ECONOMIA
Norma già presente nel Jobs act
Licenziamenti, la Consulta boccia una norma del Decreto dignità
La Corte: incostituzionale l'indennità risarcitoria ancorata all'anzianità

La Corte costituzionale boccia una norma del Decreto dignità. Si tratta del criterio di determinazione dell'indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato ancorato solo all'anzianità di servizio, che era già previsto dal decreto legislativo 23 del 2015 e che è stato confermato dal decreto del governo in carica. Criterio che è stato dichiarato incostituzionale.
Secondo la Consulta, il meccanismo di quantificazione - un "importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio" - rende infatti l'indennità "rigida" e "uniforme" per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione "forfetizzata e standardizzata" del danno derivante al lavoratore dall'ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Pertanto, il giudice, nell'esercitare la propria discrezionalità nel rispetto dei limiti, minimo (4, ora 6 mensilità) e massimo (24, ora 36 mensilità), dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità, dovrà tener conto non solo dell'anzianità di servizio - criterio che ispira il disegno riformatore del 2015 - ma anche degli altri criteri "desumibili in chiave sistematica dall'evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti)".
Con la sentenza n. 194 depositata oggi (relatrice Silvana Sciarra) in particolare la Corte ha dichiarato incostituzionale l'articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 - che in attuazione della legge delega n. 183/2014 (cosiddetto Jobs Act) ha disciplinato il "contratto a tutele crescenti" - sia nel testo originario sia in quello modificato dal decreto dignità, che si è limitato a innalzare la misura minima e massima dell'indennità.
Secondo la Consulta, il meccanismo di quantificazione - un "importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio" - rende infatti l'indennità "rigida" e "uniforme" per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione "forfetizzata e standardizzata" del danno derivante al lavoratore dall'ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Pertanto, il giudice, nell'esercitare la propria discrezionalità nel rispetto dei limiti, minimo (4, ora 6 mensilità) e massimo (24, ora 36 mensilità), dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità, dovrà tener conto non solo dell'anzianità di servizio - criterio che ispira il disegno riformatore del 2015 - ma anche degli altri criteri "desumibili in chiave sistematica dall'evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti)".
Con la sentenza n. 194 depositata oggi (relatrice Silvana Sciarra) in particolare la Corte ha dichiarato incostituzionale l'articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 - che in attuazione della legge delega n. 183/2014 (cosiddetto Jobs Act) ha disciplinato il "contratto a tutele crescenti" - sia nel testo originario sia in quello modificato dal decreto dignità, che si è limitato a innalzare la misura minima e massima dell'indennità.