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MONDO

Giordania

Zaatari, la città dei rifugiati. Tra polvere e pietre, dove vivono migliaia di siriani

Reportage dal secondo campo profughi più grande al mondo, dove vivono oltre 85mila siriani. E migliaia di bambini cercano di diventare grandi tra tende, container e la polvere del deserto

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Il campo di Zaatari, in Giordania
di Emma Farnè
Rauan sorride sempre. Quando apre la sua porta, una lastra di ferro. Quando mostra dove vive: due vani in un container, una latrina dietro a un lenzuolo per bagno, un fornello a gas per cucina. E quando racconta la sua storia: “Ho 15 anni. Sono scappata da Damasco perché ci bombardavano. Sono a Zaatari da un anno e quattro mesi. Il viaggio per arrivare qui? Non ricordo molto. Solo che ero stanca, spaventatata, avevo freddo”. Rauan è una delle migliaia tra bambini e ragazzi colpiti dalla crisi siriana ora nel suo quarto anno. Vive a Zaatari, un campo profughi di tende e container, diventato in due anni la quinta città giordana.

A Zaatari ora vivono oltre 84mila rifugiati siriani.  La metà di loro è minorenne e uno su quattro ha meno di quattro anni. Ma ha raggiunto picchi di 140mila abitanti. “Arrivavano a migliaia, di notte. Famiglie intere, moltissimi bambini. Non si fidavano di nessuno, neanche degli operatori umanitari. Avevano paura”, racconta il colonnello Abdelrahman, dell'autorità collegata col governo giordano che gestisce il campo. Ora quei bambini, e le loro famiglie, cercano di tornare alla normalità.
 
“Prima non avevamo acqua, ora le cose vanno meglio”, continua Rauan. “La mattina mi alzo alle sette, vado a scuola. Quando le lezioni finiscono, vado in un centro ricreativo. Poi ritorno a casa, mangio qualcosa e qualche volta vado alla moschea, per pregare”. A Zaatari, le ragazze come Rauan cercano di tornare a una vita normale. Nelle scuole gestite dall'Unicef  e finanziate dai fondi della Commissione Europea, i bambini recuperano gli anni persi. E nei doposcuola hanno matite, giochi, spettacoli teatrali da portare in scena. Le bambine imparano a dipingere con l'henné e non si stancano di farlo neanche sull'ennesima giornalista che va a chiedere la loro storia. Sui loro volti comunque si appoggiano le mosche, ma riappare il sorriso, di certo non dimenticano da dove vengono ma per poche ore al giorno non vedono la miseria del posto, non vivono nel caldo delle tende, tra la polvere e le pietre del deserto.

La resistenza, la voglia di avere un futuro, di tornare alla normalità. Quello che colpisce nei profughi siriani è che non si autocommiserano ma cercano di guardare avanti. Vivono in un limbo: non possono tornare in Siria ma non possono vivere regolarmente in Giordania perché il Paese non ha firmato la convenzione del 1951 sullo status da rifugiato. E le madri siriane, come prima preoccupazione hanno l'istruzione dei figli. Gli uomini invece si inventano piccole attività. “Ho comprato un container. Abbiamo iniziato a vendere biscotti. Poi, piano piano, anche il gelato. E così sono diventato gelataio. Le cose ora vanno bene”, racconta un giovane sugli Champs Elysee, la via ironicamente ribattezzata dai siriani dove i profughi possono comprare tutto quello che non trovano nelle scatole degli aiuti umanitari.
 
Chi riesce a uscire dal campo profughi ha comunque enormi difficoltà. “Me ne sono andata da Dera'a perché la mia città è stata distrutta. Dopo qualche mese a Zaatari ho trovato un piccolo appartamento. Ma mio marito non può lavorare e l'affitto qui è altissimo. Sopravviviamo con gli aiuti umanitari e con qualche lavoretto in nero”, racconta Umm Muhammad, una donna che dal suo tetto di notte vede i colpi di mortaio sulla sua città.
 
Come lei, in centinaia vivono a Ramtha, a Irbid, le città più vicine al confine siriano che hanno accolto i profughi. I bambini che vanno a scuola “hanno perso due, tre anni di istruzione. Alcuni non sanno contare, leggere, scrivere. I genitori pensavano che sarebbero tornati da un giorno all'altro, poi si sono resi conto che non è così e hanno iniziato a mandare i figli a scuola”, racconta una maestra di Ramtha. Ma le scuole giordane ora sono sovraffollate, si devono spesso fare doppi turni: la mattina i giordani, il pomeriggio i siriani. Ma tutti i bambini che si incontrano, dentro e fuori dai campi accolgono con un sorriso i visitatori. Hanno gli zainetti tutti uguali, logo dell'Unicef in arabo o inglese. Non li abbandonano mai, neanche quando si siedono tra i banchi. E poi nessuno di loro è spaventato da chi li avvicina e vogliono tutti una foto. Ridono, ridono tanto, anche se i loro vestiti sono sporchi, le scarpine rovinate e per giocare non hanno niente.
 
“Ci sono cinque milioni e mezzo di bambini colpiti dalla crisi siriana, un numero che aumenta di continuo”, spiega Simon Ingram dell'Unicef: “Hanno subito molti traumi, fisici, hanno dovuto lasciare le loro case, molti non vanno a scuola, molti si ammalano perché non hanno acqua pulita”. Un bambino su dieci invece “lavora perché le famiglie non hanno più risparmi e cercano disperatamente di sopravvivere”. Le bambine invece vengono date in spose perché i genitori non si sentono più nella condizione di proteggerle. “Se arriva un uomo che sembra onesto, sincero, pronto a prendersi cura di loro”, allora le fanno sposare, spiega ancora Ingram.
 
La crisi siriana ha colpito in tutto oltre nove milioni di persone. “Dal punto di vista umanitario, andrà avanti per molti anni e avrà effetto sulle generazioni future”, spiega la commissaria europea agli Aiuti Umanitari Kristalina Georgieva. L'Unione ha donato oltre 2,8 miliardi di euro , soldi che sono diventati scuole, accesso all'acqua, cibo. Ma ne servono molti altri, perché c'è una generazione di un intero Paese che rischia di andar perduta. Perché ci sono madri, come una di quelle che vivono a Zaatari, che avvicina le donne straniere. E chiede loro di portare in Occidente sua figlia di tre, forse quattro anni, perché lei non può più prendersene cura.