ITALIA
La “mia” Repubblica tradita. Intervista a Giovanni Valentini
Giovanni Valentini, storico Direttore dell’ Espresso ed ex vice direttore di Repubblica, ha appena pubblicato per “Paper First” (la casa editrice del Fatto Quotidiano) un libro sulla mega fusione editoriale tra due grandi quotidiani italiani: Repubblica e La Stampa.
Già dal titolo, La Repubblica tradita, si intende che il libro è una testimonianza personale e inedita degli avvenimenti che hanno portato alla fusione di questi giornali. Una mega-concentrazione che Valentini giudica una minaccia per il pluralismo dell’informazione del nostro Paese.
In questa intervista approfondiamo le ragioni che l’hanno spinto a scrivere il libro.

Il tuo libro, davvero interessante e al tempo stesso inquietante, apre uno squarcio sul velo di ipocrisia che riguarda il più prestigioso quotidiano italiano: la Repubblica. Il titolo non lascia dubbio alcuno la Repubblica tradita. Diversi sono stati i protagonisti di questo tradimento, ne parleremo più avanti. Adesso fissiamo un punto. Perché scrivi che l'attuale Repubblica tradisce il progetto originale e i suoi valori? Dove si compie il tradimento? Sui valori di sinistra riformista?
Parlo di “tradimento”, all’indomani della mega-fusione con La Stampa e con Il Secolo XIX, perché quarant’anni fa Repubblica è stata fondata da un “editore puro”, come allora usava dire: nacque infatti dal matrimonio fra il gruppo L’Espresso e la Mondadori. Un soggetto cioè che non aveva altri interessi, estranei all’attività editoriale. A 27 anni, lasciai Il Giorno di Milano, che era il terzo quotidiano italiano ed era di proprietà dell’Eni, per andare a lavorare con Eugenio Scalfari. Ora la maxi-concentrazione di “Stampubblica” trasforma quel giornale in uno strumento di potere, in mano a un gruppo economico-finanziario, costituito da De Benedetti e dalla Fiat. Non è Repubblica che tradisce il progetto originario, è il nuovo soggetto editoriale che tradisce il progetto originario del giornale.
Repubblica nasce nel 1976. Siamo nel periodo tra i più difficili della storia repubblicana. Il fatto di chiamare un quotidiano "Repubblica" è già una scelta di campo. Eugenio Scalfari, anche recentemente, ne ha descritto la carta d'identità: siamo liberaldemocratici. Ti chiedo quale è stato il contributo maggiore dato dal quotidiano alla storia civile italiana?
Direi, per riassumere, il contributo alla modernizzazione del Paese: sul piano politico, innanzitutto, ma anche civile e culturale. Scalfari ha sempre usato la definizione di “liberali di sinistra”. Non mi risulta che la Fiat o gli Agnelli possano essere considerati tali. Né tantomeno Marchionne e John Elkann.
Nel tuo libro analizzi, sulla base della tua esperienza davvero straordinaria all'interno del gruppo "Espresso-Repubblica, le varie fasi del quotidiano. Parliamo, quindi, degli ultimi vent'anni. Che coincidono praticamente con la direzione di Ezio Mauro e con la gestione padronale di De Benedetti. Il "tradimento" incomincia con la direzione di Mauro. Francamente una cosa difficile da comprendere.... Se penso alle battaglie di Repubblica contro il berlusconismo imperante. Perché Mauro è diverso, qual è il suo "peccato" d'origine?
No, il “tradimento” non comincia con l’arrivo di Ezio Mauro alla direzione: quello, semmai, fu un primo “strappo”, una discontinuità accettata e condivisa da Caracciolo e da Scalfari. Carlo, finché ha vissuto, ne è stato il garante editoriale; Eugenio ne è stato il garante politico, la guida e il tutore. Se vogliamo parlare di “peccato originale”, quello di Ezio era la provenienza dalla direzione del giornale targato Fiat: basti pensare alla politica economica e sindacale, a quella dei trasporti o dell’ambiente, per farsene un’idea. Quanto all’anti-berlusconismo, per me è cominciato a metà degli anni Ottanta, quando andai a dirigere L’Espresso e lanciai una campagna contro la concentrazione televisiva e pubblicitaria di Berlusconi che consideravo una minaccia per il pluralismo e la libertà d’informazione. Poi, è diventato un orientamento politico, ideologico e antropologico. Ma è stato anche un alibi per non vedere, o fingere di non vedere, i ritardi e le responsabilità della sinistra.
Veniamo alla vera "anima nera" del tradimento, Carlo De Benedetti. Su sul suo conto usi parole dure, ne denunci il conflitto d'interessi su molteplici piani. Alla fine ne esce un quadro disperante sul personaggio: viene spontaneo domandarti qual è la differenza, se mai esiste, tra lui e Berlusconi?
Non confondiamo i personaggi e le rispettive estrazioni. La differenza sostanziale è che Berlusconi era un imprenditore, un concessionario pubblico ed è diventato un uomo politico, con un macroscopico conflitto d’interessi; mentre De Benedetti è sempre stato un finanziere, un uomo d’affari, ma non ha mai avuto cariche pubbliche. Fino a quando Caracciolo e Scalfari hanno garantito l’autonomia del gruppo e dei giornali, erano loro che incarnavano la figura dell’editore. Ma ora, con la complicità della crisi, gli interessi economici purtroppo hanno preso il sopravvento.
E veniamo all'ultima fase quella della fusione con la Stampa di Torino, ironicamente definita da te "Stampubblica", cui emblema diventa Mario Calabresi (il gigante nano). Eppure Calabresi nasce, giornalisticamente parlando, a Repubblica. Sul piano dello spessore, Calabresi sicuramente è inferiore a Ezio Mauro. Però, consentimi, Repubblica ha ancora fior di giornalisti (vedi Giannini) che reggono la deriva "minimalista" di Calabresi. Perché definisci la fusione con La Stampa un pericolo per la democrazia? E perché Scalfari continua a scrivere?
Calabresi, professionalmente parlando, non nasce a Repubblica ma all’Ansa. E con tutto il rispetto per il giornalismo d’agenzia, c’è una bella differenza con quello d’opinione e d’intervento. Lui è il testimonial di questa mega-concentrazione. Non sono stato io a definirlo “un gigante nano”, bensì la perfidia dei suoi redattori, in contrapposizione al “nano gigante” Ezio Mauro. Dico che la maxi-fusione è un pericolo per la democrazia perché è destinata fatalmente a ridurre il pluralismo e la concorrenza, oltre che gli organici dei giornali interessati. Anche per questo mi auguro che Scalfari continui a scrivere su Repubblica fino a quando ne avrà la forza e la voglia.
Ultima domanda: Sei pessimista sulla stampa italiana?
Qui bisognerebbe fare un discorso molto lungo sulla crisi dei giornali e della pubblicità, sull’avvento della televisione e di Internet, sul “giornalismo diffuso” alimentato dai social network. Non c’è dubbio che l’unica prospettiva per il futuro può essere quella della “multimedialità”, cioè dell’integrazione fra i vari mezzi e i vari codici della comunicazione. Ma, a parte Cairo e lo stesso Berlusconi, non vedo in Italia molti editori che abbiano le capacità e le possibilità di proseguire su questa strada. Mi conforta, però, registrare che – nonostante tutto – testate d’opinione come Il Fatto Quotidiano, Libero, Il Foglio o La Verità, riescano a trovare uno spazio per sopravvivere e magari per crescere. Nel campo editoriale, c’è sempre tempo per la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione.
Parlo di “tradimento”, all’indomani della mega-fusione con La Stampa e con Il Secolo XIX, perché quarant’anni fa Repubblica è stata fondata da un “editore puro”, come allora usava dire: nacque infatti dal matrimonio fra il gruppo L’Espresso e la Mondadori. Un soggetto cioè che non aveva altri interessi, estranei all’attività editoriale. A 27 anni, lasciai Il Giorno di Milano, che era il terzo quotidiano italiano ed era di proprietà dell’Eni, per andare a lavorare con Eugenio Scalfari. Ora la maxi-concentrazione di “Stampubblica” trasforma quel giornale in uno strumento di potere, in mano a un gruppo economico-finanziario, costituito da De Benedetti e dalla Fiat. Non è Repubblica che tradisce il progetto originario, è il nuovo soggetto editoriale che tradisce il progetto originario del giornale.
Repubblica nasce nel 1976. Siamo nel periodo tra i più difficili della storia repubblicana. Il fatto di chiamare un quotidiano "Repubblica" è già una scelta di campo. Eugenio Scalfari, anche recentemente, ne ha descritto la carta d'identità: siamo liberaldemocratici. Ti chiedo quale è stato il contributo maggiore dato dal quotidiano alla storia civile italiana?
Direi, per riassumere, il contributo alla modernizzazione del Paese: sul piano politico, innanzitutto, ma anche civile e culturale. Scalfari ha sempre usato la definizione di “liberali di sinistra”. Non mi risulta che la Fiat o gli Agnelli possano essere considerati tali. Né tantomeno Marchionne e John Elkann.
Nel tuo libro analizzi, sulla base della tua esperienza davvero straordinaria all'interno del gruppo "Espresso-Repubblica, le varie fasi del quotidiano. Parliamo, quindi, degli ultimi vent'anni. Che coincidono praticamente con la direzione di Ezio Mauro e con la gestione padronale di De Benedetti. Il "tradimento" incomincia con la direzione di Mauro. Francamente una cosa difficile da comprendere.... Se penso alle battaglie di Repubblica contro il berlusconismo imperante. Perché Mauro è diverso, qual è il suo "peccato" d'origine?
No, il “tradimento” non comincia con l’arrivo di Ezio Mauro alla direzione: quello, semmai, fu un primo “strappo”, una discontinuità accettata e condivisa da Caracciolo e da Scalfari. Carlo, finché ha vissuto, ne è stato il garante editoriale; Eugenio ne è stato il garante politico, la guida e il tutore. Se vogliamo parlare di “peccato originale”, quello di Ezio era la provenienza dalla direzione del giornale targato Fiat: basti pensare alla politica economica e sindacale, a quella dei trasporti o dell’ambiente, per farsene un’idea. Quanto all’anti-berlusconismo, per me è cominciato a metà degli anni Ottanta, quando andai a dirigere L’Espresso e lanciai una campagna contro la concentrazione televisiva e pubblicitaria di Berlusconi che consideravo una minaccia per il pluralismo e la libertà d’informazione. Poi, è diventato un orientamento politico, ideologico e antropologico. Ma è stato anche un alibi per non vedere, o fingere di non vedere, i ritardi e le responsabilità della sinistra.
Veniamo alla vera "anima nera" del tradimento, Carlo De Benedetti. Su sul suo conto usi parole dure, ne denunci il conflitto d'interessi su molteplici piani. Alla fine ne esce un quadro disperante sul personaggio: viene spontaneo domandarti qual è la differenza, se mai esiste, tra lui e Berlusconi?
Non confondiamo i personaggi e le rispettive estrazioni. La differenza sostanziale è che Berlusconi era un imprenditore, un concessionario pubblico ed è diventato un uomo politico, con un macroscopico conflitto d’interessi; mentre De Benedetti è sempre stato un finanziere, un uomo d’affari, ma non ha mai avuto cariche pubbliche. Fino a quando Caracciolo e Scalfari hanno garantito l’autonomia del gruppo e dei giornali, erano loro che incarnavano la figura dell’editore. Ma ora, con la complicità della crisi, gli interessi economici purtroppo hanno preso il sopravvento.
E veniamo all'ultima fase quella della fusione con la Stampa di Torino, ironicamente definita da te "Stampubblica", cui emblema diventa Mario Calabresi (il gigante nano). Eppure Calabresi nasce, giornalisticamente parlando, a Repubblica. Sul piano dello spessore, Calabresi sicuramente è inferiore a Ezio Mauro. Però, consentimi, Repubblica ha ancora fior di giornalisti (vedi Giannini) che reggono la deriva "minimalista" di Calabresi. Perché definisci la fusione con La Stampa un pericolo per la democrazia? E perché Scalfari continua a scrivere?
Calabresi, professionalmente parlando, non nasce a Repubblica ma all’Ansa. E con tutto il rispetto per il giornalismo d’agenzia, c’è una bella differenza con quello d’opinione e d’intervento. Lui è il testimonial di questa mega-concentrazione. Non sono stato io a definirlo “un gigante nano”, bensì la perfidia dei suoi redattori, in contrapposizione al “nano gigante” Ezio Mauro. Dico che la maxi-fusione è un pericolo per la democrazia perché è destinata fatalmente a ridurre il pluralismo e la concorrenza, oltre che gli organici dei giornali interessati. Anche per questo mi auguro che Scalfari continui a scrivere su Repubblica fino a quando ne avrà la forza e la voglia.
Ultima domanda: Sei pessimista sulla stampa italiana?
Qui bisognerebbe fare un discorso molto lungo sulla crisi dei giornali e della pubblicità, sull’avvento della televisione e di Internet, sul “giornalismo diffuso” alimentato dai social network. Non c’è dubbio che l’unica prospettiva per il futuro può essere quella della “multimedialità”, cioè dell’integrazione fra i vari mezzi e i vari codici della comunicazione. Ma, a parte Cairo e lo stesso Berlusconi, non vedo in Italia molti editori che abbiano le capacità e le possibilità di proseguire su questa strada. Mi conforta, però, registrare che – nonostante tutto – testate d’opinione come Il Fatto Quotidiano, Libero, Il Foglio o La Verità, riescano a trovare uno spazio per sopravvivere e magari per crescere. Nel campo editoriale, c’è sempre tempo per la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione.