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ITALIA

Corte d'Assise

I giudici di Palermo: la trattativa Stato-mafia accelerò la morte di Paolo Borsellino

Depositate le motivazioni della sentenza nell'anniversario della strage: la mediazione di Dell'Utri rafforzò i piani di Riina, Mancino non volle scalzare Scotti

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L'invito al dialogo che i carabinieri fecero arrivare al boss Totò Riina dopo la strage di Capaci sarebbe l'elemento di novità che indusse Cosa nostra ad accelerare i tempi dell'eliminazione di Paolo Borsellino. Lo sostengono i giudici della corte d'assise di Palermo che hanno depositato le motivazione della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia nel giorno del 26mo anniversario della strage di via D'Amelio che costò la vita al magistrato e ai 5 agenti della scorta.

"Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell'accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla 'trattativa', conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, - scrivono i giudici - in ogni caso non c'è dubbio che quell'invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l'effetto dell'accelerazione dell'omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell'ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d'Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo".

La corte "smonta" poi le tesi dei legali degli imputati che attribuivano l'accelerazione dei tempi della strage all'indagine mafia-appalti che il magistrato stava effettuando e anche alla possibilità di una sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia.

La disponibilità dello Stato al dialogo
Per la Corte, allora, "è giocoforza ritenere che l'unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l'organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo, ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci, pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D'Amelio". Secondo i giudici "quei contatti che già all'indomani della strage di Capaci importanti e conosciuti ufficiali dell'Arma avevano intrapreso attraverso Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l'avvicendamento Scotti-Mancino al ministero dell'Interno, ndr) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Riina già come forieri di sviluppi positivi per l'organizzazione mafiosa. In altre parole se effettivamente quei segnali pervennero a Riina nel periodo immediatamente antecedente alla strage di via D'Amelio (e che ciò effettivamente avvenne risulta provato) è logico e conducente ritenere che Riina, compiacendosi dell'effetto positivo per l'organizzazione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare, con la strage di via D'Amelio, quella straordinaria manifestazione di forza criminale per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato ed ottenere benefici sino a pochi mesi prima (quando vi fu la sentenza definitiva del maxi processo) assolutamente per lui impensabili". 

Dell'Utri rafforzò i piani di Riina 
"Con l'apertura alle esigenze dell'associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell'Utri nella sua funzione di intermediario dell'imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992"., scrive ancora la corte d'Assise di Palermo nelle motivazioni della sentenza. Secondo i giudici che hanno condannato l'ex senatore azzurro a 12 anni di carcere per minaccia a Corpo politico dello Stato, la disponibilità dell'imputato a porsi come intermediario tra i clan e Berlusconi pose inoltre "le premesse della rinnovazione della minaccia al governo quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato appunto presieduto dallo stesso Berlusconi".

La corte, dunque, ha accolto la tesi della procura secondo la quale Dell'Utri sarebbe stato la "cinghia di trasmissione" della minaccia di Cosa nostra all'ex premier. 

I giudici, poi, specificano che perché sussista il reato di minaccia a Corpo politico dello Stato non è necessario che la minaccia abbuia effetti concreti, "ma è sufficiente che sia stata percepita dal soggetto passivo". Cioè non è necessario che gli interventi legislativi del governo Berlusconi o in sede parlamentare di Forza Italia "siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di auotodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa".

Berlusconi sapeva dei rapporti Dell'Utri-mafia
"Se pure non vi è prova diretta dell'inoltro della minaccia mafiosa da Dell'Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell'Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l'associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano", scrive la corte d'Assise di Palermo nelle oltre 5mila pagine delle motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. L'ex senatore, secondo i giudici, ha svolto con continuità almeno fino al 1994 il ruolo di intermediario tra interessi di Cosa nostra e quelli di Berlusconi e ciò sarebbe dimostrato dall'esborso di ingenti somme di denaro da parte delle società di Berlusconi poi versate o fatte arrivare a Cosa nostra. "Tali pagamenti sono proseguiti almeno fino a dicembre del 1994 - scrivono i giudici - quando a Di Natale (mafioso, ndr) fu fatto annotare il pagamento di 250 milioni nel libro mastro che questi gestiva". "Si ha la conferma - prosegue la sentenza - che sino alla predetta data Dell'Utri, che faceva da intermediario di Cosa nostra per i pagamenti, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti coi mafiosi ottenendone le necessarie somme di denaro e l'autorizzazione a versarle a Cosa nostra".

La corte conclude che "vi è la prova che Dell'Utri interloquiva con Berlusconi anche al riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale nel quale incontrava Mangano (mafioso che lavorò come stalliere per Berlusconi, ndr) per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo". Ne sarebbero prova le dichiarazioni del pentito Cucuzza che dice che Dell'Utri informò Mangano di una modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia. "Ciò dimostra - prosegue la corte - che Dell'Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l'insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi, da premier, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell'Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori".

Mancino non volle scalzare Scotti
Non c'è nessuna prova che l'ex ministro Nicola Mancino abbia chiesto di diventare ministro dell'Interno con l'intenzione di scalzare il suo predecessore Vincenzo Scotti per attuare una politica più morbida nei confronti della mafia. E' il giudizio della corte d'Assise di Palermo nelle motivazioni della sentenza. L'ex ministro era imputato di falsa testimonianza, ed è stato assolto.