Politiche sociali

Crisi demografica, Rosina: "La denatalità grande questione rimossa del nostro Paese"

"Segnale positivo dall'Assegno unico", dice il professore ordinario di Demografia all’Università Cattolica di Milano. E sul record di giovani che in Italia non studiano e non lavorano: "Cambiare strategia di sviluppo, serve un piano"

Crisi demografica, Rosina: "La denatalità grande questione rimossa del nostro Paese"
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Neonati, culla, nido , nascite

“L’Italia è uno dei paesi in cui la fecondità da più lungo tempo si trova su valori particolarmente bassi. Da oltre 35 anni il numero medio di figli per donna è sotto 1,5, quindi molto sotto la soglia di 2 che consente un adeguato equilibrio tra generazioni”. La conseguenza? “Il nostro paese è stato il primo al mondo in cui gli under 15 sono diventati di meno degli over 65”. È questo l’incipit con cui Alessandro Rosina, ordinario di Demografia all’Università Cattolica di Milano e autore del libro Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere, (Vita e Pensiero, 2022), comincia a rispondere alle domande su come e perché l’inverno demografico stia diventando un tema urgente nel nostro paese.

“I nuovi nati sono circa 550 mila in meno degli attuali 50enni, 350 mila in meno dei 65enni, 100 mila in meno degli 80enni”, sottolinea Rosina, snocciolando numeri. “Va poi considerato che la denatalità tende ad autoalimentarsi innescando un processo di avvitamento continuo verso il basso: le poche nascite passate riducono la popolazione oggi, nell’età in cui si forma una propria famiglia, con conseguente riduzione sulle nascite future”.

 Lei scrive che entro il 2050 la popolazione in età attiva potrebbe ridursi di oltre 8 milioni di persone. Quali sarebbero gli effetti sul sistema di welfare pubblico e quale impatto economico e sociale?

“La denatalità va progressivamente ad erodere la componente attiva che nel paese produce ricchezza e che consente di finanziare e far funzionare il sistema di welfare pubblico. La carenza di risorse, come conseguenza di più debole crescita e maggior spesa per le voci che riguardano le generazioni anziane, può rendere meno generosi gli investimenti verso le nuove generazioni - formazione, welfare attivo, strumenti di autonomia e politiche familiari - tanto più in un paese con alto debito pubblico. La crisi rischia, quindi, di vincolare progressivamente il paese in un percorso di basso sviluppo, basse opportunità e basso benessere”.

Papa Francesco ne ha parlato durante l'Angelus, il Presidente Mattarella affronta la questione anche in occasione del suo discorso di fine anno, definendo l’inverno demografico "uno degli aspetti più preoccupanti della nostra società". Eppure dalla politica e dai media l'argomento è trattato tiepidamente. Qualche annuncio a ridosso dell'uscita dei dati Istat, poi il silenzio. Perché?

 “È la grande questione rimossa del nostro Paese. Quando escono i dati Istat sulle nascite in continua riduzione non mancano i titoli di forte preoccupazione sui media, ma dal giorno dopo il tema scivola sistematicamente ai margini del dibattito pubblico. La politica italiana, più che negli altri paesi con cui ci confrontiamo, ha uno sguardo corto, che fatica ad andar oltre il consenso da ottenere nelle prossime elezioni”.

 Si fanno calcoli di breve periodo?

“C’è la convinzione che le misure che riguardano la demografia non producono risultati immediati spendibili. Questo però è vero solo in parte. Ad esempio, le misure che rafforzano l’autonomia e l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro hanno ricadute di breve periodo sull’occupazione dei giovani oltre che favorire la formazione di nuovi nuclei familiari e quindi la natalità, che a sua volta riduce gli squilibri futuri. Lo stesso vale per le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia, come gli asili nido, che favoriscono nell’immediato l’occupazione delle donne con figli ma anche la scelta di avere figli per le donne occupate. Questa combinazione tra sguardo temporale corto, bassa consapevolezza dell’importanza delle politiche familiari per lo sviluppo del paese, marginalità delle politiche per i giovani e le donne, ha portato gli squilibri demografici a diventare sempre più gravi fino quasi a considerali un destino ineluttabile e a generare nell’opinione pubblica un senso di impotenza e rassegnazione”.

 Nel suo recente saggio lei parla delle politiche necessarie a un paese che, demograficamente, è in declino. Di queste politiche c'è stata almeno qualche traccia negli ultimi anni?

 “È un dato di fatto che negli ultimi decenni, compresi gli anni precedente la pandemia, l’Italia sia stata uno dei paesi sviluppati che meno hanno messo in campo politiche efficaci per sostenere le famiglie nella scelta di avere e allevare un figlio. Quello che ci distingue dal resto d’Europa non è un più basso numero di figli desiderato, ma il divario tra tale numero e quello effettivamente realizzato. Per ridurre tale divario è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori in Europa a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche da realizzare dal 2022 in poi. Per riuscirci serve la migliore combinazione tra l’uso delle risorse di Next generation Eu, l’attuazione delle misure integrate previste nel Family act, un clima del paese che torni ad essere positivo e incoraggiante verso le scelte del presente che impegnano positivamente verso il futuro”.

 La crisi demografica diventerà uno dei primi punti di un futuro programma di governo?

“In realtà nelle campagne elettorali il tema demografico, delle politiche familiari, come quello della condizione dei giovani, non è mai mancato. Quello che troppo spesso è mancato è l’impegno concreto poi a passare dalle promesse generiche alla realizzazione concreta di politiche efficaci. Ma è anche vero che la consapevolezza negli ultimi anni è aumentata su questi temi e non è più possibile per la politica limitarsi a promettere. Inoltre, il consenso unanime ottenuto in Parlamento alla legge che istituisce l’assegno unico e universale va considerato un segnale positivo. Per la sfida che la crisi demografica pone è necessario che le misure da mettere in atto siano considerate priorità condivise, realizzate e continuamente migliorate, da chiunque avrà la responsabilità di guidare il paese”.

 Che ne pensa dell'Assegno universale?

“L’Assegno unico e universale è senz’altro una delle principali novità positive sul fronte delle politiche italiane. Se è vero che i trasferimenti monetari non possono essere considerati, di per sé, il motivo che porta ad avere un figlio, è altrettanto vero che quando sono ben mirati e commisurati aiutano a ridurre l’incertezza nel processo decisionale di chi desidera averlo. Il successo di questa importante misura dipenderà molto da come la misura verrà effettivamente implementata, via via rafforzata nel tempo e integrata con le altre misure previste dal Family act”.

 E degli investimenti attesi nel Pnrr, impressioni?

“Uno dei limiti del Pnrr è l’assenza del riconoscimento degli squilibri demografici come una delle sfide principali che il paese deve affrontare. Transizione demografica, transizione digitale e transizione verde devono essere affrontate con una visione sistemica e in modo integrato. Pensare di rafforzare l’infrastruttura tecnologica senza potenziare l’infrastruttura sociale del paese rischia di rendere debole la nuova fase di sviluppo nel post pandemia. Va però accolta positivamente la scelta di investire sui servizi per l’infanzia, sia come strumento educativo che di conciliazione tra lavoro e famiglia. Il target posto dall’Unione europea era quello di raggiungere almeno il 33% di copertura nella fascia 0-2 anni nel 2010. L’Italia dieci anni dopo risulta ancora lontana, con una percentuale pari al 26%. L’obiettivo ora da porsi è iniziare un processo di rafforzamento dei nidi sul territorio italiano che porti entro il 2030 non solo ad arrivare al target del 2010, ma verso le migliori esperienze europee anche su questo fronte. Francia e Svezia presentano una copertura superiore al 50%”.

C'è un neologismo, "degiovanimento", che ha coniato per raccontare la perdita di cambiamento e di crescita.

“L’Italia, più di altri paesi, sta vivendo un inedito e profondo processo di “degiovanimento”, ovvero di riduzione strutturale della presenza quantitativa di giovani nella popolazione e nella società. Tale riduzione quantitativa si associa, paradossalmente, anche a un disinvestimento qualitativo pubblico, ovvero a una carenza di spazi, strumenti e opportunità, che impoveriscono i percorsi di vita dei giovani e indeboliscono il loro ruolo nei processi di cambiamento e produzione di benessere. Sulle voci che riguardano la formazione, l’orientamento, i servizi per l’impiego, le politiche abitative, ricerca, sviluppo e innovazione, da troppo tempo l’incidenza sul prodotto interno lordo risulta da decenni più bassa rispetto alla media europea. La conseguenza è un’alta percentuale di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano), una lunga dipendenza economica dalla famiglia di origine, un’età al primo figlio che risulta mediamente la più alta in Europa, una continua revisione al ribasso delle proprie scelte di vita e professionale”.

 Lei in un articolo ha ricordato che l'Italia ha il record in Europa di giovani-adulti che si trovano questa condizione - Neither in Employment or in Education or Training - non lavorano, né si formano. Cosa fare?

“Cambiare strategia di sviluppo per il paese. Al di là dei livelli attuali di disoccupazione e sottoccupazione quello che pesa ai giovani, infatti, è soprattutto il non sentirsi inseriti in processi di crescita, di essere inclusi in un percorso che nel tempo consenta di dimostrare quanto si vale e di veder riconosciuto pienamente il proprio impegno e il proprio valore. Va considerato che nel nostro paese, rispetto alle altre economie con cui ci confrontiamo, maggiore è il guadagno in termini di occupazione che si potrebbe ottenere da una migliore formazione e da un più efficiente utilizzo del capitale umano. Serve un piano, quindi, che progressivamente possa riuscire a portare almeno sulla media europea gli indicatori chiave della transizione scuola-lavoro e della valorizzazione del capitale umano dei nuovi entranti. Dobbiamo spezzare questa spirale negativa che impoverisce sia i percorsi individuali che il percorso di sviluppo della società e dare una spinta decisiva per le sorti del Paese”.