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CULTURA

Un saggio su "i carcerati della vita militare"

Grande guerra, quegli "ammutinati delle trincee" che l'Italia non ricorda

Le vittime della guerra non furono soltanto i soldati caduti in battaglia, ma anche quanti furono passati per le armi per renitenza e diserzione. Ci furono 350mila processi, 170mila condanne, oltre 4mila a morte. Ma in Italia a differenza di altri Paesi nessun monumento ricorda chi cadde per il dissenso

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di Alessandra Solarino
Nella Prima Guerra Mondiale il nostro Paese pagò un prezzo altissimo in termini di vite umane: i morti furono oltre un milione, un milione e mezzo i feriti. Ma le vittime del conflitto non furono soltanto i morti in battaglia, ma anche quanti si opposero alla carneficina, e scelsero la strada della diserzione e in alcuni casi dell'ammutinamento. Un tema affrontato magistralmente nel saggio "Gli ammutinati delle trincee" di Marco Rossi, pubblicato dalla Biblioteca Franco Serantini. Il responsabile della casa editrice, Franco Bertolucci, ci aiuta a capire cosa ha significato quella "guerra dentro la guerra".

I numeri
"870mila militari furono denunciati, 470mila per renitenza, 350mila il numero dei processi celebrati, 170mila le condanne, di cui 111mila per diserzione. 220mila condanne a pene detentive, tra le quali 15mila all'ergastolo. Oltre 4mila condanne a morte,  750 eseguite". Sono questi i numeri, drammatici, che raccontano la lacerazione vissuta dal Paese nella Grande Guerra, un conflitto che la maggioranza del Paese non avrebbe voluto.



Le ragioni del dissenso
Il malessere dei soldati, che in gran parte provenivano dalle campagne, in parte era dovuto all'estraneità rispetto alle ragioni del conflitto, in parte alle durissime condizioni della guerra in trincea. "La guerra -  ricorda Bertolucci - importò nello scontro le logiche industriali: armi moderne, come i gas tossici, le trincee, l'uso per la prima volta dell'aviazione. Tutto questo provocò un rifiuto quasi naturale, soprattutto tra le masse contadine, strappate alle proprie terre e portate al fronte senza sapere neanche perché".



A determinare la discesa in campo del nostro Paese furono infatti il re e il gruppo dirigente liberale, appoggiati dagli interventisti, un'elite di intellettuali, studenti e politici che poco avevano a che fare con il proletariato. I volontari furono appena 8171. A connotare il dissenso furono, in parte, anche le appartenenze politiche di chi era al fronte. "La propaganda antimilitarista delle forze che si opponevano alla guerra: il Psi, e il movimento anarchico". La linea del Partito Socialista, sintetizzata nella formula "Né sabotare né aderire", frutto del compromesso tra moderati e sinistra del partito, secondo alcuni storici fu "un'implicita dichiarazione di impotenza", e impedì ai socialisti di guidare la rivolta.



La "settimana rossa" e la guerra di Libia
Un precedente importante fu la "settimana rossa", scoppiata nel giugno del 1914, un vasto movimento insurrezionale su posizioni antimilitariste, che chiedeva l’abolizione delle durissime Compagnie di Disciplina nell’Esercito e la liberazione di Augusto Masetti e Antonio Moroni, due soldati che si erano opposti alla guerra di Libia. "Ci furono scontri, moti di piazza, feriti e morti - continua Bertolucci - e le masse operaie guidate in parte da socialisti in parte dagli anarchici, si confrontarono con gli apparati repressivi della monarchia". 

Sulla percezione della guerra-macello, influì infatti anche la guerra di Libia: "Se la guerra contro la Turchia si risolse nell'arco del 1912, la normalizzazione della Libia durò oltre 20 anni". Nella maggior parte dei casi a disertare ed opporsi furono soldati semplici, quadri di livello basso, coloro che vivevano la guerra sulla loro pelle, nella logorante vita di trincea.

Ma a dire no al conflitto era anche il Paese civile: "Tra il dicembre del 1916 e l'aprile del 1917 ci furono oltre 450 agitazioni sindacali, 100mila lavoratori furono coinvolti, le denunce superarono le 2300, 4000 gli arresti per sovversione". In prima fila le donne, che nelle fabbriche avevano preso il posto dei mariti. 

"Il 16 luglio del '17  - racconta Bertolucci - ci fu uno degli episodi più violenti della guerra, l'ammutinamento della Brigata Catanzaro, che si concluse con la fucilazione di 28 soldati senza processo". 

Le punizioni
Le pene per chi disertava o si ribellava erano infatti durissime: carcere, fucilazione, internamento nei manicomi. Spesso senza alcun processo. "Il superiore - si legge in una circolare firmata da Cadorna - ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi". Il generale che mandò tanti giovani al massacro arrivò a parlare di "nemico interno" e utilizzo il dissenso per coprire le proprie responsabilità rispetto all'andamento disastroso del conflitto. Con il generale Diaz, dopo la rotta di Caporetto, si verifica un cambiamento: "Vennero date disposizioni e circolari perché ci fosse un trattamento più umano delle truppe, ma le denunce, le condanne e i processi continuarono fino alla fine della guerra e anche oltre. Soltanto con le amnistie del 1920-21 furono ridotte le condanne ai soldati che erano stati incercerati e che erano nel braccio della morte".



La visione del nemico
Abbiamo chiesto a Bertolucci se c'era la consapevolezza da parte dei soldati che le condizioni di stanchezza e la demoralizzazione  fossero comuni anche agli eserciti nemici: "Certamente. In campo storico sono stati verificati episodi noti di fraternizzazione tra le truppe avverse. Anche dall'altra parte combattevano contadini, proletari. Secondo alcuni storici, fu una guerra civile, scatenata dagli imperi dell'epoca per fini contrari". 



Ridare dignità a chi pagò con la vita il dissenso
Vittime anche loro, dunque, ma in Italia senza alcun riconoscimento: "Negli ultimi anni la Chiesa cattolica e molte personalità -  spiega l'editore - hanno chiesto di restituire dignità ai disertori passati per le armi, anche loro vittime di guerra". Ma in Italia non c'è alcuna disposizione su questo: "Nessun monumento li ricorda, a differenza di Paesi come la Francia dove la legge obbliga le amministrazioni locali ad inserire anche i nomi dei fucilati per renitenza nei monumenti".