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MONDO

La crisi

Libia, dopo l'assedio a Tripoli si apre fase nuova

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di Leonardo Sgura
Questa mattina le forze di Al Serraji stanno entrando a Tarhouna e Al Dawoun, le ultime due roccaforti di Haftar in Tripolitania. “Il nemico è in fuga”, scrive il colonnello Muhammad Qanunu, portavoce dell’esercito libico, sulla pagina social dell’operazione Vulcano di Rabbia: “L’intero confine amministrativo della città di Tripoli - aggiunge - è ora sotto il nostro controllo insieme alle città di Ain Zara e Wadi al Rabi”.

Sul fronte opposto, il portavoce del Libyan National Army, Al Mismari, conferma che l’esercito di Haftar ha lasciato la capitale, ma solo per onorare la riapertura delle trattative di pace, annunciate martedì da Unsmil, la missione Onu in Libia.  

Ma il presidente del Governo di Accordo Nazionale, Fayez Al Serraji, sembra allontanare ogni ipotesi di mediazione: inneggia alla liberazione della capitale e prevede la totale disfatta del nemico, annunciando che il suo esercito intende riprendersi l’intero paese. Parole pronunciate dopo aver incontrato ieri l’alleato Erdogan, ai cui droni, oltre che alle migliaia di miliziani jihadisti spostati dal fronte siriano, Tripoli in questo momento deve praticamente tutto.

In risposta, Khalifa Haftar è volato al Cairo per chiedere aiuto all’alleato Egitto e denunciare l’invasione “ottomana” della Libia. Sono i turchi e non i libici, dice Haftar, a combattere contro di noi. Nessun negoziato se l’invasore non si ritirerà.

Certo è che l’assedio a Tripoli, dopo più di un anno, è concluso. Si apre una fase nuova, ma difficile da decifrare.

I segnali che arrivano dai due contendenti  sembrano allontanare le speranze di ricucire il confronto avviato a Berlino, riaccese martedì con l’annuncio del via libera alla riapertura del tavolo militare, uno dei tre (gli altri affrontano questioni economiche e politico-amministrative) incaricati di preparare gli accordi di pace. Del resto, uno dei principali ostacoli alla trattativa, finora, è stata proprio la situazione di forza sul terreno: Haftar controlla gran parte del paese, inclusi i principali giacimenti petroliferi, e Tripoli ha sempre detto di essere disposta a trattare solo dopo aver riottenuto il territorio “indebitamente” invaso dall’esercito della Cirenaica.

Allora perché, pochi giorni fa, è stato dato l’ok alla riapertura delle trattative? E’ stata solo una mossa tattica, presa sotto le fortissime pressioni diplomatiche internazionali?

Di certo qualcosa è cambiato nel giro di poche ore, forse per le spinte di alleati che in questo momento non vogliono la pace e che hanno costretto Haftar e Al Serraji a invertire nuovamente, e pubblicamente, la rotta.

Il Cairo continua a ribadire che non permetterà in alcun modo che il confine libico diventi una minaccia e condanna le interferenze turche in Libia, pretendendo il rispetto dell’embargo contro le forniture di armi. L’Egitto non vuole un accordo che riconosca il protettorato turco sulla Tripolitania. Posizione condivisa da Arabia Saudita ed Emirati Arabi, anch’essi schierati per l’uscita di Ankara dal conflitto. Mentre la Russia, altro alleato di Haftar, torna a chiedere di fermare le ostilità e avviare un dialogo globale con la partecipazione delle più importanti forze politiche e sociali libiche.

Invece la Turchia non ha alcun interesse a una composizione diplomatica della crisi, perché un accordo di pace costringerebbe Erdogan a rinunciare ai piani di espansione sulle risorse petrolifere libiche, per ora ancora paralizzate e sotto il controllo di Haftar, e soprattutto sugli immensi giacimenti di gas individuati al largo di Cipro, in uno specchio di mare che Erdogan e Al Serraji, con gli accordi dello scorso autunno, hanno arbitrariamente sottratto alla sovranità greco-cipriota per assegnarlo a Tripoli, in violazione del diritto internazionale.