Cinquanta anni fa i Moti di Reggio Calabria che infiammarono l'Italia
Otto lunghi mesi di guerriglia che lasciarono sul campo cinque morti, 2.000 feriti, un migliaio di arresti e denunce, danni per miliardi di lire. Passarono alla storia anche per lo slogan "Boia chi molla"
Sono passati cinquant'anni dalla rivolta che infiammò Reggio Calabria e l'Italia intera, la più lunga e violenta del dopoguerra. I "Moti di Reggio", ricordati anche più semplicemente come i "Fatti di Reggio" ebbero il loro periodo più caldo da luglio 1970 a febbraio 1971: otto lunghi mesi di guerriglia che lasciarono sul campo cinque morti (il ferroviere Bruno Labate, l'autista Angelo Campanella, gli agenti Vincenzo Curigliano e Antonio Bellotti e il barista Angelo Jaconis), circa 2.000 feriti, un migliaio di arresti e denunce, danni per miliardi di lire. Oltre a una scia di eventi dalla matrice dubbia, come il deragliamento "del treno del Sole" Palermo-Torino all'altezza di Gioia Tauro il 22 luglio 1970 (6 morti e circa 60 feriti) o l'incidente stradale che provocò la morte di cinque anarchici (26 settembre 1970) su uno sfondo nel quale si è anche parlato di 'ndrangheta, servizi segreti, neofascismo.
Il "furto" del capoluogo
Tutto ebbe inizio il 5 luglio quando l'allora sindaco, Piero Battaglia (Dc), con il suo "Rapporto alla città", informò i reggini dell'accordo politico-istituzionale fatto a Roma, sull'asse Catanzaro-Cosenza, ai danni di Reggio Calabria. Al centro della questione la decisione, appoggiata da Roma, di scegliere Catanzaro come sede del capoluogo della Calabria, una decisione caldeggiata e favorita in particolare dai politici cosentini Riccardo Misasi e Giacomo Mancini, all'epoca influenti l'uno nella Dc, l'altro nel Psi, e ritenuti i veri responsabili di questo "furto del capoluogo".
Fu la scintilla di una rivolta che diventerà inarrestabile all'indomani della decisione di convocare a Catanzaro la prima seduta del neo eletto Consiglio regionale della Calabria.
"All'inizio fu solo una protesta - racconta uno dei protagonisti di quei giorni, Fortunato Aloi, ex parlamentare e dirigente del Msi - che non riuscendo a trovare un interlocutore si trasformò presto in rivolta". L'Italia in quei giorni era senza una guida. Dopo soli 131 giorni si era dimesso il III Governo Rumor e si dovette attendere il 6 agosto per avere un nuovo esecutivo, guidato dal dc Emilio Colombo, con Psi, Psdi e Pri in cui ricoprivano importanti ruoli esponenti della politica catanzarese e cosentina.
L'Italia divisa in due
La mattina del 14 luglio, un corteo spontaneo partì dal quartiere Santa Caterina. Lo guidava proprio Natino Aloi. Da sei che erano all'inizio, divennero trentamila. "Scelsi di difendere la città - spiega oggi Aloi - dal momento che tutti i partiti, nessuno escluso, per motivazioni di ordine regionale e nazionale, anche se il vero potere era concentrato tra Catanzaro e Cosenza, decisero di non pronunciarsi". E così Reggio divenne teatro di una guerriglia urbana senza precedenti.
Ci furono scioperi (19 giorni solo tra luglio e settembre), cortei, attentati dinamitardi, assalti a prefettura e questura, chiusure prolungate di uffici, negozi, scuole, poste, banche; e ancora il blocco di porto, aeroporto, navi, treni, strade e autostrade.
In piazza confluivano giovani studenti, uomini e donne, papà, mamme, nonni, ma i cortei spesso sfociavano in scontri tra manifestanti e forze dell'ordine. Ci furono barricate, con i carri armati, gli M 13, che stazionavano nelle vie principali di Reggio e un afflusso di migliaia di militari (si parlò di diecimila) in assetto antisommossa. La città divenne un campo di battaglia, anche per la "durezza" con cui le forze dell'ordine provavano a placare le proteste.
In piazza scesero Demetrio Mauro, industriale del caffè, Amedeo Matacena, armatore privato dei collegamenti navali nello Stretto, e l'ex comandante partigiano Alfredo Perna. Fu anche la rivolta delle donne. Persino la Curia, con a capo l'Arcivescovo mons. Giovanni Ferro, tra polemiche e feroci attacchi, difese la protesta per il capoluogo.
Molti quartieri si autoproclamarono indipendenti, come la 'Repubblica di Sbarre' e il 'Gran ducato di Santa Caterina', e non fu risparmiato il centro, teatro di roghi, assalti, scontri con la 'Celere' che culminarono con l'assedio e l'incendio della Questura (nell'evento morì per infarto Curigliano) e che solo grazie alla lungimiranza del questore Emilio Santillo, non si trasformarono in tragedia.
I Moti di Reggio finirono sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. "Fu una rivolta di popolo, spontanea ed interclassista", dice Aloi che assieme a Ciccio Franco, Renato Meduri e Antonio Dieni, ne fece la lotta del Msi.
Alla fine rimasero i morti, cinque, tre civili e due poliziotti, i tanti feriti, gli arresti e i processi che continuarono per anni e le oscure vicende che fecero della rivolta di Reggio del '70 una sorta di campo di addestramento di un più ampio progetto della destra eversiva, quella che voleva sovvertire l'ordine democratico, con la presenza di Junio Valerio Borghese, Franco Freda, Stefano Delle Chiaie. E i legami con oscuri settori massonici e della 'ndrangheta in un sodalizio politico-criminale con numerosi attentati, come quello che il 22 luglio 1970 fece deragliare a Gioia Tauro il treno Torino-Reggio Calabria, provocando la morte di sei persone.
I Moti di Reggio sono passati alla storia anche per il famoso slogan "Boia chi molla" e hanno visto nel sindacalista della Cisnal Ciccio Franco il leader riconosciuto. Ma era la gente a guidare la rivolta, a rivendicare diritti che sentiva svanire, a mettersi sotto il mantello di alcuni comitati (in particolare il Comitato unitario e il Comitato d'azione) di orientamento politico trasversale.
Si andò avanti fino al 1971 quando Il Governo decise di chiudere la partita con la forza, inviando a Reggio reparti dell'esercito e decine di carri armati. Arrivarono le promesse: il famoso "Pacchetto Colombo": Giunta regionale a Catanzaro, Consiglio regionale a Reggio Calabria, Università a Cosenza. E ancora: promessa alla città di Reggio della costruzione del centro siderurgico a Gioia Tauro e uno stabilimento della Liquilchimica a Saline Joniche (operativa solo per pochi mesi) con il miraggio di migliaia di posti di lavoro. Il tutto è rimasto negli anni solo un bel progetto mai realizzato.
Il "furto" del capoluogo
Tutto ebbe inizio il 5 luglio quando l'allora sindaco, Piero Battaglia (Dc), con il suo "Rapporto alla città", informò i reggini dell'accordo politico-istituzionale fatto a Roma, sull'asse Catanzaro-Cosenza, ai danni di Reggio Calabria. Al centro della questione la decisione, appoggiata da Roma, di scegliere Catanzaro come sede del capoluogo della Calabria, una decisione caldeggiata e favorita in particolare dai politici cosentini Riccardo Misasi e Giacomo Mancini, all'epoca influenti l'uno nella Dc, l'altro nel Psi, e ritenuti i veri responsabili di questo "furto del capoluogo".
Fu la scintilla di una rivolta che diventerà inarrestabile all'indomani della decisione di convocare a Catanzaro la prima seduta del neo eletto Consiglio regionale della Calabria.
"All'inizio fu solo una protesta - racconta uno dei protagonisti di quei giorni, Fortunato Aloi, ex parlamentare e dirigente del Msi - che non riuscendo a trovare un interlocutore si trasformò presto in rivolta". L'Italia in quei giorni era senza una guida. Dopo soli 131 giorni si era dimesso il III Governo Rumor e si dovette attendere il 6 agosto per avere un nuovo esecutivo, guidato dal dc Emilio Colombo, con Psi, Psdi e Pri in cui ricoprivano importanti ruoli esponenti della politica catanzarese e cosentina.
L'Italia divisa in due
La mattina del 14 luglio, un corteo spontaneo partì dal quartiere Santa Caterina. Lo guidava proprio Natino Aloi. Da sei che erano all'inizio, divennero trentamila. "Scelsi di difendere la città - spiega oggi Aloi - dal momento che tutti i partiti, nessuno escluso, per motivazioni di ordine regionale e nazionale, anche se il vero potere era concentrato tra Catanzaro e Cosenza, decisero di non pronunciarsi". E così Reggio divenne teatro di una guerriglia urbana senza precedenti.
Ci furono scioperi (19 giorni solo tra luglio e settembre), cortei, attentati dinamitardi, assalti a prefettura e questura, chiusure prolungate di uffici, negozi, scuole, poste, banche; e ancora il blocco di porto, aeroporto, navi, treni, strade e autostrade.
In piazza confluivano giovani studenti, uomini e donne, papà, mamme, nonni, ma i cortei spesso sfociavano in scontri tra manifestanti e forze dell'ordine. Ci furono barricate, con i carri armati, gli M 13, che stazionavano nelle vie principali di Reggio e un afflusso di migliaia di militari (si parlò di diecimila) in assetto antisommossa. La città divenne un campo di battaglia, anche per la "durezza" con cui le forze dell'ordine provavano a placare le proteste.
In piazza scesero Demetrio Mauro, industriale del caffè, Amedeo Matacena, armatore privato dei collegamenti navali nello Stretto, e l'ex comandante partigiano Alfredo Perna. Fu anche la rivolta delle donne. Persino la Curia, con a capo l'Arcivescovo mons. Giovanni Ferro, tra polemiche e feroci attacchi, difese la protesta per il capoluogo.
Molti quartieri si autoproclamarono indipendenti, come la 'Repubblica di Sbarre' e il 'Gran ducato di Santa Caterina', e non fu risparmiato il centro, teatro di roghi, assalti, scontri con la 'Celere' che culminarono con l'assedio e l'incendio della Questura (nell'evento morì per infarto Curigliano) e che solo grazie alla lungimiranza del questore Emilio Santillo, non si trasformarono in tragedia.
I Moti di Reggio finirono sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. "Fu una rivolta di popolo, spontanea ed interclassista", dice Aloi che assieme a Ciccio Franco, Renato Meduri e Antonio Dieni, ne fece la lotta del Msi.
Alla fine rimasero i morti, cinque, tre civili e due poliziotti, i tanti feriti, gli arresti e i processi che continuarono per anni e le oscure vicende che fecero della rivolta di Reggio del '70 una sorta di campo di addestramento di un più ampio progetto della destra eversiva, quella che voleva sovvertire l'ordine democratico, con la presenza di Junio Valerio Borghese, Franco Freda, Stefano Delle Chiaie. E i legami con oscuri settori massonici e della 'ndrangheta in un sodalizio politico-criminale con numerosi attentati, come quello che il 22 luglio 1970 fece deragliare a Gioia Tauro il treno Torino-Reggio Calabria, provocando la morte di sei persone.
I Moti di Reggio sono passati alla storia anche per il famoso slogan "Boia chi molla" e hanno visto nel sindacalista della Cisnal Ciccio Franco il leader riconosciuto. Ma era la gente a guidare la rivolta, a rivendicare diritti che sentiva svanire, a mettersi sotto il mantello di alcuni comitati (in particolare il Comitato unitario e il Comitato d'azione) di orientamento politico trasversale.
Si andò avanti fino al 1971 quando Il Governo decise di chiudere la partita con la forza, inviando a Reggio reparti dell'esercito e decine di carri armati. Arrivarono le promesse: il famoso "Pacchetto Colombo": Giunta regionale a Catanzaro, Consiglio regionale a Reggio Calabria, Università a Cosenza. E ancora: promessa alla città di Reggio della costruzione del centro siderurgico a Gioia Tauro e uno stabilimento della Liquilchimica a Saline Joniche (operativa solo per pochi mesi) con il miraggio di migliaia di posti di lavoro. Il tutto è rimasto negli anni solo un bel progetto mai realizzato.