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ITALIA

A dieci anni dalla scomparsa emergono nuovi elementi

La morte di Pantani forse fu un omicidio e non un'overdose: la Procura di Rimini riapre il caso

La riapertura dell'inchiesta grazie all'ostinazione della mamma del Pirata che mai ha creduto alla tesi dell'overdose. Una perizia medica voluta dalla famiglia e i troppi elementi mai considerati con la giusta attenzione convincono i pm ad avviare un'indagine bis

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Omicidio volontario. Con questa ipotesi di reato la procura di Rimini ha deciso, a dieci anni dalla morte di Marco Pantani, di riaprire l’inchiesta sulla scomparsa del “Pirata”. Una decisione figlia dell’ostinazione di Tonina Pantani, la mamma del ciclista, e che trova le sue radici nelle indagini difensive di cui questa ha incaricato, quasi un anno fa, l’avvocato Antonio De Rensis. “Sono certa che mio figlio sia stato ucciso”, ha sempre ripetuto la donna, ma le sue dichiarazioni sono state viste a lungo come semplici sfoghi. Il fascicolo è ora affidato al pm Elisa Milocco, coperto dal segreto più assoluto.




 
Che più di qualcosa non fosse andato come avevano ricostruito polizia e procura nelle indagini ufficiali, lo si è sempre detto e, soprattutto, scritto. Libri, interviste e inchieste giornalistiche, nel tempo, hanno messo in fila circostanze, fatti e dettagli in contraddizione tra di loro, se non letteralmente privi di senso, almeno se letti nell'ottica della tesi sin qui riitenuta la verità, e cioè quella dell'overdose. Ed è proprio da quei dettagli che le indagini difensive sono ripartite per arrivare poi, dopo mesi di lavoro, sentiti i testimoni e interpellati i professionisti, a una conclusione ritenuta “oggettivamente molto più plausibile” di quella sino ad oggi ufficiale. Quella, appunto, che la procura ha qualificato nell’ipotesi di omicidio.

"Me l'hanno ammazzato. La mia sensazione, sin da subito, è che avesse scoperto qualcosa e gli abbiano tappato la bocca" dichiara la mamma del ciclista. "Sono 10 anni che lotto e non mollerò, fino alla fine. Voglio la verità, voglio sapere cosa è successo a mio figlio".

L'ipotesi di omicidio è ben lontana da quella che è stata la tesi da sempre accreditata come verità, e cioè che Pantani fosse morto per un’overdose accidentale. Il cuore del lavoro dell’avvocato della mamma del Pirata, l’elemento che ha persuaso definitivamente il procuratore Giovagnoli a partire con la nuova inchiesta, è la perizia medico legale eseguita per conto della famiglia Pantani dal professor Francesco Maria Avato, che alla fine del proprio lavoro conclude: “Le ferite sul corpo di Marco Pantani non sono auto procurate, ma opera di terzi”. Oltre a questo però, molti gli elementi che fanno scricchiolare quella che ormai è l’ipotesi dell’overdose. Elementi probabilmente frettolosamente trascurati nel 2004, all’epoca dei fatti.
 
E tra questi, tra gli elementi che mai hanno del tutto convinto chi della morte di Pantani si è occupato, le ferite sul corpo del Pirata compatibili con un pestaggio, i segni di un trascinamento del corpo, i suoi farmaci, una quantità folle di droga in corpo (sei volte la dose letale, di cui una gran quantità rimasta in bocca, fatto che fa ipotizzare la possibilità di un'ingestione forzata), una bottiglietta d’acqua sospetta, la colazione ancora nello stomaco. E tutto intorno un caos fin troppo ordinato: elementi su cui si sofferma la perizia scientifica firmata da Avato, e che contribuiscono a smontare la tesi di un’overdose accidentale accettata fino a oggi.
 
Cosa successe davvero in quei 27 metri quadrati della stanza D5 della pensione Le Rose di Rimini? “Nessuno è entrato e nessuno è uscito dalla stanza”, stabilì da subito l’indagine: l’elemento centrale nella tesi che esclude l’intervento di terzi nella morte del Pirata. Una ricostruzione che si scontra però con la logica delle cose. È un elemento scientifico a dirlo: i resti nello stomaco di Pantani di un pasto modesto, solo in parte digerito, che doveva aver mangiato a ridosso della morte, collocata tra le 11.30 e le 12.30. La sua colazione, insomma: peccato non l’avesse ordinata. E poi, i resti di un cornetto Algida, che per conservarsi avrebbe avuto bisogno di un freezer, di cui la stanza era sprovvista. E ancora i resti di cibo cinese nel cestino che sempre Pantani non aveva ordinato e le telefonate del ciclista in cui Pantani diceva di essere minacciato, archiviate come delirio da droga ma che forse tali non erano.
 
Nella stanza poi furono ritrovati tre giacconi, di cui uno da sci. Giacconi che - assicurano quattro testimoni - Pantani non aveva quando arrivò a Rimini. Come finirono nella stanza? La risposta forse in una delle tante ovvietà mai prese in considerazione dalle indagini: al residence si accedeva non solo dall’ingresso principale, ma anche attraverso un garage, chiunque poteva entrare e salire fino alle stanze senza essere visto, nemmeno una telecamera a sorvegliare.
 
Elementi trascurati ed indagini forse frettolose tanto che l’inchiesta fu chiusa a tempo di record, in appena 55 giorni. Forse con troppa fretta però, tanto è vero che nella stanza teatro della morte di Pantani nessuno si prese la briga nemmeno di prendere le impronte digitali o di chiamare i Ris di Parma, a meno di due ore di strada da Rimini.
 
Già al tempo del conferimento dell’incarico, l’avvocato De Rensis aveva anticipato i contenuti delle sue scoperte: “Vedendo i video girati durante le indagini si capisce subito che si è indagato in un’unica direzione, sin dall’inizio, e che sono stati considerati solo gli elementi che corroboravano la tesi dell’overdose e trascurati gli altri”. Oggi emerge una serie incredibile di errori: le indagini lampo, l’autopsia sbagliata, i rilievi male eseguiti, e poi ingenuità e illogicità ovunque.