SPETTACOLO
Quella volta che Celentano non lo mandò in onda e altre storie: i 50 anni di Vinicio Capossela

Spesso si traveste, indossando cappelli e berretti: è un pirata, è un cowboy, un mago, un ciarlatano, un intellettuale russo, un rivoluzionario, un venditore di sogni. E il travestimento è talmente perenne, e le parole da lui usate tanto surreali, che è difficile riconoscere cosa ci sia dietro la mitologia delle sue storie e dei suoi atteggiamenti sfuggenti. Anche nel giorno del suo cinquantesimo compleanno. Ma c’è la musica, prodotta in 25 anni di carriera (altro anniversario), ci sono i romanzi, le colonne sonore (Dieci inverni) e c’è un film in uscita a gennaio.
La sensazione è che Vinicio Capossela, nato ad Hannover il 14 dicembre del 1965, voglia difendere la persona, dietro ad un nome che sembra d’arte ma non lo è, ispirato ad un celebre fisarmonicista, e dietro al personaggio. Un figlio di emigranti irpini di Calitri che scelsero la Germania e non gli Stati Uniti come terra promessa ritrovandosi miti nostrani nel juke box: più Adamo e Celentano che Sinatra. L’infanzia la trascorre poi in Emilia e il solco in cui si inserisce, oltre ai 45 giri del Clan, è quello di Guccini, il primo a credere in lui, al Tenco del 1989. Condividono la necessità del racconto, entrambi sono anche scrittori. L’ultimo romanzo è Il paese dei coppoloni (Feltrinelli, 2015). Ma a fargli il ritratto, vediamo somiglianze con Tom Waits (suona col suo chitarrista Marc Ribot) e Bukowski.
A inizio carriera nelle sue ballate lente o movimentate si sente sapore di sale, di balere come in Che coss’è l’amor, di beat italiano, di ritmi tradizionali, di balli di paese, di pizzica. Anche se è degli anni 2000, la sua cover di Si è spento il sole sintetizza questo stile. L’aveva preparata per un’ospitata tv in un programma di Celentano. Ma poi il Molleggiato annullò la sua partecipazione. Così almeno ci raccontò Capossela in un’intervista del 2003. Ci fece immaginare un’incomprensione tra la talentuosa nuova leva e il vecchio mito. La reinterpretazione effettivamente oggi funziona più dell’originale. Forse Celentano sentì l’avanzare del nuovo, forse Vinicio desideroso di piacere al “padre” se la prese un po’, forse anche per questo lo stile prende nuove direzioni, diventa più complesso e personale, guarda all’epica, alla Bibbia, alla grande letteratura. Il pop è sempre più alle spalle, mentre anche il look cambia, dalla ‘mosca’ alla barba lunga, andando verso l’identità di un cantautore ambizioso.
Oltre alle 4 targhe Tenco vinte e alla stima della critica, il cantante è stato a volte vincente anche con il grande pubblico che lo ha premiato nella classifica delle vendite e nei lunghi tour: per la qualità della voce, che sa cambiare, sa essere morbida e ruggente; per la ballabilità e orecchiabilità di alcuni brani che ne hanno segnato il percorso; e ovviamente anche per la sua icona di artista maledetto, irraggiungibile. Anche nelle copertine degli album si nasconde: in All’una e 35 circa sembra Tenco, nel Ballo di San Vito è coperto dal fumo di una sigaretta, in Ovunque proteggi il volto è offuscato, in Da solo viene sovraimpresso da un tabellone; poi dettagli, dipinti, citazioni. Nessuna cover con un bel primo piano alla Images di Lucio Battisti.
Lasciamo all’artista, chi meglio di lui, la descrizione di sé e di questa sua età. Sul suo sito ufficiale, poco più di un mese fa, pubblicava un testo, che serviva come presentazione del tour intitolato non a caso Qu’art de siecle, a Venezia il 20 dicembre e a Roma il 21: “Ora mi aspetto di cambiare tempo, e iniziare a frequentare il ‘levare’: togliere, asciugare, levare appunto, ridurre le cose all’essenziale, che, dicono, è il grande vantaggio di invecchiare”. In queste righe e nelle successive, forse c’è anche qualcosa della persona che cercavamo. Guardando a ritroso parla di “amicizie di gioventù, amori, addii laceranti, purezza perduta, infranta”, e poi ancora di “amici scomparsi, figli non avuti, paesi abbandonati”. Il quarto di secolo oggi è arrivato, Vinicio, si guarda avanti, si guarda indietro.
La sensazione è che Vinicio Capossela, nato ad Hannover il 14 dicembre del 1965, voglia difendere la persona, dietro ad un nome che sembra d’arte ma non lo è, ispirato ad un celebre fisarmonicista, e dietro al personaggio. Un figlio di emigranti irpini di Calitri che scelsero la Germania e non gli Stati Uniti come terra promessa ritrovandosi miti nostrani nel juke box: più Adamo e Celentano che Sinatra. L’infanzia la trascorre poi in Emilia e il solco in cui si inserisce, oltre ai 45 giri del Clan, è quello di Guccini, il primo a credere in lui, al Tenco del 1989. Condividono la necessità del racconto, entrambi sono anche scrittori. L’ultimo romanzo è Il paese dei coppoloni (Feltrinelli, 2015). Ma a fargli il ritratto, vediamo somiglianze con Tom Waits (suona col suo chitarrista Marc Ribot) e Bukowski.
A inizio carriera nelle sue ballate lente o movimentate si sente sapore di sale, di balere come in Che coss’è l’amor, di beat italiano, di ritmi tradizionali, di balli di paese, di pizzica. Anche se è degli anni 2000, la sua cover di Si è spento il sole sintetizza questo stile. L’aveva preparata per un’ospitata tv in un programma di Celentano. Ma poi il Molleggiato annullò la sua partecipazione. Così almeno ci raccontò Capossela in un’intervista del 2003. Ci fece immaginare un’incomprensione tra la talentuosa nuova leva e il vecchio mito. La reinterpretazione effettivamente oggi funziona più dell’originale. Forse Celentano sentì l’avanzare del nuovo, forse Vinicio desideroso di piacere al “padre” se la prese un po’, forse anche per questo lo stile prende nuove direzioni, diventa più complesso e personale, guarda all’epica, alla Bibbia, alla grande letteratura. Il pop è sempre più alle spalle, mentre anche il look cambia, dalla ‘mosca’ alla barba lunga, andando verso l’identità di un cantautore ambizioso.
Oltre alle 4 targhe Tenco vinte e alla stima della critica, il cantante è stato a volte vincente anche con il grande pubblico che lo ha premiato nella classifica delle vendite e nei lunghi tour: per la qualità della voce, che sa cambiare, sa essere morbida e ruggente; per la ballabilità e orecchiabilità di alcuni brani che ne hanno segnato il percorso; e ovviamente anche per la sua icona di artista maledetto, irraggiungibile. Anche nelle copertine degli album si nasconde: in All’una e 35 circa sembra Tenco, nel Ballo di San Vito è coperto dal fumo di una sigaretta, in Ovunque proteggi il volto è offuscato, in Da solo viene sovraimpresso da un tabellone; poi dettagli, dipinti, citazioni. Nessuna cover con un bel primo piano alla Images di Lucio Battisti.
Lasciamo all’artista, chi meglio di lui, la descrizione di sé e di questa sua età. Sul suo sito ufficiale, poco più di un mese fa, pubblicava un testo, che serviva come presentazione del tour intitolato non a caso Qu’art de siecle, a Venezia il 20 dicembre e a Roma il 21: “Ora mi aspetto di cambiare tempo, e iniziare a frequentare il ‘levare’: togliere, asciugare, levare appunto, ridurre le cose all’essenziale, che, dicono, è il grande vantaggio di invecchiare”. In queste righe e nelle successive, forse c’è anche qualcosa della persona che cercavamo. Guardando a ritroso parla di “amicizie di gioventù, amori, addii laceranti, purezza perduta, infranta”, e poi ancora di “amici scomparsi, figli non avuti, paesi abbandonati”. Il quarto di secolo oggi è arrivato, Vinicio, si guarda avanti, si guarda indietro.