I 70 anni di Pedro Almodovar. La vita, le muse, i film dell'icona del cinema spagnolo
Le sue pellicole incentrate sulla critica sociale, sull'omosessualità e sull'amore in ogni sua forma sono un racconto, sempre ironico, di drammi contemporanei
Compie 70 anni il regista Pedro Almodovar amato da pubblico e critica per i suoi film che narrano le provocazioni, l'amore in ogni sua forma, la forza, il coraggio e la personalità della vita ai margini della società. La sua opera, dopo un'iniziale diffidenza, è finita col diventare simbolo della cinematografia spagnola. In una carriera quasi quarantennale Almodovar ha vinto di tutto. Due Oscar, due golden globe, miglior regia e migliore sceneggiatura a Cannes, il premio Osella e il Leone d'oro alla carriera a Venezia, cinque premi Bafta, due Cesar, numerosi Goya e due David di Donatello.
Chiamato "il regista delle donne", per le capacità di racconto e immedesimazione, ha anche un folto numero di collaboratrici fisse chiamate le "Chicas Almodovar". Se il suo "attore preferito" è Antonio Banderas apparso in 8 pellicole così come Chus Lampreave, le muse di Almodovar sono Carmen Maura (7 film), Cecilia Roth (7), Rossy de Palma (7), Penelope Cruz (6), Julieta Serrano (6), Kiti Manver (5), Fabio MacNamara (5), Marisa Paredes (5), Eva Silva (5), Victoria Abril (4), Lola Duenas (4), Lupe Barrado (4), Bibiana Fernandez (Bibi Andersen) (4), Loles Leon (3) and Javier Camara (3).
Le sue pellicole incentrate sulla critica sociale, sull'omosessualità e sull'amore in ogni sua forma, sono un racconto, sempre ironico, di drammi contemporanei. Quando a Venezia ha ricevuto nel 2019 il Leone d'Oro alla carriera, Alberto Barbera, il direttore artistico della Mostra del Cinema, ha detto: "Almodovar non è solo il più grande e influente regista spagnolo dopo Bunuel, ma l'autore che è stato capace di offrire della Spagna post-franchista il ritratto più articolato, controverso e provocatorio. I temi della trasgressione, del desiderio e dell'identità sono il terreno d'elezione dei suoi lavori, intrisi di corrosivo umorismo e ammantati di uno splendore visivo che conferisce inediti bagliori all'estetica e alla pop-art a cui si rifa' esplicitamente".
Eppure la prima pellicola di Almodovar, "Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio" fu attaccata duramente in Spagna nel 1980, anno della sua uscita, e in America - nel 1992 - quando fu proiettata negli Stati Uniti. Il New York Times la bollò come "commedia non divertente" capace di far ridere solo grazie alle "battute da bagno, umorismo volgare molto adolescenziale". Il film però divenne un cult negli anni per il modo in cui Almodovar riuscì a tratteggiare la movida madrilena. Il secondo lavoro "Labirinto di passioni" fu accolto anche peggio, ma già conteneva il seme della grande poetica del regista. "L'indiscreto fascino del peccato" fu rifiutato a Cannes per la sua lettura sacrilega della religione - Almodovar si è sempre dichiarato ateo -.
La critica cominciò ad apprezzarlo dopo il film "Che ho fatto io per meritare questo?" del 1984, anche se pellicole a tematica esplicitamente omosessuale, quasi provocatorie, come "La legge del desiderio" del 1987 sembravano segnare un distacco incolmabile tra Almodovar e i critici. Nel 1988, arrivò come un fulmine a ciel sereno "Donne sull'orlo di una crisi di nervi", che fece si' che il rapporto tra Almodovar e la critica si capovolgesse completamente. Il film gli valse la prima nomination agli Oscar e l'ascesa nell'Olimpo del Cinema iniziò con la proiezione del film alla 45esima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. La pellicola fu premiata per la migliore sceneggiatura, ma non con il Leone d'Oro malgrado sia Sergio Leone che Lina Wertmuller spingessero per la sua vittoria finale: "Li incontrai al Lido e si congratularono con me: "È importante che film come il tuo passino a Venezia", mi dissero. Fu un episodio che mi fece molto piacere", ha raccontato il regista durante l'ultima mostra del cinema e, ha aggiunto: "Il fatto che mi venga conferito il Leone d'Oro alla carriera 31 anni dopo è un'emozione speciale e un atto di giustizia politica".
La prima statuetta arrivò con "Tutto su mia madre" del 1999, capolavoro dedicato "A Bette Davis, Gena Rowlands, Romy Schneider. A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere madri. A mia madre". Il film gli valse una sfilza di riconoscimenti. Almodovcar lo descrive come una rappresentazione della "normalità di fine secolo che va guardata non con tolleranza, ma con naturalezza. La tolleranza implica un giudizio morale imposto da fedi politiche o sociali. La naturalezza, invece, riflette semplicemente la normalità". Secondo Oscar nel 2003 con "Parla con lei", migliore sceneggiatura originale per l'Accademy e un nuovo giro dei festival per il regista di La Mancha.
Dagli anni '80 a Dolor y Gloria
Il cinema di Almodovar nei primi anni '80 è il simbolo della rinascita spagnola dopo il lungo oscurantismo dell'epoca del caudillo Franco. Nel giovane regista vivono gli echi anarchici del surrealista Bunuel e il fiero spirito libertario di Carlos Saura; ma ci sono anche i fantasmi di Fellini, l'irridente scandalo di Bigas Luna, la vivacità della macchina da presa imparata sui testi della Nouvelle Vague e l'originalità espressiva con cui Fassbinder aveva sdoganato il difficile tema dell'omosessualità sullo schermo. Almodovar ha attraversato tutti i linguaggi e gli stili del cinema, eccellendo nella commedia, nel melodramma con scorribande anche attraverso il noir e l'erotico. Con "Dolor y Gloria" ha regalato al suo pubblico una sorta di bilancio di vita a cuore aperto, mettendo in scena il suo alter ego "felliniano" (Antonio Banderas) nel ruolo di un regista alle prese con la crisi della mezza età e i molti pentimenti per la sua vita personale. Con gli anni la provocazione si è fatta meditazione, l'ironia si è mutata in compassione per le debolezze del corpo e della mente, l'autobiografia è diventata linguaggio. Ma lo stile è rimasto intatto ed è il suo marchio di fabbrica, che si coglie in ogni inquadratura, in ogni espressione, in ogni cromatismo.
Chiamato "il regista delle donne", per le capacità di racconto e immedesimazione, ha anche un folto numero di collaboratrici fisse chiamate le "Chicas Almodovar". Se il suo "attore preferito" è Antonio Banderas apparso in 8 pellicole così come Chus Lampreave, le muse di Almodovar sono Carmen Maura (7 film), Cecilia Roth (7), Rossy de Palma (7), Penelope Cruz (6), Julieta Serrano (6), Kiti Manver (5), Fabio MacNamara (5), Marisa Paredes (5), Eva Silva (5), Victoria Abril (4), Lola Duenas (4), Lupe Barrado (4), Bibiana Fernandez (Bibi Andersen) (4), Loles Leon (3) and Javier Camara (3).
Le sue pellicole incentrate sulla critica sociale, sull'omosessualità e sull'amore in ogni sua forma, sono un racconto, sempre ironico, di drammi contemporanei. Quando a Venezia ha ricevuto nel 2019 il Leone d'Oro alla carriera, Alberto Barbera, il direttore artistico della Mostra del Cinema, ha detto: "Almodovar non è solo il più grande e influente regista spagnolo dopo Bunuel, ma l'autore che è stato capace di offrire della Spagna post-franchista il ritratto più articolato, controverso e provocatorio. I temi della trasgressione, del desiderio e dell'identità sono il terreno d'elezione dei suoi lavori, intrisi di corrosivo umorismo e ammantati di uno splendore visivo che conferisce inediti bagliori all'estetica e alla pop-art a cui si rifa' esplicitamente".
Eppure la prima pellicola di Almodovar, "Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio" fu attaccata duramente in Spagna nel 1980, anno della sua uscita, e in America - nel 1992 - quando fu proiettata negli Stati Uniti. Il New York Times la bollò come "commedia non divertente" capace di far ridere solo grazie alle "battute da bagno, umorismo volgare molto adolescenziale". Il film però divenne un cult negli anni per il modo in cui Almodovar riuscì a tratteggiare la movida madrilena. Il secondo lavoro "Labirinto di passioni" fu accolto anche peggio, ma già conteneva il seme della grande poetica del regista. "L'indiscreto fascino del peccato" fu rifiutato a Cannes per la sua lettura sacrilega della religione - Almodovar si è sempre dichiarato ateo -.
La critica cominciò ad apprezzarlo dopo il film "Che ho fatto io per meritare questo?" del 1984, anche se pellicole a tematica esplicitamente omosessuale, quasi provocatorie, come "La legge del desiderio" del 1987 sembravano segnare un distacco incolmabile tra Almodovar e i critici. Nel 1988, arrivò come un fulmine a ciel sereno "Donne sull'orlo di una crisi di nervi", che fece si' che il rapporto tra Almodovar e la critica si capovolgesse completamente. Il film gli valse la prima nomination agli Oscar e l'ascesa nell'Olimpo del Cinema iniziò con la proiezione del film alla 45esima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. La pellicola fu premiata per la migliore sceneggiatura, ma non con il Leone d'Oro malgrado sia Sergio Leone che Lina Wertmuller spingessero per la sua vittoria finale: "Li incontrai al Lido e si congratularono con me: "È importante che film come il tuo passino a Venezia", mi dissero. Fu un episodio che mi fece molto piacere", ha raccontato il regista durante l'ultima mostra del cinema e, ha aggiunto: "Il fatto che mi venga conferito il Leone d'Oro alla carriera 31 anni dopo è un'emozione speciale e un atto di giustizia politica".
La prima statuetta arrivò con "Tutto su mia madre" del 1999, capolavoro dedicato "A Bette Davis, Gena Rowlands, Romy Schneider. A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere madri. A mia madre". Il film gli valse una sfilza di riconoscimenti. Almodovcar lo descrive come una rappresentazione della "normalità di fine secolo che va guardata non con tolleranza, ma con naturalezza. La tolleranza implica un giudizio morale imposto da fedi politiche o sociali. La naturalezza, invece, riflette semplicemente la normalità". Secondo Oscar nel 2003 con "Parla con lei", migliore sceneggiatura originale per l'Accademy e un nuovo giro dei festival per il regista di La Mancha.
Dagli anni '80 a Dolor y Gloria
Il cinema di Almodovar nei primi anni '80 è il simbolo della rinascita spagnola dopo il lungo oscurantismo dell'epoca del caudillo Franco. Nel giovane regista vivono gli echi anarchici del surrealista Bunuel e il fiero spirito libertario di Carlos Saura; ma ci sono anche i fantasmi di Fellini, l'irridente scandalo di Bigas Luna, la vivacità della macchina da presa imparata sui testi della Nouvelle Vague e l'originalità espressiva con cui Fassbinder aveva sdoganato il difficile tema dell'omosessualità sullo schermo. Almodovar ha attraversato tutti i linguaggi e gli stili del cinema, eccellendo nella commedia, nel melodramma con scorribande anche attraverso il noir e l'erotico. Con "Dolor y Gloria" ha regalato al suo pubblico una sorta di bilancio di vita a cuore aperto, mettendo in scena il suo alter ego "felliniano" (Antonio Banderas) nel ruolo di un regista alle prese con la crisi della mezza età e i molti pentimenti per la sua vita personale. Con gli anni la provocazione si è fatta meditazione, l'ironia si è mutata in compassione per le debolezze del corpo e della mente, l'autobiografia è diventata linguaggio. Ma lo stile è rimasto intatto ed è il suo marchio di fabbrica, che si coglie in ogni inquadratura, in ogni espressione, in ogni cromatismo.