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SCIENZA

Intervista

Stefano Mancuso e lo studio della comunicazione vegetale

"Quando annusiamo un fiore, in realtà sentiamo un messaggio rivolto agli insetti. Un richiamo per avvertirli che c’è del nettare che li aspetta in cambio del trasporto del polline"

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Stefano Mancuso
di Laura Mandolesi Ferrini
Rainews ha cercato di capire con il professor Stefano Mancuso, fisiologo vegetale e direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia vegetale dell’Università di Firenze, perché è tanto importante comprendere le piante.
 
Professor Mancuso, sembra che gli sceneggiatori di Avatar abbiano letto almeno qualche articolo sulla neurobiologia vegetale. Ma il suo libro: “Verde brillante” non parla di Pandora. Parla della Terra. E dei pregiudizi che noi umani abbiamo sempre avuto nei confronti delle piante. È più facile parlare di alberi che comunicano fra loro riferendoci ad altri pianeti piuttosto che al nostro? 
Direi proprio di si. Tendiamo ad avere degli alberi una visione di esseri passivi, completamente alla mercè dell’ambiente o degli animali. È molto più facile per noi immaginare delle piante extraterrestri capaci di comunicare attraverso le radici, piuttosto che cambiare il nostro modo di vedere e capire che questo realmente accade sulla Terra.
 
Dopo aver parlato, assieme ad altri studiosi, di “neurobiologia vegetale”, lei ha dovuto affrontare le critiche di alcuni botanici che le contestano l’uso di questa parola per quanto riguarda la vita delle piante. In effetti le sue ricerche invitano a ripensare le linee di confine fra regno animale e vegetale. E se fosse semplicemente un problema di confusione, imbarazzo o smarrimento di tanti scienziati di fronte a questo compito così delicato?
Non credo si tratti di smarrimento. Gli scienziati sono persone che non si smarriscono di fronte ad un concetto nuovo o ad una nuova visione. Credo, piuttosto, sia insito nell’approccio scientifico una naturale resistenza al nuovo. Come è giusto che sia, prima che qualcosa di nuovo sia accettato dalla comunità scientifica, deve passare il vaglio di numerose conferme.
 
Lei si domanda il perché della nostra millenaria prevenzione nei confronti delle piante. E suggerisce che Homo sapiens dovrebbe ridimensionarsi un po’ e iniziare a valutare le infinite cose che le  piante possono insegnare. Ma molte popolazioni di cultura orale non hanno (o non avevano) la stessa nostra visione antropocentrica. Forse avremmo qualcosa da imparare anche dalla loro percezione del mondo?
Non saprei. Probabilmente si, ma non sono un antropologo. Non ho le competenze per rispondere a questa domanda. Sicuramente farebbe bene all’uomo considerare che non è il centro del creato, ma una sua, per quanto notevolissima, parte.

Le piante hanno adottato una strategia evolutiva che le ha portate a strutturarsi in parti divisibili perché “hanno messo in conto” di essere predate. Ma come hanno potuto farlo se molti predatori si sono evoluti dopo di loro? O meglio, quando le piante sono uscite dall’acqua, avevano già dei nemici naturali?
La storia dell’evoluzione è una storia di relazioni fra le specie e fra le specie e l’ambiente. Chi sia apparso prima o dopo non ha molta importanza. La presenza dei predatori fa si che le piante modifichino il loro corpo. E comunque, le piante con fiori, le cosiddette angiosperme, che rappresentano la grande maggioranza delle piante superiori, sono apparse sul pianeta, ben dopo l’apparizione dei primi mammiferi. Sono organismi molto moderni.
 
Per far capire meglio alcune questioni, lei fa uso di metafore. Quanto sono importanti le metafore nell’affrontare e nel risolvere problemi nella ricerca scientifica?
Mi fa delle domande complesse! Le metafore sono fondamentali per la scienza, ma anche pericolose. Intendo dire, che la giusta metafora può farci vedere le cose da una prospettiva nuova e permetterci grandi progressi, al contrario una metafora sbagliata o mal posta può spesso essere di danno. Come ogni strumento, anche la metafora deve essere utilizzata per il meglio.
 
Le piante sono dotate anche di linguaggio. Ma non se sappiamo molto. Lei sostiene che in questo momento ci troviamo nella stessa situazione in cui si trovava Champollion prima del 1822, prima cioè di decifrare i geroglifici egiziani. Nel vostro laboratorio a Firenze state costruendo una sorta di “dizionario” basato sulle sostanze chimiche emesse dalle piante. A che punto siete con la decifrazione del codice?
Le piante comunicano moltissimo, utilizzando un vocabolario chimico. Quando annusiamo un fiore, in realtà sentiamo un messaggio rivolto agli insetti. Un richiamo per avvertirli che c’è del nettare che li aspetta in cambio del trasporto del polline. Molte altre molecole prodotte dalle piante hanno funzioni diverse, per esempio di allarme o di avvertimento. Studiare queste molecole ci farà capire molto sulla comunicazione vegetale.
 
Nel suo recente libro “Uomini che amano le piante”, lei racconta in modo sintetico ma intenso la storia di vari “scienziati del mondo vegetale”. Uno per tutti, Federico Delpino (1833-1905), padre della “biologia vegetale”, che sviluppò una vibrante curiosità per la natura fin da piccolo quando la madre, vedendolo delicato di salute, lo lasciava per ore in giardino. “Per fortificarne la costituzione”. Oggi molte mamme hanno un atteggiamento opposto, costringendo spesso i figli in spazi chiusi. “Per proteggerli”. Eppure anche lei ricorda i benefici psicologici delle piante sull’uomo. E sui bambini. Un altro aspetto delle piante troppo poco noto?
Ha ragione, le piante apportano incredibili benefici sia di ordine fisico che psicologico. Esiste una letteratura ormai molto vasta che dimostra la capacità delle piante di avere effetti benefici sulla psiche. Dai bambini con problemi di apprendimento alle persone in stato di stress, dai degenti degli ospedali, ai guidatori, se vi sono delle piante vicine, gli effetti benefici e rilassanti sono indiscutibili.
 
Ci può anticipare il progetto “Jellyfish Barge” per l’Expo 2015? 
Si tratta di una serra galleggiante che produce cibo senza consumare suolo, acqua dolce ed energia. È stata pensata per comunità vulnerabili alla scarsità di acqua e di cibo. Il prototipo funzionante è installato dall'ottobre 2014, nel canale Navicelli, tra Pisa e Livorno. È un'iniziativa della start-up Pnat (www.pnat.net).  La struttura è costruita con tecnologie semplici e con materiali riciclati ed a basso costo. L'acqua dolce viene fornita da dei dissalatori solari disposti lungo il perimetro. La serra incorpora un innovativo sistema di coltivazione idroponica che garantisce un risparmio di acqua fino al 70% rispetto alle culture tradizionali ed autonoma energeticamente. Jellyfish Barge è modulare, per cui un singolo elemento è completamente autonomo, mentre più serre affiancate possono garantire la sicurezza alimentare di un'intera comunità.