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ITALIA

Conferenza stampa a Palazzo Madama

Giulio Regeni, un anno dopo i genitori rinnovano l'atto d'accusa: "Omicidio di Stato"

Il 29 marzo 2016, in una sala stampa del Senato gremita come mai prima, Paola e Claudio Regeni parlavano pubblicamente per la prima volta. A un anno di distanza,  la verità sulla morte del ricercatore friulano ancora non c'è. Oggi, nello stesso luogo, si rinnova l'atto d'accusa 

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Poco più di un anno fa, era il 29 marzo del 2016, nella sala stampa del Senato i genitori di Giulio Regeni, insieme al loro legale, parlavano pubblicamente per la prima volta. In una sala gremita all'inverosimile, sedevano al tavolo delle conferenze insieme al portavoce di Amnesty International Riccardo Noury e al presidente della Commissione Diritti umani Luigi Manconi. Oggi, nel medesimo luogo la stessa formazione torna a ribadire, in conferenza stampa, che la fine del ricercatore friulano, scomparso in Egitto il 25 gennaio e trovato morto il 3 febbraio lungo la strada che dal Cairo va ad Alessandria, è stato un omicidio di Stato. Alle 11.30, nella Sala dei caduti di Nassirya di Palazzo Madama, dopo l'introduzione di Luigi Manconi, parleranno Paola e Claudio Regeni, l'avvocato Alessandra Ballerini e Riccardo Noury.

La verità sulla morte di Giulio oggi è più vicina, ma ancora non c'è. E restano le molte falsità  arrivate in questi quattordici mesi dall'Egitto. Dopo oltre un anno di indagini, seguite in Italia da polizia dello Sco e carabinieri del Ros, la procura di Roma è tornata, il 15 marzo scorso, a chiedere verbali di interrogatori (cinque ne sono arrivati, ma ne mancano altrettanti all'appello) e atti dell'indagine che l'autorità giudiziaria egiziana ha raccolto tra mille false piste. Gli inquirenti credono che dagli apparati della National Security egiziana e dagli agenti del Dipartimento investigazioni municipali del Cairo (almeno una decina tra polizia e servizi segreti le persone coinvolte nell'inchiesta) siano arrivate, negli interrogatori effettuati dai magistrati del Cairo, innumerevoli falsità nel corso delle indagini.

Il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Sergio Colaiocco, che coordinano l'indagine italiana sul caso, chiedono eventuali dossier compilati dalla National security su Giulio, e video registrazioni oltre a quella, già nota, dell'incontro con il rappresentante del sindacato degli ambulanti che è stata diffusa a gennaio.

Chi indaga è convinto che Giulio sia stato attenzionato da polizia e servizi egiziani non per un breve periodo, come ammesso dalle autorità del Cairo, ma per almeno due mesi prima di essere rapito, seviziato e ucciso; inoltre dopo una serie di indagini sui tabulati telefonici effettuate in Italia, appare chiaro il collegamento tra gli agenti che si occuparono di tenere sotto controllo Giulio tra dicembre 2015 e gennaio 2016, e gli ufficiali dei servizi segreti egiziani coinvolti nella sparatoria con la presunta banda di criminali uccisi il 24 marzo 2016 a cui gli egiziani provarono ad attribuire l'omicidio di Giulio (in casa di uno dei banditi vennero trovati i documenti del ricercatore); la terza certezza di chi indaga è legata agli ultimi terribili giorni di vita del ricercatore: il luogo doveva essere idoneo a porre in essere, lontani da occhi indiscreti, quelle atroci torture i cui segni rimasero sul cadavere di Giulio. Non poteva trattarsi di una casa, e, secondo chi indaga, solo un ambiente sicuro, di un apparato pubblico, poteva garantire le caratteristiche indispensabili per gestire il sequestro durato una settimana senza esser visti, né sentiti.

Dopo mesi di ricerche sui tabulati telefonici, gli inquirenti hanno trovato i collegamenti tra le due piste che vedono coinvolti agenti della National security e Dipartimento investigazioni municipali del Cairo. È in quelle telefonate che è ancora celata la verità sulla morte di Giulio.