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ECONOMIA

La proposta porterebbe un gettito di 2-3 miliardi di euro

Digital Tax. Dopo l'annuncio di Renzi divampano le polemiche

La 'digital tax' è la proposta di istituire una tassa sui redditi prodotti in Europa dalle grandi aziende tech (e non solo). Una questione più volte affrontata dall'Unione europea e oggetto di studio anche da parte dell'Ocse. E il modello proposto dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sembra essere proprio quello che adotterà l'Italia dal 2017

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"La digital tax sarà legge in Italia dal primo gennaio 2017", ha annunciato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Dopo aver atteso per due anni una legge europea, il presidente del Consiglio ha ritenuto che l'Italia può cominciare da sola. Le reazioni, anche molto polemiche, non si sono fatte attendere.

La digital tax “avrà risultati solo di facciata” perché destinata a soccombere davanti “ai trattati bilaterali contro le doppie imposizioni”, ha detto Dario Stevanato (@d_stevanato), professore di diritto tributario dell'Università di Trieste e uno degli autori di giustiziafiscale.com. “Non si può risolvere un problema di fiscalità internazionale esclusivamente attraverso soluzioni domestiche, poiché queste rischiano di rivelarsi un'arma spuntata”.


Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria di
Palazzo Madama (su Twitter @vado_al_massimo), ha condiviso sul suo blog:
"Se non è zuppa è pan bagnato: si fa pagare l'imposta dove si realizza materialmente il ricavo e non dove si manda online la fattura. Palazzo Chigi giustifica la benevolenza mostrata finora verso gli elusori di lusso (Google, Apple, Amazon, Facebook, ma anche Ryanair e così via) con l'attesa di una norma europea. E ancora intende pazientare per i primi sei mesi del 2016".


 
Tempo perso 
“Abbiamo sempre sostenuto che è giusto tassare chi genera profitti nel nostro Paese ma è necessario farlo in una cornice europea. Cosa ha fatto Renzi durante il
semestre di presidenza del Consiglio Ue?  Niente di niente tranne i soliti annunci”, afferma una dichiarazione dei deputati del M5S in commissione Trasporti. Mentre torna sull’argomento sempre via Twitter Francesco Boccia (@F-Boccia), presidente della commissione Bilancio, ideatore nel 2012 della cosiddetta 'webtax':
 "Il punto non è se chiamarla web tax, digital tax o equal tax ma trovare il modo di far pagare alle aziende della cosiddetta economia digitale le imposte nel paese in cui fanno business"


 
Professori e giornalisti 
Sempre su Twitter si è sviluppata una accesa conversazione iniziata dal professor Carlo Alberto Carnevale Maffè (@carloalberto), della School of Management dell’Università Bocconi:


 
Le risposte e retweet a questa presa di posizione hanno coinvolto il deputato di Scelta civica Stefano Quintarelli (@quinta) (tra gli autori della proposta di digital tax), l’avvocato ed esperto in diritto di internet Carlo Piana (@carlopiana), con pareri (per lo più negativi sulla digital tax) dei giornalisti Massimo Russo (@massimo_russo)

e Oscar Giannino (@OGiannino)


 

Le tasse si pagano dove le transazioni avvengono
La 'digital tax' annunciata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi è "la misura messa a punto a giugno da Scelta civica", ha chiarito il sottosegretario all'Economia e segretario del partito, Enrico Zanetti. La proposta, che "non rappresenta l'introduzione di una nuova tassa", prevede l'assoggettamento al regime fiscale italiano per i soggetti non residenti che realizzano transazioni finanziarie digitali con una continuità di sei mesi ed un fatturato pari ad almeno 5 milioni. In alternativa, ha spiegato Zanetti, il soggetto "diventa residente in Italia ed è assoggettato ad una ritenuta alla fonte sulle transazioni del 25%".

Intanto, facciamolo
Scelta civica stima un gettito da 2-3 miliardi.  Primo firmatario della proposta è Stefano Quintarelli di Scelta civica, che su Formiche.net ha specificato: “Non si tratta di una tassa, ma di un meccanismo anti elusivo. La mia proposta prevede inoltre che sui pagamenti a favore delle multinazionali con sede all’estero si applichi una ritenuta alla fonte del 25% operata da banche e intermediari(...). Sicuramente non sarà applicata sulle startup, ma solo su aziende con un giro d’affari superiore a una certa soglia e operanti da un certo numero di anni (...). Il nostro modello riprende quello proposto dall’Ocse  e attualmente in discussione. L’Italia può già muoversi per conto suo, perché i trattati glielo consentono, quindi non ha senso aspettare. Altri Paesi invece non possono. Di certo sarebbe un bene se ci fosse una soluzione uniforme”. Qui Stefano Quintarelli specifica alcuni dettagli:

 

Modello Ocse
L’idea degli esperti Ocse è proprio quella di impedire le pratiche di ‘profit shifting’. Una delle proposte potrebbe essere quella di chiedere a queste aziende di comunicare alle autorità le entrate delle sussidiarie presenti in tutto il mondo.        

Un piano europeo
Sulla digital tax "Renzi ha confermato l'impostazione. È un piano europeo, non avrebbe senso una visione diversa. Come dice il premier, se ci sarà una via che farà perno sui contenuti e sarà equa, l'Italia la percorrerà", ha sottolineato il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli. E l'Ue da quasi un anno aveva reso nota l’intenzione di introdurre una tassa sulle multinazionali americane, nell’ambito del piano per la realizzazione del Mercato Unico Digitale europeo.  

Le idee di Oettinger
Una precisa dichiarazione in questo senso l’ha fatto  il Commissario Ue alla Digital Economy, il tedesco Günther Oettinger, in un’intervista al Wall Street Journal del 19 gennaio 2015. Oettinger nell’intervista ha detto che al momento l’Europa è ‘perdente’ nel settore dell’Information technology ma la situazione potrebbe essere ribaltata con investimenti e un ‘level playing field’ per tutte le aziende digitali.  

“Tassare è un’opzione ma non è la soluzione decisiva“, ha commentato Oettinger. Ad una domanda se le misure avrebbero a che fare con il copyright e una cosiddetta ‘Google tax’, il Commissario Ue ha risposto affermativamente.

Riguardo alle aziende tecnologiche straniere, ha detto che “se operano sul mercato europeo, abbiamo alcuni strumenti per garantire che operino secondo le nostre regole”.  

Viene da lontano
La materia è allo studio da tempo e riguarda anche altri big della tecnologia come Apple e Facebook. Nel maggio 2014 la Commissione Ue ha proposto di rivedere la direttiva sulle sedi 'sussidiarie', allo scopo di impedire il trasferimento di profitti tra aziende e loro filiali in altri Paesi, per evadere il fisco in più Paesi. La nuova legislazione, ha spiegato l’allora commissario alla fiscalità, l’economista e matematico lituano Algirdas Semeta, "affronta un problema che esiste non solo tra i grandi nomi ma anche tra molte altre aziende che usano questi schemi per evadere le tasse".  

Il principio soddisfacente
Non è il primo tentativo in Italia: Francesco Boccia, attuale presidente della commissione Bilancio della Camera, era stato definito nel 2012 'padre della webtax'. "L'imposta entrata in vigore nel 2014 con il governo Letta fu poi cancellata dal governo Renzi appena insediatosi", ha ricordato Boccia. Che adesso è soddisfatto dell’annuncio: "Il principio richiamato questa sera da Matteo Renzi del far pagare alle aziende della cosiddetta economia digitale le imposte nel paese in cui fanno business mi soddisfa molto, perché è quello fissato nel 2013 dal Parlamento italiano che fece da ariete nel dibattito politico europeo. L'importante è superare il concetto obsoleto della 'non stabile organizzazione' e decidere se far pagare con il modello inglese le imposte dirette o con il modello europeo delle imposte indirette nel quadro europeo di armonizzazione. Personalmente, come detto più volte, preferisco il modello europeo. La politica sana ha il dovere di intervenire sulla mostruosa base imponibile erosa e far pagare alle multinazionali dell'economia digitale imposte che oggi eludono, riducendo le imposte alle imprese italiane tradizionali".

Il panino olandese con ripieno irlandese
Le società dell'informazione, a differenza di quelle che importano e muovono beni fisici, hanno una localizzazione incerta, sotto molti profili.

Quello che fanno è stipulare il contratto direttamente con la casa madre, anche se il cliente è italiano. Pertanto la fattura non viene emessa dall'Italia, ma con una società che ha sede solitamente in Irlanda e che viene considerata il luogo di stabilimento in Europa.  L'Irlanda è uno dei paesi con la tassazione applicabile più bassa, mentre l’Olanda offre possibilità di servirsi di conti offshore. Lo schema di elusione delle imposte da parte di molti gruppi multinazionali con questo sistema è noto come ‘Double Irish with Dutch Sandwich’.

Google viene utilizzato come esempio paradigmatico, ma il discorso si potrebbe fare per Microsoft, Facebook e molte altre imprese simili. I loro server sono collocati in varie parti del mondo e non è possibile stabilire un da dove un dato contenuto venga reso disponibile.

Poiché le società non hanno nessun rapporto economico con l'utente finale, sostanzialmente la localizzazione di questi servizi ha poca importanza, mentre ne ha il rapporto con i clienti del servizio di pubblicità.

Quello che si contesta è che le aziende con sede fiscale in Irlanda, Lussemburgo o Olanda, nonostante siano società autonome e con propria personalità giuridica, costituiscono una "stabile organizzazione" in italia. Pertanto ci sarebbe la mancata denuncia dei redditi prodotti sul territorio italiano, ovvero su tutti i proventi dei contratti di pubblicità raccolti con i clienti Italiani, operazioni che l'Amministrazione ritiene effettuate in Italia. Certo che se non ci fosse un livello di tassazione così diverso tra i vari paesi europei, il gioco non varrebbe la candela.

"Si chiama capitalismo"
I governi europei da tempo indagano sull'elusione fiscale delle tech company, mentre è diventata celebre un’intervista a Bloomberg nel dicembre 2012 dell’allora Ceo di Google, Eric Schmidt, in cui ha dichiarato che gli sforzi della società per aggirare le tasse sono legali. "Paghiamo un sacco di tasse; le paghiamo nei modi prescritti dalla legge", ha detto Schmidt. "Sono molto orgoglioso della struttura che abbiamo istituito. Lo abbiamo fatto sulla base degli incentivi che i governi ci offrono per operare", aggiungendo in conclusione: "Si chiama capitalismo".