ITINERARI
Saper vedere secondo Pandakovic
Leggere il paesaggio, un sapere che scompare
Riprende il nostro viaggio sui luoghi noti e sconosciuti che compongono il paesaggio e la sua storia. Dopo Gilles Clément, che “inventando” il Terzo paesaggio, ha proposto un nuovo modo di osservare il territorio, abbiamo incontrato Darko Pandakovic, che ci ha offerto una sua lettura del messaggio del paesaggista francese. E un punto di vista sulla nostra realtà interiore.

“Se dimentichiamo per un istante che un piroscafo è un mezzo di trasporto e lo guardiamo con occhi nuovi…” Le Corbusier, “Verso una architettura”, (1923)
“Occhi che non vedono…” , Le Corbusier intitolava così alcuni capitoli del suo libro, criticando i colleghi contemporanei, incapaci di vedere i cambiamenti intorno a loro. In quegli anni iniziava una rivoluzione per l’architettura, impensabile senza “occhi nuovi”. E a un nuovo modo di guardare ci esorta oggi Darko Pandakovic, architetto impegnato da anni nella valorizzazione del patrimonio paesaggistico, secondo cui “non vediamo più con i nostri occhi, vediamo quello che gli altri ci suggeriscono di vedere” (“Architettura del paesaggio vegetale”, 2000). E conformandoci a un “modo di vedere di massa” restiamo imprigionati e immobili, senza capire che l’osservazione è un fenomeno dinamico. Soltanto articolando la percezione da angolazioni diverse si può scoprire una “realtà molteplice”. E con questa, anche la coincidenza fra la realtà esterna e la propria interiorità. Tenendo presente che tutti conserviamo, a livello istintivo, una memoria genetica dell’ambiente naturale, Pandakovic, con Angelo Dal Sasso, ha tentato di sondare i meccanismi mutevoli e i rapporti profondi che ci legano all’ambiente. E di proporre categorie per la sua lettura e interpretazione (“Saper vedere il Paesaggio”, 2009). In un periodo in cui si parla e si scrive forse troppo di paesaggio, ci si può domandare a cosa serva continuare a riflettere ancora su questo tema. Ma l’allarme qui lanciato, “la capacità di osservazione della realtà sta pericolosamente scomparendo”, contiene già la risposta: misurarsi con questa capacità è necessario. Soprattutto se consideriamo, assieme a Clément, che “niente è più importante dell’educazione dello sguardo”.
Professor Pandakovic, nel suo “Architettura del paesaggio vegetale”, lei parla di “mutevolezza” del paesaggio. Una qualità inattesa, visto che il paesaggio è spesso considerato immobile. Gilles Clément ha poi sviluppato questo concetto nei suoi scritti, fra cui il Manifesto del terzo paesaggio, pubblicato in Italia nel 2005. Cosa è cambiato nella percezione del paesaggio in questi ultimi dieci anni?
Molto prima di Gilles Clément, la “mutevolezza” è stata affermata come categoria specifica del paesaggio da Rosario Assunto, il fondatore dell’estetica del paesaggio; i suoi scritti, (tra tutti Il Paesaggio e l’Estetica, 1973) fondano e approfondiscono l’aspetto temporale del paesaggio, la mutevolezza, la memoria del passato e l’aspettativa del ritorno nel ciclo delle stagioni. Mi sembra che Assunto sia conosciuto molto più all’estero che in Italia, per il consueto complesso italiano di vedere più verde l’erba straniera e non riconoscere i meriti culturali che il paese ha prodotto con largo anticipo rispetto a mode poco consapevoli. Tra queste mode, assunte superficialmente e solo verbosamente, è anche il “paesaggio”: è diventato l’ingrediente di tutto, dall’arte alla cucina, dal turismo alla peggiore edilizia. Negli ultimi anni si parla sempre più di paesaggio ma senza sapere di cosa si tratta. Non lo si valorizza perché non si conosce, non si pratica, non è un ingrediente della vita per la maggioranza delle persone. La percezione del paesaggio cambierà solo quando si saprà essere felici per un bel paesaggio.
Come dicevamo all’inizio, la categoria che la fruizione del paesaggio porta nella vita quotidiana è quella della mutevolezza, del tempo. Sarebbe molto utile se una maggiore consapevolezza del paesaggio aiutasse a mettere a fuoco che la nostra vita si svolge nel tempo e nelle transitorietà. Tra tutte le espressioni artistiche e manifestazioni di bellezza il paesaggio e la musica rinnovano la nostra reale condizione temporale. Molti aspetti della scienza contemporanea negano la stessa esistenza del tempo. In Italia tra gli scienziati-umanisti chi più ha sostenuto la coincidenza della nostra stessa esistenza con il tempo è stato Luigi Zanzi, di cui ricordo il testo del 2014 “Per una concezione storico-fattuale del tempo”.
Lei si occupa da tempo anche di didattica. Per questo ha scritto, assieme ad Angelo Dal Sasso, “Saper vedere il Paesaggio”, in cui affronta molti temi legati alla sua osservazione e decodifica. A cosa serve la lettura del paesaggio?
Nel titolo “Saper vedere il paesaggio” abbiamo fatto riferimento al famoso libro di Bruno Zevi “Saper vedere l’architettura” su cui si sono formate generazioni di studiosi di arte e di architettura. Zevi insegna che l’architettura non sono tanto le forme e le decorazioni ma è lo “spazio”, le sue proporzioni, ritmi, articolazioni, luminosità. In effetti ancora oggi pochi sanno come si guarda e come si valuta un’architettura, mentre anche la critica costruisce valutazioni in base ad una fotografia di facciata!
Per il paesaggio bisogna imparare ad osservare; la capacità di osservazione della realtà sta pericolosamente scomparendo. Spesso la gente non sa dire che cosa ha visto dopo un viaggio turistico! Ma per il paesaggio vi è una naturale, a volte inconsapevole, attrazione: si tratta probabilmente di un’attitudine primordiale. L’osservazione, interpretazione e comprensione dei significati del paesaggio abbraccia discipline diverse. Pensiamo solo al fascino che esercitano sui bambini le rocce ed i sassi che incontrano in una passeggiata in montagna; chi li accompagna si trova subissato dalle richieste “portiamolo a casa!” e lo zaino sempre più pesante. I sassi che sorprendono i bambini sono la storia dell’evoluzione geologica del luogo che subliminalmente invia messaggi nelle forme di come si è rappreso il magma o si sono conglomerate le rocce.
La suddivisione dei campi in una piana può raccontare la storia del luogo, la successione delle proprietà o semplicemente le stratificate tecniche di coltura.
Il paesaggio italiano è una tale stratificazione di storia, di costumi, di abilità agrarie, di diverse tradizioni, da costituire, per chi sa leggerlo, un “libro aperto” .
Come lei sottolinea (in Saper vedere il paesaggio), l’aggressione del territorio porta a una cancellazione indifferenziata di significati. E’ ancora possibile allora “vedere il paesaggio” quando le specificità dei luoghi vengono a mancare?
Le specificità dei luoghi, che sono una grande e preziosa caratteristica italiana, sono dovute innanzitutto alle diverse condizioni climatiche, altitudinali, alle differenti gestioni di governo, ed alle differenti situazioni economiche. L’Italia si protende da Nord a Sud tra il 47° ed il 37° parallelo, che comprende la fascia del globo in cui variano maggiormente le condizioni climatiche (la fascia compresa tra i Tropici ad esempio è molto più costante). Nella penisola inoltre le catene montuose apportano una ulteriore variabilità di condizioni rapportate all’altitudine. La divisione del paese in tanti staterelli ha portato grandi differenze nella gestione del paesaggio agrario: in Toscana, le riforme degli Asburgo Lorena con Leopoldo II nel Settecento hanno consolidato un paesaggio ben diverso dai latifondi borbonici nel Meridione. Le normative sul “maso chiuso” hanno garantito continuità al paesaggio altoatesino, le campagne di Parma e Piacenza portano ancora i segni del governo illuminato di Maria Luisa d’Austria.
E’ vero che le specificità dei luoghi vengono meno, ma in Italia la molteplicità delle espressioni culturali e la loro integrazione (quel certo dipinto in quella chiesa che sta sulla collina cui giunge un viale alberato di cipressi, da cui si vede una campagna in cui la divisione dei campi rimanda a....e le coltivazioni in parte serbano tracce della cultura promiscua...e la gente parla ancora una lingua che risale a...e i toponimi dei luoghi ricordano l’antica presenza di popolazioni che...) può ancora rendere vivo quell’entroterra culturale di cui magistralmente parla Yves Bonnefoy, il poeta e studioso francese che ha scritto con questo titolo un libro edito da Donzelli.
I luoghi stanno certamente perdendo la loro identità: è urgente prendersi cura dei luoghi e ridestarne l’intrinseca e non ancora scomparsa vitalità.
Lei ha anche sostenuto che la prepotenza che ha smantellato il paesaggio del “Bel Paese” è simile alla “rozza massificazione sub-culturale delle reti televisive”. Può la lettura del paesaggio portare un contributo utile a chi nelle reti televisive lavora (registi, operatori, reporter, giornalisti)?
Mi viene spontaneo ricordare quanto la televisione della Svizzera Italiana lavori per diffondere la conoscenza del paesaggio, dei pregi e delle tradizioni di ogni singola vallata, con servizi che vengono trasmessi in prima serata affinché i trecentomila ticinesi imparino ad identificarsi e amare i loro luoghi! Da noi quasi ci si vergogna se si presentano e si insegnano seriamente le risorse del paesaggio e del territorio (che non significa ridurre all’omologazione sdolcinata della sagra di recente invenzione con tradizionali prodotti gastronomici!). Ho fatto svolgere diverse tesi di laurea sul paesaggio nel cinema italiano, studiando i paesaggi del dopoguerra di cui sono ricche le pellicole del Neorealismo, ai film che fanno cassetta con la suggestione di affermati e scontati paesaggi toscani.
La lettura del paesaggio e la capacità di comprenderlo è utile a tutti, perché insegna a vivere con più soddisfazione e più orgoglio nei propri luoghi. Spiegare il paesaggio, molte volte, significa rendere coscienti le persone di ciò che nel profondo hanno già dentro di sé, svelare loro una verità che portano nel profondo e questo le rende più felici e grate.
In Italia abbiamo avuto un esempio unico e irripetibile di ricerca sulla storia del paesaggio: quello di Emilio Sereni, il cui studio si è basato sull’analisi del patrimonio artistico. L’arte, come fonte primaria di documentazione dunque. Quali altre discipline si potrebbero oggi sostituire all’arte nello studio del paesaggio?
Per quanto riguarda la connessione tra arte e paesaggio, dal 2000 in poi si sono svolte in Italia alcune mostre su pittori, nel loro luogo di origine, che inducevano a visitare i paesaggi circostanti, per comprendere le opere nel loro reale territorio. Credo che dietro a queste diverse esposizioni ci sia stata costantemente la presenza di Antonio Paolucci, sommo conoscitore dell’arte italiana e sempre attento al patrimonio paesaggistico nazionale in declino. A Paolucci si deve la mostra su Giovanni Bellini alle Scuderie del Quirinale nel 2009: la mostra presentava, come chiave di interpretazione centrale, il paesaggio. Ma precedentemente, nel 2004, la mostra sul Perugino conduceva il visitatore a percorrere in diverse sedi l’Umbria. Nel 2010, cinquecentesimo anniversario della morte del Giorgione, una mostra a Castelfranco Veneto invitava ad osservare i paesaggi collinari, non sempre intatti, dell’industrioso Nord Est. Nello stesso anno a Conegliano, la mostra Cima da Conegliano, poeta del paesaggio, affrontava coraggiosamente il confronto tra i paesaggi illustrati dal maestro rinascimentale e gli stessi paesaggi oggi. Non posso dimenticare poi i sublimi percorsi tra i paesaggi toscani indotti dalle mostre organizzate ,in diverse sedi, dall’iniziativa Piccoli grandi Musei a cura del Sistema Museale Fiorentino: tra le iniziative dei diversi anni ricordo Rinascimento in Valdarno nel 2007 e Mugello culla del Rinascimento del 2008.
Al grande patrimonio storico della pittura oggi si potrebbe aggiungere il cinema e, se opportunamente guidata, con ritegno e sobrietà, la fotografia.
“Sembra che la cura del paesaggio stia più a cuore alla società civile che non alle forme ufficiali delle pubbliche amministrazioni e dei poteri politici” ha osservato (in “Saper vedere il paesaggio”). Quali strumenti ha, a suo avviso, la società civile per difendere il paesaggio, che è come dire “difendere se stessa”?
I nuovi mezzi di comunicazione hanno stravolto i tradizionali mezzi per rendere noto, far sapere, avvisare... Milioni di fotografie si scattano, senza averlo programmato, col cellulare e si inviano. La società civile, quando i suoi componenti sanno osservare e vedere può esercitare un controllo sul territorio mai prima ipotizzabile. Sono sempre più frequenti i casi come quello che ora dirò: sulla riva orientale del lago di Como, la Tremezzina, è stata progettata una variante stradale per evitare l’eccessivo traffico di passaggio in alcuni paesi di riva. Il progetto, meritorio dal punto di vista funzionale, ben pensato per alcuni tratti in galleria, distrugge però alcuni luoghi di rilevante significato paesistico e culturale (da quelle parti sono ambientati gli episodi lariani della Certosa di Parma di Sthendal). Si sono sollevate, per chiedere la revisione e corretta integrazione paesistica del progetto, le associazioni nazionali Italia Nostra e FAI e alcune associazioni locali. La società civile può farsi sentire. Credo anzi che nei momenti di crisi, quando le pubbliche amministrazioni e le rappresentanze politiche ufficiali sono oberate già dalla difficoltà di gestione quotidiana, sia il momento specifico in cui la società civile deve muoversi, essere attiva e supplire anche alle carenze dei ruoli pubblici ufficiali.
Lei ha recentemente realizzato il Giardino Campagna di Palazzo Albergati, un progetto che ha recuperato i segni agrari di un parco storico. Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate nella reinterpretazione di questo territorio?
Il concorso pubblico che il nostro studio ha vinto nel 2001 per il progetto del Giardino Campagna di Palazzo Albergati ha avuto un iter lungo e faticoso nelle fasi di attuazione. Dopo una Amministrazione Comunale giovane ed entusiasta, che aveva indetto il concorso, si sono succedute amministrazioni meno interessate che non comprendevano l’incidenza regionale e nazionale che la realizzazione di un brano di paesaggio agrario storico avrebbe avuto sulla comunità locale. Le maggiori difficoltà sono state nel far comprendere le potenzialità del progetto. La reinterpretazione dei segni storici nell’organizzazione della fruizione contemporanea portano ovviamente a compromessi e adattamenti. La stessa lavorazione dei terreni che in parte sono produttivi, le potature della vite maritata, la gestione “agraria” del complesso da parte di aziende che conoscano i modi di lavorazione storici sono temi da cucire pazientemente per rendere sostenibile la gestione del parco.
All’International meeting “I Maestri del Paesaggio” di Bergamo, lei ha tenuto un seminario proprio sul Giardino Campagna. Non a caso, il tema del meeting di quest’anno è: “Il Paesaggio che nutre, le colture agrarie fanno paesaggio”. L’agricoltura sembra proprio la grande sfida dei prossimi decenni. A quali altre urgenze secondo lei dobbiamo guardare?
Il meeting dà per scontato che “le colture agrarie fanno paesaggio”: non posso che condividere questa tesi che sostengo fin dagli anni Ottanta. In Italia, dal paesaggio agrario possiamo trarre infiniti temi di progettazione paesistica. Quali sono le ulteriori urgenze? L’educazione e la cultura: bisogna divulgare la conoscenza che il paesaggio agrario del Bel Paese è stato un immenso patrimonio culturale, aspetto sostanziale dell’ammirazione per l’Italia da parte dei viaggiatori del Grand Tour. Ma soprattutto bisogna convincere che i luoghi dove abitiamo sono ancora la nostra vita, che le stratificazioni dei segni di una storia millenaria sono la principale risorsa del futuro. Le cose da vedere e conoscere ci sono, bisogna educare alla felicità delle variazioni di luce di ogni concreta giornata di sole o di pioggia, alla sorpresa per il ciclico ritorno delle stagioni, alla memoria che evocano i profumi di ogni fioritura e gli odori delle foglie macerate nell’umidità dell’autunno. Forse l’urgenza più grande è il bisogno di poeti che sappiano raccontarci le meraviglie che ci stanno intorno.
“Occhi che non vedono…” , Le Corbusier intitolava così alcuni capitoli del suo libro, criticando i colleghi contemporanei, incapaci di vedere i cambiamenti intorno a loro. In quegli anni iniziava una rivoluzione per l’architettura, impensabile senza “occhi nuovi”. E a un nuovo modo di guardare ci esorta oggi Darko Pandakovic, architetto impegnato da anni nella valorizzazione del patrimonio paesaggistico, secondo cui “non vediamo più con i nostri occhi, vediamo quello che gli altri ci suggeriscono di vedere” (“Architettura del paesaggio vegetale”, 2000). E conformandoci a un “modo di vedere di massa” restiamo imprigionati e immobili, senza capire che l’osservazione è un fenomeno dinamico. Soltanto articolando la percezione da angolazioni diverse si può scoprire una “realtà molteplice”. E con questa, anche la coincidenza fra la realtà esterna e la propria interiorità. Tenendo presente che tutti conserviamo, a livello istintivo, una memoria genetica dell’ambiente naturale, Pandakovic, con Angelo Dal Sasso, ha tentato di sondare i meccanismi mutevoli e i rapporti profondi che ci legano all’ambiente. E di proporre categorie per la sua lettura e interpretazione (“Saper vedere il Paesaggio”, 2009). In un periodo in cui si parla e si scrive forse troppo di paesaggio, ci si può domandare a cosa serva continuare a riflettere ancora su questo tema. Ma l’allarme qui lanciato, “la capacità di osservazione della realtà sta pericolosamente scomparendo”, contiene già la risposta: misurarsi con questa capacità è necessario. Soprattutto se consideriamo, assieme a Clément, che “niente è più importante dell’educazione dello sguardo”.
Professor Pandakovic, nel suo “Architettura del paesaggio vegetale”, lei parla di “mutevolezza” del paesaggio. Una qualità inattesa, visto che il paesaggio è spesso considerato immobile. Gilles Clément ha poi sviluppato questo concetto nei suoi scritti, fra cui il Manifesto del terzo paesaggio, pubblicato in Italia nel 2005. Cosa è cambiato nella percezione del paesaggio in questi ultimi dieci anni?
Molto prima di Gilles Clément, la “mutevolezza” è stata affermata come categoria specifica del paesaggio da Rosario Assunto, il fondatore dell’estetica del paesaggio; i suoi scritti, (tra tutti Il Paesaggio e l’Estetica, 1973) fondano e approfondiscono l’aspetto temporale del paesaggio, la mutevolezza, la memoria del passato e l’aspettativa del ritorno nel ciclo delle stagioni. Mi sembra che Assunto sia conosciuto molto più all’estero che in Italia, per il consueto complesso italiano di vedere più verde l’erba straniera e non riconoscere i meriti culturali che il paese ha prodotto con largo anticipo rispetto a mode poco consapevoli. Tra queste mode, assunte superficialmente e solo verbosamente, è anche il “paesaggio”: è diventato l’ingrediente di tutto, dall’arte alla cucina, dal turismo alla peggiore edilizia. Negli ultimi anni si parla sempre più di paesaggio ma senza sapere di cosa si tratta. Non lo si valorizza perché non si conosce, non si pratica, non è un ingrediente della vita per la maggioranza delle persone. La percezione del paesaggio cambierà solo quando si saprà essere felici per un bel paesaggio.
Come dicevamo all’inizio, la categoria che la fruizione del paesaggio porta nella vita quotidiana è quella della mutevolezza, del tempo. Sarebbe molto utile se una maggiore consapevolezza del paesaggio aiutasse a mettere a fuoco che la nostra vita si svolge nel tempo e nelle transitorietà. Tra tutte le espressioni artistiche e manifestazioni di bellezza il paesaggio e la musica rinnovano la nostra reale condizione temporale. Molti aspetti della scienza contemporanea negano la stessa esistenza del tempo. In Italia tra gli scienziati-umanisti chi più ha sostenuto la coincidenza della nostra stessa esistenza con il tempo è stato Luigi Zanzi, di cui ricordo il testo del 2014 “Per una concezione storico-fattuale del tempo”.
Lei si occupa da tempo anche di didattica. Per questo ha scritto, assieme ad Angelo Dal Sasso, “Saper vedere il Paesaggio”, in cui affronta molti temi legati alla sua osservazione e decodifica. A cosa serve la lettura del paesaggio?
Nel titolo “Saper vedere il paesaggio” abbiamo fatto riferimento al famoso libro di Bruno Zevi “Saper vedere l’architettura” su cui si sono formate generazioni di studiosi di arte e di architettura. Zevi insegna che l’architettura non sono tanto le forme e le decorazioni ma è lo “spazio”, le sue proporzioni, ritmi, articolazioni, luminosità. In effetti ancora oggi pochi sanno come si guarda e come si valuta un’architettura, mentre anche la critica costruisce valutazioni in base ad una fotografia di facciata!
Per il paesaggio bisogna imparare ad osservare; la capacità di osservazione della realtà sta pericolosamente scomparendo. Spesso la gente non sa dire che cosa ha visto dopo un viaggio turistico! Ma per il paesaggio vi è una naturale, a volte inconsapevole, attrazione: si tratta probabilmente di un’attitudine primordiale. L’osservazione, interpretazione e comprensione dei significati del paesaggio abbraccia discipline diverse. Pensiamo solo al fascino che esercitano sui bambini le rocce ed i sassi che incontrano in una passeggiata in montagna; chi li accompagna si trova subissato dalle richieste “portiamolo a casa!” e lo zaino sempre più pesante. I sassi che sorprendono i bambini sono la storia dell’evoluzione geologica del luogo che subliminalmente invia messaggi nelle forme di come si è rappreso il magma o si sono conglomerate le rocce.
La suddivisione dei campi in una piana può raccontare la storia del luogo, la successione delle proprietà o semplicemente le stratificate tecniche di coltura.
Il paesaggio italiano è una tale stratificazione di storia, di costumi, di abilità agrarie, di diverse tradizioni, da costituire, per chi sa leggerlo, un “libro aperto” .
Come lei sottolinea (in Saper vedere il paesaggio), l’aggressione del territorio porta a una cancellazione indifferenziata di significati. E’ ancora possibile allora “vedere il paesaggio” quando le specificità dei luoghi vengono a mancare?
Le specificità dei luoghi, che sono una grande e preziosa caratteristica italiana, sono dovute innanzitutto alle diverse condizioni climatiche, altitudinali, alle differenti gestioni di governo, ed alle differenti situazioni economiche. L’Italia si protende da Nord a Sud tra il 47° ed il 37° parallelo, che comprende la fascia del globo in cui variano maggiormente le condizioni climatiche (la fascia compresa tra i Tropici ad esempio è molto più costante). Nella penisola inoltre le catene montuose apportano una ulteriore variabilità di condizioni rapportate all’altitudine. La divisione del paese in tanti staterelli ha portato grandi differenze nella gestione del paesaggio agrario: in Toscana, le riforme degli Asburgo Lorena con Leopoldo II nel Settecento hanno consolidato un paesaggio ben diverso dai latifondi borbonici nel Meridione. Le normative sul “maso chiuso” hanno garantito continuità al paesaggio altoatesino, le campagne di Parma e Piacenza portano ancora i segni del governo illuminato di Maria Luisa d’Austria.
E’ vero che le specificità dei luoghi vengono meno, ma in Italia la molteplicità delle espressioni culturali e la loro integrazione (quel certo dipinto in quella chiesa che sta sulla collina cui giunge un viale alberato di cipressi, da cui si vede una campagna in cui la divisione dei campi rimanda a....e le coltivazioni in parte serbano tracce della cultura promiscua...e la gente parla ancora una lingua che risale a...e i toponimi dei luoghi ricordano l’antica presenza di popolazioni che...) può ancora rendere vivo quell’entroterra culturale di cui magistralmente parla Yves Bonnefoy, il poeta e studioso francese che ha scritto con questo titolo un libro edito da Donzelli.
I luoghi stanno certamente perdendo la loro identità: è urgente prendersi cura dei luoghi e ridestarne l’intrinseca e non ancora scomparsa vitalità.
Lei ha anche sostenuto che la prepotenza che ha smantellato il paesaggio del “Bel Paese” è simile alla “rozza massificazione sub-culturale delle reti televisive”. Può la lettura del paesaggio portare un contributo utile a chi nelle reti televisive lavora (registi, operatori, reporter, giornalisti)?
Mi viene spontaneo ricordare quanto la televisione della Svizzera Italiana lavori per diffondere la conoscenza del paesaggio, dei pregi e delle tradizioni di ogni singola vallata, con servizi che vengono trasmessi in prima serata affinché i trecentomila ticinesi imparino ad identificarsi e amare i loro luoghi! Da noi quasi ci si vergogna se si presentano e si insegnano seriamente le risorse del paesaggio e del territorio (che non significa ridurre all’omologazione sdolcinata della sagra di recente invenzione con tradizionali prodotti gastronomici!). Ho fatto svolgere diverse tesi di laurea sul paesaggio nel cinema italiano, studiando i paesaggi del dopoguerra di cui sono ricche le pellicole del Neorealismo, ai film che fanno cassetta con la suggestione di affermati e scontati paesaggi toscani.
La lettura del paesaggio e la capacità di comprenderlo è utile a tutti, perché insegna a vivere con più soddisfazione e più orgoglio nei propri luoghi. Spiegare il paesaggio, molte volte, significa rendere coscienti le persone di ciò che nel profondo hanno già dentro di sé, svelare loro una verità che portano nel profondo e questo le rende più felici e grate.
In Italia abbiamo avuto un esempio unico e irripetibile di ricerca sulla storia del paesaggio: quello di Emilio Sereni, il cui studio si è basato sull’analisi del patrimonio artistico. L’arte, come fonte primaria di documentazione dunque. Quali altre discipline si potrebbero oggi sostituire all’arte nello studio del paesaggio?
Per quanto riguarda la connessione tra arte e paesaggio, dal 2000 in poi si sono svolte in Italia alcune mostre su pittori, nel loro luogo di origine, che inducevano a visitare i paesaggi circostanti, per comprendere le opere nel loro reale territorio. Credo che dietro a queste diverse esposizioni ci sia stata costantemente la presenza di Antonio Paolucci, sommo conoscitore dell’arte italiana e sempre attento al patrimonio paesaggistico nazionale in declino. A Paolucci si deve la mostra su Giovanni Bellini alle Scuderie del Quirinale nel 2009: la mostra presentava, come chiave di interpretazione centrale, il paesaggio. Ma precedentemente, nel 2004, la mostra sul Perugino conduceva il visitatore a percorrere in diverse sedi l’Umbria. Nel 2010, cinquecentesimo anniversario della morte del Giorgione, una mostra a Castelfranco Veneto invitava ad osservare i paesaggi collinari, non sempre intatti, dell’industrioso Nord Est. Nello stesso anno a Conegliano, la mostra Cima da Conegliano, poeta del paesaggio, affrontava coraggiosamente il confronto tra i paesaggi illustrati dal maestro rinascimentale e gli stessi paesaggi oggi. Non posso dimenticare poi i sublimi percorsi tra i paesaggi toscani indotti dalle mostre organizzate ,in diverse sedi, dall’iniziativa Piccoli grandi Musei a cura del Sistema Museale Fiorentino: tra le iniziative dei diversi anni ricordo Rinascimento in Valdarno nel 2007 e Mugello culla del Rinascimento del 2008.
Al grande patrimonio storico della pittura oggi si potrebbe aggiungere il cinema e, se opportunamente guidata, con ritegno e sobrietà, la fotografia.
“Sembra che la cura del paesaggio stia più a cuore alla società civile che non alle forme ufficiali delle pubbliche amministrazioni e dei poteri politici” ha osservato (in “Saper vedere il paesaggio”). Quali strumenti ha, a suo avviso, la società civile per difendere il paesaggio, che è come dire “difendere se stessa”?
I nuovi mezzi di comunicazione hanno stravolto i tradizionali mezzi per rendere noto, far sapere, avvisare... Milioni di fotografie si scattano, senza averlo programmato, col cellulare e si inviano. La società civile, quando i suoi componenti sanno osservare e vedere può esercitare un controllo sul territorio mai prima ipotizzabile. Sono sempre più frequenti i casi come quello che ora dirò: sulla riva orientale del lago di Como, la Tremezzina, è stata progettata una variante stradale per evitare l’eccessivo traffico di passaggio in alcuni paesi di riva. Il progetto, meritorio dal punto di vista funzionale, ben pensato per alcuni tratti in galleria, distrugge però alcuni luoghi di rilevante significato paesistico e culturale (da quelle parti sono ambientati gli episodi lariani della Certosa di Parma di Sthendal). Si sono sollevate, per chiedere la revisione e corretta integrazione paesistica del progetto, le associazioni nazionali Italia Nostra e FAI e alcune associazioni locali. La società civile può farsi sentire. Credo anzi che nei momenti di crisi, quando le pubbliche amministrazioni e le rappresentanze politiche ufficiali sono oberate già dalla difficoltà di gestione quotidiana, sia il momento specifico in cui la società civile deve muoversi, essere attiva e supplire anche alle carenze dei ruoli pubblici ufficiali.
Lei ha recentemente realizzato il Giardino Campagna di Palazzo Albergati, un progetto che ha recuperato i segni agrari di un parco storico. Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate nella reinterpretazione di questo territorio?
Il concorso pubblico che il nostro studio ha vinto nel 2001 per il progetto del Giardino Campagna di Palazzo Albergati ha avuto un iter lungo e faticoso nelle fasi di attuazione. Dopo una Amministrazione Comunale giovane ed entusiasta, che aveva indetto il concorso, si sono succedute amministrazioni meno interessate che non comprendevano l’incidenza regionale e nazionale che la realizzazione di un brano di paesaggio agrario storico avrebbe avuto sulla comunità locale. Le maggiori difficoltà sono state nel far comprendere le potenzialità del progetto. La reinterpretazione dei segni storici nell’organizzazione della fruizione contemporanea portano ovviamente a compromessi e adattamenti. La stessa lavorazione dei terreni che in parte sono produttivi, le potature della vite maritata, la gestione “agraria” del complesso da parte di aziende che conoscano i modi di lavorazione storici sono temi da cucire pazientemente per rendere sostenibile la gestione del parco.
All’International meeting “I Maestri del Paesaggio” di Bergamo, lei ha tenuto un seminario proprio sul Giardino Campagna. Non a caso, il tema del meeting di quest’anno è: “Il Paesaggio che nutre, le colture agrarie fanno paesaggio”. L’agricoltura sembra proprio la grande sfida dei prossimi decenni. A quali altre urgenze secondo lei dobbiamo guardare?
Il meeting dà per scontato che “le colture agrarie fanno paesaggio”: non posso che condividere questa tesi che sostengo fin dagli anni Ottanta. In Italia, dal paesaggio agrario possiamo trarre infiniti temi di progettazione paesistica. Quali sono le ulteriori urgenze? L’educazione e la cultura: bisogna divulgare la conoscenza che il paesaggio agrario del Bel Paese è stato un immenso patrimonio culturale, aspetto sostanziale dell’ammirazione per l’Italia da parte dei viaggiatori del Grand Tour. Ma soprattutto bisogna convincere che i luoghi dove abitiamo sono ancora la nostra vita, che le stratificazioni dei segni di una storia millenaria sono la principale risorsa del futuro. Le cose da vedere e conoscere ci sono, bisogna educare alla felicità delle variazioni di luce di ogni concreta giornata di sole o di pioggia, alla sorpresa per il ciclico ritorno delle stagioni, alla memoria che evocano i profumi di ogni fioritura e gli odori delle foglie macerate nell’umidità dell’autunno. Forse l’urgenza più grande è il bisogno di poeti che sappiano raccontarci le meraviglie che ci stanno intorno.