Giornata del Rifugiato. Dalla Siria allo Yemen, volti e storie di uomini in fuga
Nel mondo una persona su 97 è in fuga da conflitti, persecuzioni e violenze. Alla fine del 2019, 79,5 milioni di persone erano vittime di esodi forzati - il 40% dei quali minori - con un incremento di quasi 9 milioni rispetto al dato del 2018
Una persona su 97 nel mondo è in fuga da conflitti, persecuzioni o violenze, pari a più dell'1 per cento della popolazione mondiale. È il dato senza precedenti emerso dal rapporto annuale Global Trends pubblicato dall'Unhcr in vista della Giornata Mondiale del Rifugiato del 20 giugno. Il documento rivela che, alla fine del 2019, 79,5 milioni di persone erano vittime di esodi forzati - il 40% dei quali minori - con un incremento di quasi 9 milioni di persone rispetto al dato del 2018.
Il rapporto segnala che 100 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case negli ultimi dieci anni, in cerca di sicurezza all'interno o al di fuori dei propri Paesi. Il numero di persone in fuga è quasi raddoppiato dal 2010 alla fine del 2019 (41 milioni allora contro 79,5 milioni oggi). Il documento, inoltre, rileva come per i rifugiati sia divenuto sempre più difficoltoso porre fine in tempi rapidi alla propria condizione. Negli anni Novanta, una media di 1,5 milioni di rifugiati riusciva a fare ritorno a casa ogni anno, mentre negli ultimi dieci anni la media è crollata a circa 385.000.
Global Trends mostra che dei 79,5 milioni di persone che risultavano essere in fuga alla fine dell'anno scorso, 45,7 milioni erano sfollati all'interno dei propri Paesi. La cifra restante è composta da persone fuggite oltre confine, 4,2 milioni delle quali in attesa dell'esito della domanda di asilo, e 29,6 milioni tra rifugiati (26 milioni) e altre persone costrette alla fuga fuori dai propri Paesi. L'incremento annuale rappresenta il risultato di due fattori principali. Il primo riguarda le nuove crisi verificatesi nel 2019, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Sahel, in Yemen e in Siria, quest'ultima responsabile dell'esodo di 13,2 milioni di persone, più di un sesto del totale mondiale. Il secondo è relativo a una migliore mappatura della situazione dei venezuelani che si trovano fuori dal proprio Paese, molti non legalmente registrati come rifugiati o richiedenti asilo.
Due terzi delle persone in fuga all'estero provengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. L'Unhcr rivolge oggi un appello ai Paesi di tutto il mondo affinché si impegnino ulteriormente per dare protezione a milioni di rifugiati e altre persone in fuga.
"Siamo testimoni di una realtà nuova che ci dimostra come gli esodi forzati,oggi, non soltanto siano largamente più diffusi, ma, inoltre,non costituiscano più un fenomeno temporaneo e a breve termine", ha dichiarato l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi. "È necessario adottare sia un atteggiamento profondamente nuovo e aperto nei confronti di tutti coloro che fuggono, sia un impulso molto più determinato volto a risolvere conflitti che proseguono per anni e che sono alla radice di immense sofferenze".
Le nuove vite di Youssef e Noureldin, rifugiati siriani
Youssef Mustafa Akil lavora in un negozio di alimentari a Beirut. Era un carpentiere a Idlib, in Siria dove è nato 22 anni fa. Aveva 14 anni quando andava in officina e pochi di più quando con la sua famiglia è scappato in Libano per sfuggire alla guerra.
Noureldin Moutaweh di anni ne ha 45 anni e viene dalla regione di Damasco dove aveva un negozio di telefonia. Adesso a Beirut ne ha uno di ferramenta che gli consente di mantenere la sua numerosa famiglia: moglie e sette figlie.
Noureldin e Youssef sono riusciti a rifarsi una vita, ma hanno perso la speranza di tornare un giorno nel loro Paese d'origine. Il 17 giugno è entrato in vigore il Caesar Act, un pacchetto di sanzioni economiche che colpisce pesantemente il governo siriano e riguarda non solo chi investe in Siria, ma qualunque scambio nei settori delle costruzioni, dell’ingegneria o dell’aviazione militare, un freno alla ricostruzione economica del Paese. Sono permesse le importazioni di alimenti essenziali e l’ingresso in Siria degli aiuti umanitari destinati alla popolazione civile ma i controlli saranno molto rigidi. I riflessi si accuseranno anche in Libano, che non solo è un canale tradizionale per il commercio e per gli investimenti in Siria, ma che da lì si rifornisce per il fabbisogno energetico.
Dalla Siria al Kurdistan
Secondo l'Unhcr sono circa 245.810 i rifugiati siriani che vivono nella regione del Kurdistan.
Nojin Adnan e suo marito Mohammad Nabhan, entrambi di 27 anni, posano per un ritratto a Erbil, la capitale della regione del Kurdistan, in Iraq. Sono di Afrin, nel nord della Siria, e sono fuggiti nel 2012 per unirsi ai peshmerga. Hanno un bambino piccolo, che rimane con i nonni quando partono per qualche operazione militare al confine siriano.
A Erbil si è stabilito anche Adnan Morad, di 62 anni, padre di quattro figli. Era un avvocato in Siria e oggi lavora per una ditta di trasporti.
Ali Shaikhi, 33 anni, mostra un'immagine di Kobane, da cui è fuggito nel 2012. La sua casa non esiste più: è stata distrutta nel 2014 durante l'occupazione dell'Isis. A Erbil, nel Kurdistan lavora come meccanico per mantenere la moglie e i suoi cinque figli. Anche Barkhodan Demir, viveva a Kobane. A Erbil fa il sarto e sa che non tornerà mai più in Siria. Lo sa anche Zaynab Khalil, 22 anni. Ne aveva dieci quando è scappata da Al-Hasakah con la sua famiglia. Vive nella casa di sua sorella a Erbil e lavora in un centro di bellezza, sette giorni alla settimana per 12 ore al giorno.
La guerra in Siria ha portato Yasser, alias Abo Aly, fino al Cairo in Egitto. Lavora in un laboratorio di gelateria, la stessa occupazione svolta a Damasco nel grande mercato della città per 25 anni.
Secondo l'Unhcr mentre alcuni rifugiati dipendono totalmente dagli aiuti internazionali attraverso le ONG, altri iniziano una nuova vita, cambiando tutto dall'occupazione, allo status sociale, per adattarsi alle loro nuove realtà.
Vite nei campi profughi
Sono sempre di più i rifugiati che vivono in contesti urbani fuori dai campi profughi. Alcune crisi sono durate così a lungo che i campi sono ormai diventati aree urbane edificate. Come è successo a Hana Khalil Emselem Edieb, 86 anni. Vive nel campo profughi palestinese di Baqaa, vicino ad Amman, in Giordania. Ha lasciato Dawaymeh, un villaggio vicino a Hebron per fuggire dalla violenza nel 1948 per trasferirsi a nella valle di Ariha in Giordania da cui è nuovamente scappata durante il conflitto arabo-israeliano del 1967. Da allora non ha mai lasciato il campo di Baqaa, ma ha conservato la chiave della sua vecchia casa nel villaggio. La sua storia è simile a quella di Layla Said Ahmed Abu Kechek, settantasette anni, originaria di Yafa, sfollata nel 1948 e poi trasferitasi in Kuwait negli anni 60 per seguire il marito. E' arrivata nel campo di Baqaa dopo la prima Guerra del Golfo. Conserva la chiave e i documenti della sua vecchia casa.
Il fornaio e la foto di casa
Nacir è arrivato in Giordania da Damasco nel 2012. In Siria frequentava una scuola alberghiera e grazie ai voti si era garantito un lavoro in una famosa catena di hotel. Dopo essersi trasferito ad Amman, ha iniziato a fare volontariato per aiutare altri rifugiati ad adattarsi alle loro nuove vite, e ha frequentato un corso di formazione specializzandosi come fornaio. Della Siria gli restano i pochi oggetti che ha portato con sé: la sua collezione di "gemelli" perché prima indossava solo camicie, monete siriane, la foto di sua madre, il passaporto e l'uniforme scolastica. Di "casa" gli mancano gli alberi che vedeva dalla sua finestra, di cui conserva gelosamente una foto.
I sarti e le mascherine
Javad, Hossein e M. Jan hanno circa trent'anni e sono rifugiati afghani in Malaysia. Si sono reinventati come sarti e il loro lavoro è stato utilissimo durante la pandemia. Secondo le stime Unhcr, dalle mani dei rifugiati impegnati nelle sartorie sono stati confezionati più di 7000 set di equipaggiamento di protezione, tra camici e mascherine, per i medici e gli infermieri degli ospedali di Kuala Lumpur.
La crisi dello Yemen: storie di chi non ha più nulla
Fathia, ha 32 anni e lava i panni circondata dai suoi figli davanti alla stanza in affitto a Sanaa, Yemen. "Io, mio marito e i nostri cinque figli, ci siamo stati trasferiti a Sanaa dopo che nel nostro villaggio nello Yemen occidentale tutto è andato distrutto a causa della guerra. Lavoravamo la terra, adesso mio marito raccoglie oggetti di plastica usati per poter pagare l'affitto (quasi 16 dollari USA)".
Anche Abdullah Deman, 19 anni, è sfollato dalla città di Hajjah nello Yemen nord-occidentale a causa della guerra che ha distrutto la sua casa. Vive nel retro di un camioncino ed è disoccupato. Come Naji, 15 anni, che vive con la famiglia sotto un ponte a Sanaa. "Avevo una casa e ora non ho più niente", dice.
Il rapporto segnala che 100 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case negli ultimi dieci anni, in cerca di sicurezza all'interno o al di fuori dei propri Paesi. Il numero di persone in fuga è quasi raddoppiato dal 2010 alla fine del 2019 (41 milioni allora contro 79,5 milioni oggi). Il documento, inoltre, rileva come per i rifugiati sia divenuto sempre più difficoltoso porre fine in tempi rapidi alla propria condizione. Negli anni Novanta, una media di 1,5 milioni di rifugiati riusciva a fare ritorno a casa ogni anno, mentre negli ultimi dieci anni la media è crollata a circa 385.000.
Global Trends mostra che dei 79,5 milioni di persone che risultavano essere in fuga alla fine dell'anno scorso, 45,7 milioni erano sfollati all'interno dei propri Paesi. La cifra restante è composta da persone fuggite oltre confine, 4,2 milioni delle quali in attesa dell'esito della domanda di asilo, e 29,6 milioni tra rifugiati (26 milioni) e altre persone costrette alla fuga fuori dai propri Paesi. L'incremento annuale rappresenta il risultato di due fattori principali. Il primo riguarda le nuove crisi verificatesi nel 2019, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Sahel, in Yemen e in Siria, quest'ultima responsabile dell'esodo di 13,2 milioni di persone, più di un sesto del totale mondiale. Il secondo è relativo a una migliore mappatura della situazione dei venezuelani che si trovano fuori dal proprio Paese, molti non legalmente registrati come rifugiati o richiedenti asilo.
Due terzi delle persone in fuga all'estero provengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. L'Unhcr rivolge oggi un appello ai Paesi di tutto il mondo affinché si impegnino ulteriormente per dare protezione a milioni di rifugiati e altre persone in fuga.
"Siamo testimoni di una realtà nuova che ci dimostra come gli esodi forzati,oggi, non soltanto siano largamente più diffusi, ma, inoltre,non costituiscano più un fenomeno temporaneo e a breve termine", ha dichiarato l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi. "È necessario adottare sia un atteggiamento profondamente nuovo e aperto nei confronti di tutti coloro che fuggono, sia un impulso molto più determinato volto a risolvere conflitti che proseguono per anni e che sono alla radice di immense sofferenze".
Le nuove vite di Youssef e Noureldin, rifugiati siriani
Youssef Mustafa Akil lavora in un negozio di alimentari a Beirut. Era un carpentiere a Idlib, in Siria dove è nato 22 anni fa. Aveva 14 anni quando andava in officina e pochi di più quando con la sua famiglia è scappato in Libano per sfuggire alla guerra.
Noureldin Moutaweh di anni ne ha 45 anni e viene dalla regione di Damasco dove aveva un negozio di telefonia. Adesso a Beirut ne ha uno di ferramenta che gli consente di mantenere la sua numerosa famiglia: moglie e sette figlie.
Noureldin e Youssef sono riusciti a rifarsi una vita, ma hanno perso la speranza di tornare un giorno nel loro Paese d'origine. Il 17 giugno è entrato in vigore il Caesar Act, un pacchetto di sanzioni economiche che colpisce pesantemente il governo siriano e riguarda non solo chi investe in Siria, ma qualunque scambio nei settori delle costruzioni, dell’ingegneria o dell’aviazione militare, un freno alla ricostruzione economica del Paese. Sono permesse le importazioni di alimenti essenziali e l’ingresso in Siria degli aiuti umanitari destinati alla popolazione civile ma i controlli saranno molto rigidi. I riflessi si accuseranno anche in Libano, che non solo è un canale tradizionale per il commercio e per gli investimenti in Siria, ma che da lì si rifornisce per il fabbisogno energetico.
Dalla Siria al Kurdistan
Secondo l'Unhcr sono circa 245.810 i rifugiati siriani che vivono nella regione del Kurdistan.
Nojin Adnan e suo marito Mohammad Nabhan, entrambi di 27 anni, posano per un ritratto a Erbil, la capitale della regione del Kurdistan, in Iraq. Sono di Afrin, nel nord della Siria, e sono fuggiti nel 2012 per unirsi ai peshmerga. Hanno un bambino piccolo, che rimane con i nonni quando partono per qualche operazione militare al confine siriano.
A Erbil si è stabilito anche Adnan Morad, di 62 anni, padre di quattro figli. Era un avvocato in Siria e oggi lavora per una ditta di trasporti.
Ali Shaikhi, 33 anni, mostra un'immagine di Kobane, da cui è fuggito nel 2012. La sua casa non esiste più: è stata distrutta nel 2014 durante l'occupazione dell'Isis. A Erbil, nel Kurdistan lavora come meccanico per mantenere la moglie e i suoi cinque figli. Anche Barkhodan Demir, viveva a Kobane. A Erbil fa il sarto e sa che non tornerà mai più in Siria. Lo sa anche Zaynab Khalil, 22 anni. Ne aveva dieci quando è scappata da Al-Hasakah con la sua famiglia. Vive nella casa di sua sorella a Erbil e lavora in un centro di bellezza, sette giorni alla settimana per 12 ore al giorno.
La guerra in Siria ha portato Yasser, alias Abo Aly, fino al Cairo in Egitto. Lavora in un laboratorio di gelateria, la stessa occupazione svolta a Damasco nel grande mercato della città per 25 anni.
Secondo l'Unhcr mentre alcuni rifugiati dipendono totalmente dagli aiuti internazionali attraverso le ONG, altri iniziano una nuova vita, cambiando tutto dall'occupazione, allo status sociale, per adattarsi alle loro nuove realtà.
Vite nei campi profughi
Sono sempre di più i rifugiati che vivono in contesti urbani fuori dai campi profughi. Alcune crisi sono durate così a lungo che i campi sono ormai diventati aree urbane edificate. Come è successo a Hana Khalil Emselem Edieb, 86 anni. Vive nel campo profughi palestinese di Baqaa, vicino ad Amman, in Giordania. Ha lasciato Dawaymeh, un villaggio vicino a Hebron per fuggire dalla violenza nel 1948 per trasferirsi a nella valle di Ariha in Giordania da cui è nuovamente scappata durante il conflitto arabo-israeliano del 1967. Da allora non ha mai lasciato il campo di Baqaa, ma ha conservato la chiave della sua vecchia casa nel villaggio. La sua storia è simile a quella di Layla Said Ahmed Abu Kechek, settantasette anni, originaria di Yafa, sfollata nel 1948 e poi trasferitasi in Kuwait negli anni 60 per seguire il marito. E' arrivata nel campo di Baqaa dopo la prima Guerra del Golfo. Conserva la chiave e i documenti della sua vecchia casa.
Il fornaio e la foto di casa
Nacir è arrivato in Giordania da Damasco nel 2012. In Siria frequentava una scuola alberghiera e grazie ai voti si era garantito un lavoro in una famosa catena di hotel. Dopo essersi trasferito ad Amman, ha iniziato a fare volontariato per aiutare altri rifugiati ad adattarsi alle loro nuove vite, e ha frequentato un corso di formazione specializzandosi come fornaio. Della Siria gli restano i pochi oggetti che ha portato con sé: la sua collezione di "gemelli" perché prima indossava solo camicie, monete siriane, la foto di sua madre, il passaporto e l'uniforme scolastica. Di "casa" gli mancano gli alberi che vedeva dalla sua finestra, di cui conserva gelosamente una foto.
I sarti e le mascherine
Javad, Hossein e M. Jan hanno circa trent'anni e sono rifugiati afghani in Malaysia. Si sono reinventati come sarti e il loro lavoro è stato utilissimo durante la pandemia. Secondo le stime Unhcr, dalle mani dei rifugiati impegnati nelle sartorie sono stati confezionati più di 7000 set di equipaggiamento di protezione, tra camici e mascherine, per i medici e gli infermieri degli ospedali di Kuala Lumpur.
La crisi dello Yemen: storie di chi non ha più nulla
Fathia, ha 32 anni e lava i panni circondata dai suoi figli davanti alla stanza in affitto a Sanaa, Yemen. "Io, mio marito e i nostri cinque figli, ci siamo stati trasferiti a Sanaa dopo che nel nostro villaggio nello Yemen occidentale tutto è andato distrutto a causa della guerra. Lavoravamo la terra, adesso mio marito raccoglie oggetti di plastica usati per poter pagare l'affitto (quasi 16 dollari USA)".
Anche Abdullah Deman, 19 anni, è sfollato dalla città di Hajjah nello Yemen nord-occidentale a causa della guerra che ha distrutto la sua casa. Vive nel retro di un camioncino ed è disoccupato. Come Naji, 15 anni, che vive con la famiglia sotto un ponte a Sanaa. "Avevo una casa e ora non ho più niente", dice.