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MONDO

L'intervista

Prigioniera in Russia, poi di nuovo in mare: in esclusiva il racconto di Anne, attivista Greenpeace

La giovane danese è stata arrestata in Russia con l’accusa prima di pirateria poi di teppismo. Era a bordo dell'Arctic Sunrise per protestare contro le trivellazioni della Gazprom nell'Artico

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Anne Mie Roer Jensen, Greenpeace
di Silvia Balducci
È tornata nella sua casa a Copenaghen lo scorso dicembre, dopo due mesi di prigionia in Russia, ed oggi è di nuovo in mare con Greenpeace. L’incursione delle forze russe a bordo dell’Arctic Sunrise e poi il carcere non hanno spento l’entusiasmo di questa ventisettenne danese dallo spirito intraprendente. Dalla voce con cui Anne Mie Roer Jensen si racconta, però, trapelano anche le paure legate a quei ricordi.

Anne Jensen è stata arrestata con l’accusa prima di pirateria poi di teppismo insieme agli altri 29 attivisti a bordo della rompighiaccio lo scorso 18 settembre. Tra loro anche l’italiano Cristian D’Alessandro. Gli ambientalisti stavano protestando contro l’installazione della prima piattaforma petrolifera in Artico, la Prirazlomnaya di proprietà di Gazprom. Una storia che ha suscitato anche l’interesse di undici premi Nobel, che hanno scritto a Putin affinché rilasciasse gli attivisti.

“Volevamo denunciare i troppi rischi legati al progetto di Gazprom, per evitare un nuovo disastro come quello avvenuto nel Golfo del Messico con l’esplosione della piattaforma Horizon Deepwater. Ancor prima che la piattaforma entrasse in azione, infatti, c’erano già stati rinvii a causa di problemi tecnici. La potenza del ghiaccio aveva spostato la struttura fissata in fondo al mare. Se i tubi per l’estrazione fossero stati già installati sarebbe successo un disastro, in un’area protetta e ricca di specie rare”.

Un blitz durato cinque giorni. Gli attivisti si sono appesi alla Prirazlomnaya per quindici ore, sospesi sotto le gelide sferzate degli idranti. Poi cosa è successo, come è avvenuto l’abbordaggio? “Ci hanno prima intimato di interrompere le nostre attività, poi dopo aver cercato di abbordare la nave per 24 ore, una squadra antiterrorismo russa si è calata da un elicottero. Hanno preso il controllo della nave e spento i motori. Ci hanno radunati in un area comune e ci hanno tolto i dispositivi elettronici. Dopo essere rimasti fermi per una giornata, abbiamo preso la rotta di Murmansk, a cinque giorni di distanza. Arrivati a destinazione ci hanno detto che avremmo lasciato la nave per qualche ora, invece non siamo più tornati a bordo”.

Come ha vissuto quei momenti? Cosa ha pensato quando ha visto i militari russi calarsi sull’Arctic Sunrise? “Ho accettato quello che stava succedendo. Eseguivo gli ordini, non era il momento di piangere, non potevamo permetterci altro. Quando, arrivati a Murmansk, abbiamo cominciato a capire che la situazione si stava complicando, qualcuno ha reagito in modo più evidente. Tutti però sapevano che c'erano dei rischi, eravamo consapevoli delle conseguenze che la nostra azione avrebbe comportato”.

Poi l’esperienza della prigione… “Quello che è successo è stato uno shock per tutta la crew. Perché sebbene preparati nessuno si aspettava di essere arrestato e restare per due mesi in carcere. La prigione è un’esperienza terribile, ogni giorno è uguale all’altro. Tre pasti, una sola ora di aria. Niente di più. Io sono stata fortunata, perché ho potuto leggere qualche libro”.

Era sola in cella? “La prima volta ho diviso la cella con 4 detenute russe, poi sono stata in isolamento per sei settimane a Murmansk. Infine quando ci hanno trasferito a San Pietroburgo, circa trenta ore di viaggio, ho diviso la stanza con due ragazza mie coetanee”.

Come è avvenuto il rilascio? “A novembre Greenpeace ha pagato una cauzione per ottenere il nostro rilascio, circa 2 milioni di rubli (poco più di 43 mila euro). Non potevamo comunque laciare il paese perché mancava un timbro sul passaporto, per la precisione quello di ingresso, e le autorità locali si rifiutavano di apporlo. Poi a dicembre la Duma ha dichiarato un’amnistia generale e solo allora siamo riusciti a partire. Io sono arrivata a casa il 27 dicembre”.

E la nave? L’arctic Sunrise? “È stata sotto sequestro, ferma a Murmansk per tutti questi mesi. Le autorità russe l‘hanno dissequestrata solo ad inizio luglio. Ora si tratterà di vedere se è in condizione di ripartire”.

Gli altri membri della crew? Li sente ancora? “Si ci sentiamo con regolarità via mail. Stanno tutti bene, molti sono ancora impegnati con Greenpeace. Altri hanno invece preso un momento di pausa e sono tornati a dedicarsi ai loro affari. Subito dopo la liberazione, per alcuni, è stato faticoso sopportare l’attenzione dei media”.

Ora di nuovo in mare, a bordo della Rainbow Warrior. Cosa la spinge a proseguire? “Noi siamo in qualche modo diventati tutti dei grandi consumisti, prendiamo, usiamo e poi buttiamo. Con il nostro comportamento stiamo rovinando l’ambiente. Io credo che sia importante che qualcuno si impegni in prima persona per dire basta a tutta questa avidità, a tutto questo spreco”.

Adesso a mesi di distanza cosa resta dell’esperienza a bordo dell’Arctic Sunrise? “C’è qualcosa di profondamente sbagliato in quello che è successo. C’è qualcosa di sbagliato se si decide di rispondere in quel modo ad un’azione di protesta pacifica. Imprigionarci è stato un modo per metterci a tacere, un modo brutale per dire “State fuori dal nostro business”. Per questo sono ancora qui, per questo continuo a lottare per l’ambiente. È questo che mi da la forza di andare avanti e mi fa credere che le campagne di Greenpeace siano per una giusta causa: per portare alla luce problematiche fondamentali di cui altrimenti nessuno parlerebbe mai”.