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MONDO

L’export armato italiano ai regimi dell’ex URSS Intervista a Giorgio Beretta

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Franco Gussalli Beretta (a destra) col dittatore kazako Narzabayev- foto da http://bit.ly/1zHMYY3
di Pierluigi Mele
Il recente conflitto nell’Ucraina orientale, le sanzioni dell’Ue verso la Russia e le costanti tensioni nel Caucaso hanno riportato all’attenzione la situazione nei paesi della ex Unione Sovietica. Ai quali l’Italia, nel silenzio generale, sta esportando sempre più armi e sistemi militari. Ne parliamo con Giorgio Beretta, analista di OPAL (Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa) di Brescia, membro della Rete italiana per il disarmo e che da anni scrive su questi temi per il portale Unimondo.
 
 Facciamo innanzitutto una panoramica: quali sono gli Stati asiatici dell’ex URSS ai quali l’Italia esporta armi e sistemi militari? Quando sono cominciate queste esportazioni?
 Sono diversi i paesi asiatici dell’ex URSS ai quali l’Italia sta vendendo armamenti. Si è cominciato nel 2010 con il Turkmenistan verso il quale in pochi anni è stata autorizzata l’esportazione di un vero e proprio arsenale militare che nell’insieme ammonta a quasi 370 milioni di euro: dai fucili d’assalto e pistole semiautomatiche della Beretta, agli elicotteri militari dell’AgustaWestland, dalle mitragliere della Rheinmetall ai cannoni navali della Oto Melara al munizionamento pesante della M.E.S, dai droni Falco della SelexES ai missili Marte della MBDA Italia (si veda elenco completo in fondo all’articolo). Esportazioni autorizzate inizialmente dal governo Berlusconi che sono state incrementate dal governo Monti e sono proseguite durante il governo Letta e spesso senza darne adeguata comunicazione – come invece sarebbe dovuto per legge – al Parlamento: il Ministero degli Esteri in questi anni non sempre ha indicato nella Relazione governativa ufficiale i sistemi militari esportati in Turkmenistan.
      
Tra l’altro la settimana scorsa il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, si è recato proprio in Turkmenistan. Vi sono stati nuovi contratti di tipo militare?
 Ho chiesto personalmente ad alcuni giornalisti di interpellare il ministero degli Esteri, dello Sviluppo Economico, l’ICE (l’Agenzia governativa che ha il compito di promuovere i rapporti economici e commerciali italiani con l'estero – ndr) e Finmeccanica per sapere se qualcuna delle aziende militari del nostro paese era al seguito del premier Renzi: non mi risulta abbiano ricevuto risposta. A parte l’accordo siglato dall’Eni per la gestione e l’uso di idrocarburi in Turkmenistan, poco altro è trapelato dalle agenzie di stampa. Leggendo i vari resoconti ho trovato strano che nessun giornalista fosse al corrente che l’Italia non solo è uno dei principali partner commerciali ma anche il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari al Turkmenistan: a fronte degli oltre 350 milioni di euro di autorizzazioni rilasciate dall’Italia nell’ultimo quinquennio, i 22 milioni di euro di esportazioni dell’Austria e i 19 milioni di euro dei Paesi Bassi sono davvero poca cosa. E ho trovato alquanto curioso, per usare un eufemismo, che nessun giornalista abbia posto l’attenzione sulle violazioni delle libertà messe in atto dal regime del presidente turkmeno Berdimuhammedov: il “Democracy Index” dell’Economist Intelligence Unit annovera da diversi anni il Turkmenistan tra i regimi più autoritari del mondo - peggio di Iran, Myanmar e Zimbabwe tanto per capirci – e lo stesso Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, oltre alle organizzazioni umanitarie, denunciano da tempo le reiterate violazioni dei diritti umani che avvengono in quel paese.

 Torniamo alle esportazioni di armi italiane verso gli Stati dell’ex URSS. Quali sono gli altri paesi?
 Oltre al Turkmenistan, l’Italia ha iniziato ad esportare armi anche al Kazakistan: si tratta per il momento solo i fucili d’assalto ARX-160 della Beretta dotati di lanciagranate. Armi che il vicepresidente della Beretta, Franco Gussalli Beretta, ha presentato personalmente al presidente kazazo Nazarbayev, alla mostra internazionale di armi e attrezzature militari Kadex 2012. Un’azienda bresciana ha inoltre ottenuto da qualche zelante funzionario la licenza per esportare 1.950 pistole semiautomatiche per un valore di oltre 1 milione di euro in Bielorussia probabilmente destinate alle forze di polizia proprio pochi giorni prima che l’Unione Europea decretasse il 20 giugno del 2011 un embargo totale di armi a causa delle violazioni dei diritti umani e della repressione messa in atto dal regime del presidente Lukashenko. Molto più consistenti sono le autorizzazioni all’esportazione di sistemi militari verso la Russia: superano infatti i 100 milioni di euro e riguardano soprattutto veicoli blindati Lince della Iveco. Il paradosso è che questi blindati – che sono stati motivo di un lungo tira e molla tra Roma e Mosca – a causa del recente blocco delle forniture di armi dell’UE verso la Russia si era pensato di inviarli in Ucraina: il ministro della Difesa ha poi smentito, ma l’annuncio era stato fatto e la smentita è arrivata, non a caso, a seguito anche del comunicato di Rete Disarmo che chiedeva di rinunciare a queste forniture. Ma proprio con l’Ucraina, l’Italia ha un accordo di cooperazione tecnico-militare che interessa diverse aziende del gruppo Finmeccanica. Infine lo scorso anno sono iniziate le esportazioni di armi anche all’Azerbaijan: finora si tratta solo di radar avionici di sorveglianza marittima della Selex ES, ma è il primo passo per prossimi contratti.
 
Tutti questi paesi sono ricchi di materie prime, dal gas al petrolio, che per il sistema produttivo italiano sono necessari. Come conciliare questa esigenza con le restrizioni alla vendita di armi?
 In linea generale, se è vero che tutti i tipi di rapporti finanziari e commerciali in qualche modo sostengono un regime al governo in un paese – e il caso delle recenti sanzioni dell’Ue verso Russia nel settore finanziario ed energetico oltre a quello militare sta a dimostrarlo – è altrettanto vero che i rapporti commerciali tra paesi hanno generalmente anche un impatto positivo sul tenore di vita delle popolazioni: stabilire rapporti commerciali con un paese ricco di materie prime che ha l’esigenza di tecnologie sofisticate e di vendere i suoi prodotti è una pratica che risponde alla cosiddette “leggi del mercato” e non significa di per sé accettarne le limitazioni alle libertà democratiche. Diverso è invece il discorso sulle vendite di armi e sistemi militari: fornendo direttamente strumenti che possono essere usati da un regime per la repressione interna o per l’aggressione di altri paesi significa non solo avvallare le politiche di un regime, ma fornirlo degli strumenti mezzi per farlo. Non a caso la Posizione Comune dell’Ue del 2008 - come già in precedenza il Codice di Condotta del 1998 – riporta otto criteri restrittivi proprio per “impedire l’esportazione di tecnologie e attrezzature militari che possano essere utilizzate per la repressione interna o l’aggressione internazionale o contribuire all’instabilità regionale”.
 
Se ci sono queste limitazioni perché l’Italia e i paesi dell’Ue esportano armi ai quei regimi che prima ci ha elencato? Stanno violando qualche legge? E se è così, perché nessuno dice niente?
 Come ho detto il Consiglio dell’Unione europea ha adottato nel 2008 una Posizione comune (la 2008/944/PESC) che però non è una direttiva: mentre una direttiva europea ha il valore di una legge, la posizione comune è più di un mero impegno, ma non ha carattere vincolante e, soprattutto, non prevede sanzioni nel caso di violazione. Gli  Stati dell’Ue hanno in qualche modo recepito la Posizione Comune nelle proprie leggi, ma il margine di discrezionalità dei governi è ancora troppo ampio. La stessa legge italiana (la legge n. 185 del 1990 che è stata modificata nel 2012 anche per recepire la normativa Ue) prevede ad esempio che sia vietata la vendita di armi e sistemi militari a paesi “i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell'UE o del Consiglio d'Europa” (art. 1, c.6): ma raramente, se non vi erano  condanne o decisioni formali da parte dei suddetti organi, i governi italiani hanno vietato esportazioni di armi a regimi responsabili di violazioni dei diritti umani.
 
Non possiamo però nasconderci che le esportazioni di sistemi militari sono importanti anche per le nostre industrie, permettono ricerca e sviluppo, creano lavoro diretto e indiretto…
 E qui tocchiamo il vero paradosso. Innanzitutto va detto con chiarezza che non è lo scopo principale delle industrie militari quello di creare occupazione: un’industria di questo settore si giustifica solo per le esigenze della difesa, non certo per i ritorni occupazionali. I quali, tra l’altro – come dimostrano ormai diversi e autorevoli studi (qui una sintesi in italiano) – a parità di investimenti sono molto inferiori nell’industria militare rispetto al settore delle energie rinnovabili o a quello educativo, di cui tra l’altro l’Italia avrebbe particolare necessità. Non va inoltre dimenticato che proprio l’industria militare è tra quelle in cui si registrano i maggiori sprechi: sfido chiunque a indicarmi un solo progetto militare, non dico in Italia che è un caso patologico, che sia costato quanto era stato previsto. Ma il punto è un altro ed è quello più grave e spesso dimenticato: il compito della cosiddetta “industria della difesa”, nazionale ed europea, sarebbe quello di produrre strumenti per la nostra difesa e sicurezza. Da alcuni anni, invece, le politiche esportative di sistemi militari dei paesi dell’Ue stanno rispondendo sempre più a criteri e logiche di tipo economico ed industriale rispetto alle esigenze della sicurezza: alla tradizionale necessità di ridurre il divario nella bilancia dei pagamenti con i paesi produttori di petrolio, si è aggiunta l’urgenza per diversi paesi europei, tra cui l’Italia, di trovare nuovi acquirenti di sistemi militari per cercare di sostenere le proprie industrie del settore a fronte di una minor disponibilità di fondi per la Difesa. La crisi economica sta accentuando questa tendenza tanto che, come nota un recente documento dell’Ue, tutte le maggiori industrie militari con sede nei paesi europei oggi si focalizzano sui mercati d’esportazione e i ministeri della Difesa si stanno trasformando in espliciti promotori delle esportazioni di sistemi militari. Con gravi rischi, come si è visto nel caso della Libia e della Siria, per la nostra stessa difesa e sicurezza.
 
Un’ultima domanda: di fronte a questa situazione, realisticamente voi della Rete Disarmo cosa proponete?
 Credo che tre siano le priorità: innanzitutto che venga rafforzata la legislazione europea e le legislazioni nazionali in modo da impedire effettivamente che le armi vengano esportate a regimi autoritari, dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani, in zone di instabilità, ecc. A questo scopo andrebbe previsto un comitato europeo indipendente che predisponga una relazione dettagliata e vincolante da inviare agli organi nazionali che rilasciano le autorizzazioni all’esportazione. In secondo luogo è necessario che i parlamenti nazionali e il parlamento europeo esamino con attenzione le relazioni governative ed esprimano un parere sulle esportazioni di armamenti dei propri governi: l’Italia in questo è molto carente perché – come già dicevo in una precedente intervista – è da sei anni che la Relazione governativa sulle esportazioni di sistemi militari del nostro paese non viene esaminata nelle competenti commissioni della Camera e del Senato. Ma c’è un punto, a mio parere, ancora più importante e decisivo: è venuto il momento di ripensare a livello europeo il ruolo, la funzione e la stessa sostenibilità delle industrie militari nazionali. Oggi non esiste un’impostazione strategica comune, né tra i governi, né tra le aziende europee del settore della difesa. Se l'Europa vuole una solida industria della difesa, capace di garantire la nostra sicurezza, è necessario un cambiamento radicale di mentalità e di politiche. Non è più accettabile e men che meno sostenibile che le industrie nazionali dei paesi dell’Ue, incoraggiate dai rispettivi governi, continuino a competere tra loro per accaparrarsi nuovi acquirenti soprattutto nelle zone ricche di risorse energetiche e materie prime che, come sappiamo, sono anche le zone di maggior tensione del mondo. Solo una visione e una strategia comune europea può impedire che gli attuali approcci obsoleti contribuiscano ulteriormente alla dispersione di risorse e di fondi e può favorire la creazione equilibrata di posti di lavoro ed evitare il rischio di dispersione verso i paesi terzi dei ricercatori e dei quadri altamente specializzati. Anche nel campo della difesa c’è quindi bisogno non solo di più Europa, ma di una Europa lungimirante e soprattutto sostenibile.
  
Esportazioni di sistemi militari autorizzate dall’Italia per il Turkmenistan
 -  Due elicotteri AgustaWestland EH101 (circa 50,5 milioni di euro);
-  Cinque elicotteri AgustaWestland AW139 “per impiego militare” (64 milioni di euro);
-  1.680 fucili d’assalto Beretta ARX-160 con oltre 2 milioni di munizioni, 150 lanciagranate Beretta GLX-160, 120 pistole semiautomatiche Beretta PX4 Storm con dispositivi di soppressione del rumore (valore totale di quasi 3,9 milioni di euro);
-  Dodici mitragliere C/A da 25 mm. tipo KBA con accessori della Rheinmetall Italia (circa 2,4 milioni di euro);
-  Otto complessi del cannone binato navale compatto 40/70 compatti (28 milioni di euro);
-  10mila munizioni pesanti della M.E.S. tra cui 2.000 colpo completo cal. 40/70 HE-PFFC con spoletta di prossimità FB40; 2.000 colpo completo cal. 40/70 HE-PFF con spoletta di prossimità FB40; 2.000 colpo completo cal. 40/70 HEI-T con spoletta di percussione; 2.000 colpo completo cal. 40/70 TPT con finta spoletta e 4.000 colpo completo cal. 40/70 TP con finta spoletta (valore complessivo oltre 4,4 milioni di euro);
-  Tre droni teleguidati Falco XN (extra Nato) e assistenza tecnica della Selex Galileo, oggi Selex ES (valore 8,7 milioni di euro);
-  Parti di ricambio per 25 sistemi missilistici Marte della MBDA Italia (162 milioni di euro).