornalismo fatto di principi come onestà, credibilità, coerenza. Ha raccontato, anche con certi suoi silenzi degli ultimi tempi, la crisi morale, il sopravvento delle idee sulle ideologie, il pericolo dell'indifferenza in un Paese scontento di sé. Questa Italia che non ha mai smesso di amare. Quando tornò in TV, dopo cinque anni di esilio, dopo l'editto bulgaro di Berlusconi, il suo cuore era già stanco. Lo fece per ricordare che "ogni tempo ha una sua Resistenza", che bisogna amare la verità "anche quando è scomoda". Per dire quel che non doveva dire, Biagi ha sempre pagato di suo.



L'epurazione in TV arrivò dopo la morte della moglie Lucia e la scomparsa della figlia più giovane, Anna. "Per essere felici bisogna essere in due" ripeteva spesso, il lavoro è stata la sua salvezza. Scriveva quello che aveva dentro, e quello che aveva dentro gli veniva dalla sua storia, da un passato vissuto con dignità. Andava fiero del padre operaio in fabbrica, di mamma Bice (adorata) e del suo lavoro di sarta, così brava nel rivoltare i cappotti. Ricordava con delicatezza la camera con cucina al piano terra che dividevano in quattro a Bologna. Raccontava delle scorribande per la festa di San Luca, dove "c'erano le ragazze e le ciambelle calde". Ogni articolo, ogni libro, sembra filtrato da quell'infanzia povera, la famiglia che misura tutto, il rosmarino sulle patate per dare profumo a un arrosto che non c'è, la Bibbia sul comodino, la mamma che gli raccomanda di non dire le bugie. Mamma Bice si precipitò a scuola e gli impose di confessare di aver mentito quando, in un tema, scrisse che il padre faceva l'impiegato. "Operaio" gli disse accompagnandolo dall'insegnante. Fu una lezione per tutta la vita.

Cominciò a scrivere a 17 anni e non ha più smesso
A 30 anni divenne caporedattore a Epoca e poi direttore, nomina sul campo dopo una copertina sul caso Montesi: guadagnò novantamila copie in due settimane. Un giorno però attaccò il governo Tambroni. Scrisse "Sette poveri inutili morti" quando la celere caricò gli operai delle officine di Reggio Emilia. Il mattino dopo il ministro chiese la sua testa. L'editore, Arnoldo Mondadori, lo abbracciò piangendo: "posso offrirle un altro posto". Biagi si confidò con la moglie. Lei ha vissuto tutto ciò che ha fatto. "Se tu accettassi non ti rispetterei più " gli disse. Non accettò e si licenziò.

I rapporti con la Rai cominciarono l'anno dopo, nel 1961. Bernabei lo chiamò e Biagi divenne direttore del Tg1. Si presentò dicendo: "La mia TV sarà al servizio del pubblico e non dei politici". Eliminò il taglio dei nastri ( cosa che fece infuriare Saragat) e le veline politiche. Curò la nascita del Tg della seconda rete e inventò 'Rt', il primo rotocalco televisivo. Mandò le telecamere in piazza a Corleone, il paese della mafia. Fece commentare certi fatti a Montanelli e Bocca. L'Osservatorio Romano lo criticò, la Dc non lo amava e quando invitò il segretario del Pci Togliatti a una Tribuna politica, Scelba, il ministro di ferro, si irritò. Biagi durò poco, un anno appena.


(Enzo Biagi insieme alla figlia Bice e alla moglie Lucia)

La Rai gli offrì allora di girare il mondo, grandi reportage, grandi interviste. E lui volò dappertutto. Iniziò così "l'era biagiana", come disse Pietro Garinei. Giulio De Benedetti, il direttore che si è inventato la cronaca, volle sulla Stampa i suoi pezzi ogni domenica: gli operai erano a casa, in tavola c'era il bollito, a pagina tre c'era una storia raccontata da Enzo Biagi. Raccontare la vita del mondo in diretta gli piaceva. America, Russia, Francia, Cina, Scandinavia, Polonia, Sudan, Argentina, Cuba. Il giorno di Dallas, quando ammazzarono Kennedy, era sul posto. Era in un pub e vide il pianto improvviso e convulso di una cameriera, poi le immagini in TV. Dettò a braccio un pezzo di cronaca, poi ne inventò un altro: cosa accadeva in America nello stesso momento in cui il presidente veniva colpito da Oswald. Il pezzo non uscì, De Benedetti lo cestinò. Voleva un altro articolo: emozioni, lacrime, sentimenti. "È l'unico direttore che mi ha fatto piangere" racconterà Biagi. Pianse e si dimise su due piedi.

Era una firma ed era diventato una faccia. Il pubblico si affezionò presto a un marchio che era una garanzia. Non barava. Quando a cinquant'anni fu nominato direttore del Resto del Carlino salutò i lettori così: "consideriamo il quotidiano un servizio pubblico. Come i trasporti e l'acquedotto: non manderemo nelle vostre case acqua inquinata". Ma anche questa avventura, segnata da una tiratura straordinaria (anche grazie al supplemento TV e alla storia a fumetti), non durò molto. La linea editoriale era sotto accusa. Biagi non pubblicò i discorsi della domenica del ministro delle finanze Preti, amico dell'editore, il petroliere Attilio Monti. "Non c'era notizia, perché dovevo farlo?". Poi fece intervistare don Milani, il prete eretico di Barbiana, e un servizio sulla maggioranza silenziosa creò polemiche. Monti gli fece capire che certi giornalisti non andavano bene, Biagi li difese: "li ho scelti io, se devono andarsene lo facciamo insieme". Via anche dal Resto del Carlino e da Bologna. "Non bisogna mai tornare dove si è stati felici" disse citando quello che gli aveva detto Dollman, l'interprete di Hitler.

(Enzo Biagi intervista in carcere Michele Sindona)

"Senza un punto di vista, che poi è morale, non c'è giornalismo"
Lo accusavano di essere di parte, lui non si nascondeva. Per l'Unità era un qualunquista, per la Dc troppo socialista. Ma Papa Giovanni leggeva i suoi pezzi e Agnelli e Ferrari si confidavano con lui. Biagi, però, scriveva per la gente, quella che fa la coda alla Asl e la spesa al supermarket. Buscetta, il boss pentito della mafia, si confidò con lui. Sindona parlò con lui. Arrivò alla valigetta di Calvi. Il serial killer Stevanin, il contadino veneto sezionatore di prostitute, gli disse cose che non aveva mai ammesso durante il processo nel corso di una intervista magistrale, da manuale del giornalismo. "Non so cosa succedeva, a un certo punto morivano" si lasciò sfuggire. Di lui disse il cardinale Carlo Maria Martini: "se avessi dovuto scegliermi un padre spirituale laico avrei senz'altro scelto lui, che mi dava tanta fiducia e libertà di esprimermi". Di Biagi anche le ultime confessioni di Marcello Mastroianni.



Era un monumento con il senso del dovere di un praticante. Un giorno, era il 1976, gli chiesero di andare a Seveso. Altre grandi firme avevano disdegnato, troppo vicino a casa. Lui accettò: "il rango di un inviato non si misura dai chilometri". Scrisse il pezzo sul solito block notes e andò in prima pagina: era lo scandalo diossina.

Si espose non di rado in solitudine. Difese Enzo Tortora dall'accusa di camorra. Chiese scusa al professor Schillaci, un padre indagato ingiustamente per abusi sulla figlioletta malata. Fu dalla parte di Falcone e Borsellino, dei preti di strada, come don Milani, don Zeno e don Mazzolari, di Pietro Nenni , che del socialismo gli disse che "deve aiutare chi sta indietro a fare un passo avanti". Non fu amico di Bettino Craxi e si prese del "moralista un tanto al chilo" per aver così fotografato il nuovo segretario del Psi negli anni dell'ascesa al potere: "di sicuro sa quello che vuole e non sta certo a sottilizzare sul prezzo". Scontò gli anni del Psi garofanato, nell'epoca dei nani e delle ballerine, con boicottaggi e polemiche su ogni trasmissione e con qualche veto su direzioni importanti. In TV con cinque minuti di cronaca faceva ogni sera un editoriale. Era "Il Fatto". Rappresentava una sorta di bussola nel frastuono delle notizie. Tenne botta fino all'editto berlusconiano.


(Enzo Biagi incontra Gheddafi a Tripoli nel 1986)

Quando scoppiò lo scandalo P2 al Corriere della Sera andò in assemblea: "non posso stare in un giornale che al suo direttore chiede la tessera della massoneria". Mandò il pezzo per la rubrica, 'Strettamente personale', fu una bomba. Scrisse: "Nessuno è consacrato degno per principio, tanto meno un quotidiano, che vive sull'effimero. Il Corriere non può essere sconfitto da Licio Gelli e dai suoi candidi o malvagi seguaci. Dietro di me non c'è altro che la mia coscienza, nei miei programmi futuri soltanto la tomba. Che, vorrei, è ovvio, fosse più lontana e con una lapide: Scrisse quello che poteva, mai quello che non voleva. Amen". Un epitaffio dettato con 26 anni di anticipo.

Sentiva profondamente certi drammi del vivere umano. Alla periferia di Bucarest, in un orfanotrofio che aveva ereditato lo scempio delle sacche di sangue infette, pianse dopo aver incrociato lo sguardo di un bambino malato terminale di Aids. Resta indimenticabile il documentario in cui andò a Disneyland e a Lourdes con 270 bambini malati. Aveva un carattere terribile, ma sapeva divertire con l'autoironia, cantando e ballando Jovanotti, imitando Wanda Osiris.

Enzo Biagi è stato tutto questo. Ha lasciato, ai giornalisti e alle persone tutte, un patrimonio inestimabile di moralità e di buona fede. Tanto più grandi alla luce dei tempi correnti.