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CULTURA

L'insostenibile 'perturbante' della psicoanalisi. Parla il filosofo Franco Rella

Franco Rella commenta la ricerca sul declino della psicoanalisi negli Stati Uniti, ritenendola certamente credibile . «Freud - afferma il filosofo e saggista - ha costruito una teoria e una pratica – la psicoanalisi - e ha anche coniato il termine che può descriverla: das Unhemliche, il perturbante, lo “spaesante”. (...)  L’analisi non poteva e non può essere completamente garantita dalla possibilità o dal rischio di incontri inquietanti, in un percorso che si sa essere sempre molto lungo e molto tortuoso».

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di Cristina Bolzani

Intervista al filosofo Franco Rella 

Uno studio diffuso da New York Post sostiene che negli Stati Uniti i pazienti della psicoanalisi sono diminuiti.  Aldilà della ricerca, secondo lei è possibile che la fascinazione per il lettino freudiano stia finendo, sostituita da pratiche più avvicinabili come la filosofia , lo yoga e la meditazione?

Freud ha costruito una teoria e una pratica – la psicoanalisi - e ha anche coniato il termine che può descriverla: das Unhemliche, il perturbante, lo “spaesante”. La teoria analitica ha messo in luce quanto sia precaria la nostra identità legata ad un Io che si presenta già strutturalmente diviso e che parla, come ha detto Freud, “più di un dialetto”. La pratica analitica dal canto suo  è di fatto un viaggio nella profondità di se stessi, è un’attraversata dell’ombra, è un’odissea dello spirito e del corpo, in cui si possono lambire territori inesplorati abitati da emozioni e da figure e immagini che ci sono al tempo stesso incognite e famigliari. È per questo che via via si è attivata quella che già Elvio Fachinelli aveva definito la psicoanalisi della risposta, per esempio nella ego-psychology americana che, anziché attraversare i territori dell’Es, cercava non solo di “bonificarli” ma addirittura di cancellarsi dalla carta geografica. O, per esempio, la versione “semaforica” dell’analisi, in cui l’analista, forte dell’autorità derivatagli dall’affidamento dell’analizzato, gli imponeva i suoi permessi e i suoi divieti, sostanzialmente il suo sistema di valori. Comunque sia l’analisi, anche in queste versioni, non poteva e non può essere completamente garantita dalla possibilità o dal rischio di incontri inquietanti, in un percorso che si sa essere sempre molto lungo e molto tortuoso. Per questo è certamente credibile lo studio del New York Post che parla di una drastica riduzione di chi ricorre alla terapia psicoanalitica.

Yoga, meditazione, ansiolitici a antidepressivi, sembrano essere più avvicinabili. Tra queste pratiche sostitutive si è prepotentemente inserita anche la filosofia.  La psicoanalisi è stata sempre comunque una pratica elitaria, lo è tanto più il counseling filosofico.

Al contrario la filosofia è molto  cercata per trovare sollievo al  ‘male di vivere’. E’ un segnale positivo secondo lei? Come si può leggere?

Il male di vivere. Un poeta immenso, Eugenio Montale ha scritto:
Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Credo che la filosofia sia nata proprio per interrogarsi sul rapporto di ciò che si accartoccia, gorgoglia strozzato e stramazza, e la divina indifferenza: il falco alto levato. Tra il dolore, il patimento e il male - il male di vivere e il male assoluto - e il mistero di un destino a cui pare non si possa fuggire e da cui non sembra non possano venire risposte.

Nel counseling filosofico è tutt’altra cosa. Pierre Hadot aveva parlato della filosofia antica come pratica spirituale, sorta in quella che è stata definita “l’età dell’ansia”, vale a dire nel periodo di incertezza dell’età alessandrina e postalessandrina. Più recentemente Peter Sloterdijk in un libro appunto intitolato Devi cambiare la tua vita ha dato della filosofia una versione da training ginnico-spirituale.

In sostanza il counseling filosofico propone una serie di esercizi, come quelli messi in campo da Ignazio di Loyola che invitavano, come dice perfino Wikipedia, a cambiare, mutare, rinnovarsi per ritrovare, superati gli ostacoli che incontriamo nella vita, la pace e la certezza di Dio.

Il counseling non cerca Dio (o non sempre) ma certamente la pace e la certezza. In questo, a mio giudizio, tradisce ciò che la filosofia è o dovrebbe essere. Vale a dire, da Platone in poi, una ricerca inesausta del sapere: sapere il mondo, sapere il soggetto, sapere sé e gli altri…

Siamo in un’epoca di grandi rimozioni collettive:  soprattutto, della vecchiaia. L’evoluzione per molti aspetti positiva della chirurgia estetica, per altri ci porta in una deriva (approdo?) in passato inimmaginabile, la ri-scrittura del corpo che ci è dato. Cosa pensa di questo fenomeno e dei suoi effetti sulla nostra capacità di pensare noi stessi?

La vecchiaia è paradossalmente ciò che è più prossimo alla condizione umana, che sconta quella fragilità che è propria ad ogni creatura. I Greci nella loro immensa sapienza chiamavano gli umani “i mortali”, coloro che portano con sé la propria morte. I vecchi portano con sé, come ogni creatura, la propria morte: la portano insieme al carico della vita che hanno vissuto.

È sopportabile oggi questo memento della creaturalità umana? Non ho preclusioni sulla chirurgia estetica, o sull’ansia che porta dal chirurgo estetico, anche se questo talvolta porta a trasformazioni grottesche, come – in Morte a Venezia di Thomas Mann - il maquillage sfatto di Aschenbach morente sulla in riva del mare, con l’immagine dell’amato Tadzio che si faceva sempre più remota e incerta.

Ma quella chirurgica è una soluzione, per quanto diffusa, elitaria (come il counseling) rispetto al tentativo di rimozione collettiva della vecchiaia. Una volta, come dice la Bibbia, il vecchio moriva “sazio di vita” con intorno famigliari e amici. Oggi la vecchiaia è etimologicamente oscena, vale a dire che viene posta fuori scena. Però non tutti i vecchi sono vecchi. Uomini cari­chi di anni sono anche carichi del potere delle armi, del denaro, della medicina che li sostiene o della cura che sempre si accompagna all’aura del po­tere. Finché questo potere li sostiene rimangono in scena.

Comunque l’incapacità di pensare la vecchiaia e di pensare la morte, è incapacità di pensare se stessi. Di relazionarsi con la propria umanità.

Nel suo saggio Ai confini del corpo lei costruisce una narrazione che va oltre l’esperienza corporea attraverso la letteratura, l’arte, e tra i tanti frammenti citati importanti colgo la grande ammirazione per l’opera di Marcel Proust. Cosa può ancora insegnarci, oggi, la sua Ricerca?

“Il corpo è il fenomeno più ricco”, ha scritto Nietzsche. È anche il fenomeno più misterioso. Dove comincia e dove finisce il corpo? Proust è, da questo punto di vista, un grande maestro. La Ricerca del tempo perduto inizia con l’esperienza straniante in cui, sull’orlo del sonno e della veglia, il nostro corpo si esprime, e genera immagini e figure. In questo istante le cose si moltiplicano in un tumultuoso accavallarsi di spazi, di emozioni, di cose e di immagini. La Ricerca del tempo perduto è veramente un’odissea analitica in cui la concentrazione così complessa da essere intransitabile del risveglio viene via via progressivamente esplorata fino all’ultimo passo, a ciò che ha luogo durante il ricevimento dei Guermantes con cui si chiude il Tempo ritrovato. È la scoperta che abbiamo un compito che ci porta oltre la morte, ma avendola in qualche modo fatta entrare dentro di noi. “La morte entrò in me come fa un amore”, scrive Proust segnando si sé così ogni nostra esperienza.

Proust è insieme a Kafka il vertice del sapere del XX secolo. La sua una voce che è entrata anche nella nostra modernità, che si vorrebbe post, ma che si trova ancora faccia a faccia con i problemi che Kafka e Proust certamente non hanno risolto, ma che ci hanno insegnato a riconoscere come i nostri problemi.

Sempre dal suo libro prendo una citazione del prologo , Freud dice: “La sola interpretazione sicura è dunque l’incompletezza”. Siamo ancora capaci di reggerla, questa incompletezza?

Siamo così poco in grado di reggere questa straordinaria affermazione, che si è inventato per proteggersene il cosiddetto realismo filosofico, vale a dire una filosofia della certezza. Nel manifesto  di questa filosofia si afferma testualmente che “un ciabatta è una ciabatta”. Sulla ciabatta naufraga ogni dubbio e ogni ermeneutica. Ma al di là di questo episodio, pochi sono i filosofi, ma anche gli artisti che oggi si interrogano sul “male di vivere”. L’olocausto aveva generato forme e pensieri che si sono riflessi nelle opere di Pollock o di Klein o di Fontana. L’orrore di oggi, gli economicidi, gli etnocidi, i massacri e le spaventose migrazioni di cui siamo testimoni, sembrano scivolare di lato alle immagini dominanti. Forse l’ansia di completezza e di certezza, la voglia di suturare la ferita implicita nell’affermazione freudiana, ci consegna ad una sorta di sordità. Ad una sorta di ottundimento. A qualcosa che tecnicamente potrebbe essere definita stupidità e, come ha detto Flaubert, la stupidità è il male, è il male assoluto.