Dieci anni fa moriva Oriana Fallaci
“Sono nata a Firenze il 29 giugno 1929 da genitori fiorentini (...). Fiorentino parlo, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero quando mi chiedono a quale paese appartengo rispondo Firenze. Non Italia. Perché non è la stessa cosa”
Si descriveva così Oriana Fallaci in un articolo pubblicato sull’Europeo per rimarcare il legame mai interrotto con la sua città, e le sue origini, pur nel suo essere cittadina del mondo. Mondo che seppe raccontare sotto mille sfumature diverse ma sempre dal suo personale punto di vista. L’America dei Kennedy, la corsa allo Spazio, il Vietnam e gli orrori della guerra, la dolce vita romana e le luci di Hollywood, i profumi dell’India, l’odore di morte che avvolse New York il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle. Scrivere è ciò che aveva sempre sognato di fare. “Mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore”, sono le sue parole di bambina cresciuta in una casa piena di libri, pagati a rate dai genitori. “Due genitori molto coraggiosi, fisicamente e moralmente”, ispiratori degli ideali libertari che furono i capisaldi della sua formazione come giornalista, scrittrice, donna.
A 13 anni, col nome di battaglia di Emilia, era staffetta partigiana e attraversava l’Arno nei punti di secca a cavallo della sua bicicletta col suo carico di munizioni nascosto tra fiori e verdura perché “la libertà è un dovere prima di essere un diritto”.
Giovanissima iniziò a scrivere per Il Mattino di Firenze: cronaca nera, giudiziaria e poi articoli di costume. Celebre una sua intervista a Christian Dior, un’”intervista-lampo”, in cui già emerge il suo stile, senza mezzi termini, diretto, scomodo perché, diceva lei, “per esser buona un’intervista deve infilarsi, affondarsi, nel cuore dell’intervistato». Lo stesso stile che usò al cospetto di khomeini quando si levò il chador, dopo averlo definito “stupido cencio da medioevo”. Lo stesso con cui non risparmiò se stessa, nel 1992, malata di cancro: “Io non capisco questo pudore, questa avversione per la parola cancro, bisogna dirla questa parola”. E ancora, qualche anno più tardi in Oriana Fallaci intervista se stessa: “Come sta? Male, grazie”
Con le sue domande studiate, precise, dirette, raggiunse attori di Hollywood, politici italiani e stranieri, i potenti del mondo, quelli impossibili da intervistare,Gheddafi, Kissinger, Indira Gandhi, Golda Meir, Arafat. Eppure odiava le interviste: “Le ho sempre detestate, incominciando da quelle che facevamo ai cosiddetti potenti-della-Terra”. Da esse traeva spunto per sfamare il suo bisogno di scrivere. Così dalle sue indagini e dai suoi incontri con i grandi attori del cinema americano, nacque 'I sette peccati di Hollywood', con la prefazione firmata da Orson Welles, che la definì una Mata Hari, abile invisibile osservatrice. Dal suo reportage sulla condizione della donna in Medio Oriente, fu tratto 'Il sesso inutile' che precede 'Penelope alla guerra', primo esordio narrativo nel 1962, seguito da 'Gli antipatici' e da 'Niente e così sia', frutto della sua esperienza come prima giornalista italiana inviata in Vietnam in tempo di guerra.
Negli anni 70, famosa in tutto il mondo, Oriana Fallaci si dedicò a due libri molto intimi: 'Lettera a un bambino mai nato', scritto nel 1975, quando in Italia si discuteva dell’aborto, tradotto in 27 lingue, e 'Un uomo', 1979, dedicato a un’altra pagina dolorosa della sua vita: il suo grande amore per Alekos Panagulis, uno dei leader della resistenza greca alla dittatura dei colonnelli, morto In un incidente d’auto mai chiarito del tutto. In 'Insciallah', sul conflitto in Libano, la guerra tornò a essere protagonista.
Negli anni 90, Oriana Fallaci si trasferì a New York, “refugium peccatorum degli esiliati”. Lì, forse anche per accorciare le distanze con la sua città natale, iniziò a pensare al “Bambino”, una saga sulla sua famiglia dal 600 alla sua infanzia. Un’opera che immaginava mastodontica e alla quale dedicò quindici anni. A ostacolarla, arrivò l’Alieno, il cancro, preso, secondo lei, “sotto la nuvola nera del Kuwait”, quei pozzi di petrolio incendiati da Saddam durante la guerra del Golfo.
Dopo l’11 settembre, Oriana Fallaci inviò il suo messaggio all’Occidente e al mondo, un’invettiva che scatenò molte polemiche, un’analisi del suo modo di vedere il mondo islamico pubblicata sul Corriere della Sera che poi diventò il primo libro di una trilogia, 'La rabbia e L’orgoglio', 'La Forza della Ragione' e 'L’Apocalisse'. Il dibattito che ne seguì e il progredire della malattia la distolsero dal suo “Bambino” cui continuò a lavorare dal suo “esilio” newyorchese, senza per questo rinunciare a farsi viva di tanto in tanto con i suoi lettori. Morì il 15 settembre del 2006, nella sua Firenze, raggiunta con un volo privato qualche giorno prima. Sulla sua lapide, si legge, secondo i suoi desideri: Oriana Fallaci scrittore.
A 13 anni, col nome di battaglia di Emilia, era staffetta partigiana e attraversava l’Arno nei punti di secca a cavallo della sua bicicletta col suo carico di munizioni nascosto tra fiori e verdura perché “la libertà è un dovere prima di essere un diritto”.
Giovanissima iniziò a scrivere per Il Mattino di Firenze: cronaca nera, giudiziaria e poi articoli di costume. Celebre una sua intervista a Christian Dior, un’”intervista-lampo”, in cui già emerge il suo stile, senza mezzi termini, diretto, scomodo perché, diceva lei, “per esser buona un’intervista deve infilarsi, affondarsi, nel cuore dell’intervistato». Lo stesso stile che usò al cospetto di khomeini quando si levò il chador, dopo averlo definito “stupido cencio da medioevo”. Lo stesso con cui non risparmiò se stessa, nel 1992, malata di cancro: “Io non capisco questo pudore, questa avversione per la parola cancro, bisogna dirla questa parola”. E ancora, qualche anno più tardi in Oriana Fallaci intervista se stessa: “Come sta? Male, grazie”
Con le sue domande studiate, precise, dirette, raggiunse attori di Hollywood, politici italiani e stranieri, i potenti del mondo, quelli impossibili da intervistare,Gheddafi, Kissinger, Indira Gandhi, Golda Meir, Arafat. Eppure odiava le interviste: “Le ho sempre detestate, incominciando da quelle che facevamo ai cosiddetti potenti-della-Terra”. Da esse traeva spunto per sfamare il suo bisogno di scrivere. Così dalle sue indagini e dai suoi incontri con i grandi attori del cinema americano, nacque 'I sette peccati di Hollywood', con la prefazione firmata da Orson Welles, che la definì una Mata Hari, abile invisibile osservatrice. Dal suo reportage sulla condizione della donna in Medio Oriente, fu tratto 'Il sesso inutile' che precede 'Penelope alla guerra', primo esordio narrativo nel 1962, seguito da 'Gli antipatici' e da 'Niente e così sia', frutto della sua esperienza come prima giornalista italiana inviata in Vietnam in tempo di guerra.
Negli anni 70, famosa in tutto il mondo, Oriana Fallaci si dedicò a due libri molto intimi: 'Lettera a un bambino mai nato', scritto nel 1975, quando in Italia si discuteva dell’aborto, tradotto in 27 lingue, e 'Un uomo', 1979, dedicato a un’altra pagina dolorosa della sua vita: il suo grande amore per Alekos Panagulis, uno dei leader della resistenza greca alla dittatura dei colonnelli, morto In un incidente d’auto mai chiarito del tutto. In 'Insciallah', sul conflitto in Libano, la guerra tornò a essere protagonista.
Negli anni 90, Oriana Fallaci si trasferì a New York, “refugium peccatorum degli esiliati”. Lì, forse anche per accorciare le distanze con la sua città natale, iniziò a pensare al “Bambino”, una saga sulla sua famiglia dal 600 alla sua infanzia. Un’opera che immaginava mastodontica e alla quale dedicò quindici anni. A ostacolarla, arrivò l’Alieno, il cancro, preso, secondo lei, “sotto la nuvola nera del Kuwait”, quei pozzi di petrolio incendiati da Saddam durante la guerra del Golfo.
Dopo l’11 settembre, Oriana Fallaci inviò il suo messaggio all’Occidente e al mondo, un’invettiva che scatenò molte polemiche, un’analisi del suo modo di vedere il mondo islamico pubblicata sul Corriere della Sera che poi diventò il primo libro di una trilogia, 'La rabbia e L’orgoglio', 'La Forza della Ragione' e 'L’Apocalisse'. Il dibattito che ne seguì e il progredire della malattia la distolsero dal suo “Bambino” cui continuò a lavorare dal suo “esilio” newyorchese, senza per questo rinunciare a farsi viva di tanto in tanto con i suoi lettori. Morì il 15 settembre del 2006, nella sua Firenze, raggiunta con un volo privato qualche giorno prima. Sulla sua lapide, si legge, secondo i suoi desideri: Oriana Fallaci scrittore.