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MONDO

La stampa al bivio

Raccontare i fatti o dare opinioni? Gli effetti del caso Snowden

Il Datagate scoppia come un fulmine a ciel sereno nel giugno del 2013 riaprendo un dibattito tra due fazioni che si contendono la definizione di quello che dovrebbe essere il giornalismo del futuro

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Edward Snowden
di Roberta Rizzo
In Italia è stato ribattezzato “Datagate” il caso NSA, dall’acronimo della National Security Agency. Un caso che ha messo in imbarazzo gli Stati Uniti davanti al mondo intero. Forse il primo vero scandalo dell’amministrazione Obama esploso in seguito alle rivelazioni della “talpa”: Edward Snowden, un giovane informatico appena 30enne, ex impiegato dell’agenzia di sicurezza nazionale Usa, che il 5 giugno dello scorso anno ha deciso di rendere pubblici i documenti sulle attività di raccolta dati e intercettazioni portate avanti dalla NSA e dal suo corrispettivo inglese GCHQ (Government Communications Headquarters).

Snowden ha raccontato al mondo i dettagli dei progetti, chiamati Prism e Tempora, due sistemi tentacolari grazie ai quali l’intelligence Usa e inglese (ma anche l’Fbi), accedono da almeno sei anni a intercettazioni telefoniche, fax, comunicazioni digitali e ai server mondiali di nove big company del Web: da Facebook a Skype. Da queste rivelazioni è emerso che ad essere spiati erano ben 122 leader mondiali (fra cui la cancelliera Angela Merkel), ma anche aziende tedesche e cinesi concorrenti a quelle anglosassoni.

Lo scoop planetario è stato firmato dal quotidiano Guardian e dal Washington Post che nell’aprile di quest’anno si sono aggiudicati il premio Pulitzer. Tramite un post sul blog dell’avvocato Gleen Greenwald, il giornale inglese è stato il primo infatti a rivelare l’operazione di spionaggio ripresa e approfondita il giorno dopo in un pezzo firmato dal reporter Ewen MacAskill sul Washington Post. Attraverso un video, ormai divenuto famoso, la stessa talpa ha deciso di rivelare il suo volto e il suo nome e di spiegare al mondo perché ha fatto tutto ciò.

Mentre il Datagate travolgeva le due sponde dell’Atlantico, costringendo il presidente Barack Obama a chiedere scusa e promettere la sospensione dei programmi di cyber spionaggio, nel mondo dell’informazione si è aperto un dibattito su due diverse concezioni giornalismo. Da un lato quella del New York Times, (non a caso tenuto fuori dalle rivelazioni di Snowden) difensore del modello americano, per cui il primo compito del giornalista è informare, comunicare i fatti: sulla base dei quali il pubblico costruisce in seguito le proprie opinioni. Dall’altra il giornalismo militante del Guardian. Il primo è un giornalismo non schierato, super partes. Il secondo interpreta i fatti e spiega al pubblico la scelta di schierarsi da una parte o dall’altra.

Non solo. È entrato in crisi il classico modello d’inchiesta: sì perché a rivelare al mondo il caso NSA non è stato un pezzo scritto da una firma prestigiosa di uno di questi grandi giornali ma un “post” all’interno di un blog di un tale, Glenn Greenwald appunto, che collaborava con il Guardian da esterno e viveva a Rio De Janeiro. Una scelta, quella di Snowden, non casuale: il blogger era decisamente fuori dalla portata delle autorità inglesi e rivelare a lui i dettagli sul programma di sorveglianza top secret lo avrebbe messo al riparo dal rischio che lo scoop non venisse pubblicato per pressioni governative cui sono sottoposti i grandi giornali, anche se prestigiosi. Il dibattito si è quindi allargato al ruolo delle fonti e al rapporto che la stampa dovrebbe avere con il governo.

Dunque i giornalisti devono essere obiettivi o attivisti? Votati all’imparzialità o dichiaratamente di parte? Queste due visioni contrapposte sono emerse con prepotenza in uno scambio di lettere pubblicato sul New York Times tra Greenwald e Bill Keller, ex redattore capo del prestigioso quotidiano della Grande Mela. La scintilla è stata la notizia che l’autore dello scoop su Snowden avrebbe fondato di lì a breve The Intercept, un sito di giornalismo investigativo insieme a Pierre Omidyar, fondatore e amministratore di eBay in cui i due promettevano di “buttare al mare tutte le vecchie regole del giornalismo”. “Noi tratteremo le affermazioni dei gruppi più potenti con scetticismo e non con reverenza” attacca Greenwald spiegando quanto le opinioni siano importanti quanto i fatti e devono essere riportate al lettore che, conoscendo le idee di chi scrive, può valutare al meglio le informazioni che riceve. All’opposto Keller considera l’imparzialità un valore fondamentale e un’ambizione del giornalismo: il futuro dell’informazione non può essere affidato alle scelte di “attivisti” come Julian Assange (il fondatore di Wikileaks) o dello stesso Greenwald che diffondono documenti “con insensibile indifferenza” alle conseguenze che possono provocare. Cercare di essere imparziali, secondo l’ex direttore del New York Times “in molti casi porta più vicino alla verità, perché impone la disciplina di sottoporre a un vaglio tutte le tesi”.