Edito da La Nave di Teseo

Il Quirinale e il “rebus” della Repubblica: intervista a Marco Damilano

Nel libro "Il Presidente" il direttore de L'Espresso compone il racconto segreto della Repubblica attraverso le battaglie intorno al Quirinale, rivela codici nascosti e congiure di Palazzo, intreccia le storie dei presidenti dal dopoguerra ad oggi

Il Quirinale e il “rebus” della Repubblica: intervista a Marco Damilano
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Marco Damilano

Marco, siamo in un mese decisivo per la politica italiana. Tra pochissimi giorni i grandi elettori si riuniranno per eleggere il Presidente della Repubblica. E il tuo libro, da poco nelle librerie, ci offre l'opportunità per riflettere sul ruolo storico politico della Presidenza della Repubblica. Una storia unica, che ha conosciuto momenti drammatici. Prima di approfondire alcuni aspetti del tuo saggio, ti chiedo: quali possibili scenari vedi in queste elezioni presidenziali? Sappiamo che la posta in gioco è altissima... 

«Manca ormai una settimana all'inizio delle votazioni. La posta in gioco più evidente è la durata della legislatura e la tenuta della maggioranza di unità nazionale: sopravviverà a un eventuale passaggio del premier Mario Draghi al Quirinale, o a una spaccatura sul presidente della Repubblica che ne indebolirebbe la funzione? Più in generale, questa elezione è importante come quella di trent'anni fa, del 1992. In quel momento drammatico, segnato dalla strage di Capaci contro Giovanni Falcone mentre il Parlamento votava, l'elezione di Oscar Luigi Scalfaro segnò un passaggio, dalla Repubblica dei partiti all'indistinta Seconda Repubblica. Oggi siamo nella stessa situazione. I partiti possono riprendere protagonismo, anche scegliendo un nome fuori dagli schieramenti com'è Draghi, o segnare il loro fallimento».

Veniamo al tuo libro. Partiamo dal primo punto: tu affermi, giustamente, pur tenendo fermo il dettato costituzionale, nelle elezioni per il Quirinale ci sono "leggi non scritte" che ogni "perfetto" candidato alla Presidenza dovrebbe conoscere e rispettare. Quali sono queste regole? Finora sono state rispettate?

«Le regole costituzionali sono molto scarne. Per essere eletti servono i due terzi dell'assemblea nelle prime tre votazioni, la maggioranza assoluta dalla quarta votazione in poi. Poi ci sono le regole non scritte. Il candidato deve rendersi invisibile, meglio se al momento del voto non occupa incarichi di primo piano. Il candidato deve contare su un sostegno trasversale. Il candidato deve essere portato da un kingmaker nei partiti. E poi ci sono le regole per eliminare il candidato dalla corsa. Regola numero uno: i complotti per l'elezione del presidente della Repubblica sono sempre trasversali. Regola numero due: si colpisce il candidato al Quirinale per azzoppare il capo-partito che lo porta. Regola numero tre: i mezzi tecnici. Nel 1964 Aldo Moro voleva fermare la candidatura di Giovanni Leone. Convocò Carlo Donat-Cattin, capo della corrente di sinistra Forze Nuove e gli disse che Leone non doveva passare. “Per come fare, esistono mezzi tecnici”, aggiunse criptico e se ne andò. “Di quali mezzi parla?”, chiesero a Donat-Cattin i suoi accompagnatori. Lui aveva capito: “I mezzi tecnici sono tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori”».

Sappiamo che nella storia delle elezioni presidenziali ci sono stati, tra i protagonisti, quelli che tu definisci "centri di pressione". Quali sono stati e che ruolo hanno giocato? Ci fai un esempio storico? 

«In epoca di guerra fredda contavano moltissimo i veti degli Usa, ma si cercava anche la simpatia dei sovietici per ingraziarsi il Pci. Era fondamentale il Vaticano. Nel 1964 ci fu un intervento diretto del papa, Paolo VI. Il papa assisteva alle elezioni in tv ed era turbato dal manifestarsi nell'aula di Montecitorio dello spettacolo dato dalla Dc, un pezzo votava per Leone, un altro per Fanfani. Due ambasciatori del Vaticano, monsignor Dell'Acqua e monsignor Franco Costa andarono a casa di Fanfani per convincerlo a ritirarsi, ma la sua reazione fu furente. “Riferite a chi vi manda che se lui continua a pretendere di insegnare a me come mi devo regolare, io verrò al Concilio a prendere la parola per insegnare come si deve dire la messa!”. Il giorno dopo l'Osservatore romano pubblicò un editoriale intitolato “L'imperativo dell'unità” in cui si faceva riferimento a votare insieme, “anche a prezzo di sacrifici e rinunce personali”. Il direttore del quotidiano vaticano Raimondo Manzini tornò da Fanfani con una lettera personale. E Fanfani si ritirò. Nel 1971 ci fu un pesante intervento della massoneria e della loggia massonica P2 per evitare che Aldo Moro diventasse presidente: la manovra riuscì».

Anche per queste elezioni vedi i "centri di Pressioni"? 

«Oggi il centro di pressione si è spostato sull'Europa e su quella che si usa chiamare comunità economico-finanziaria, rappresentata da testate prestigiose e autorevoli a livello globale come il “Financial Times” o “The Economist”. L'interesse per la stabilità dell'Italia, nel momento del PNRR è tale che questi giornali hanno preso posizione, anche se diversa: pro o contro l'ipotesi di un'elezione di Draghi al Quirinale. Un'incertezza provocata da una incomprensione sui reali poteri del presidente della Repubblica, che l'Economist ha definito cerimoniali (sbagliando), ma anche perché Draghi, arrivato in politica da alieno e quasi da commissario esterno, oggi è il vero leader dell'Europa. E chi vuole indebolire la politica o l'Europa deve indebolire Draghi. Aggiungo che anche un leader come Massimo D'Alema sta facendo una campagna agguerrita contro Draghi. Molto vicino alla Cina, ma è solo un caso».

Definisci in modo suggestivo le elezioni Presidenziali come "il Romanzo della Repubblica". Perché? 

«Perché in realtà questo romanzo non esiste. In una Repubblica povera di immaginario collettivo ci sono i grandi scrittori che si sono misurati con le storie di partito (Sciascia, Morselli, Rea, Pasolini sul Pci, ancora Sciascia sulla Dc e su Moro), ma la storia delle istituzioni è tutta da scrivere, a differenza di quanto accade ad esempio in Francia dove - da Simenon a Houllebecq - la figura del Presidente fa da sfondo a una narrazione collettiva. Nessun grande scrittore si è misurato con l'evento e sono rarissimi i romanzi che parlano del presidente della Repubblica italiano. Eppure il Romanzo della Repubblica sarebbe l'unico possibile, in un paese in cui la politica e la letteratura soffrono insieme di perdita di peso e di rappresentanza delle emozioni nazionali».

Come si è evoluta, nel corso della storia repubblicana, la figura del Presidente? Sappiamo che non è stato solo un "notaio", alcuni hanno dovuto affrontare momenti drammatici...

«Il Presidente è considerato dai costituzionalisti notaio o imperatore, maestro di corte o tribuno del popolo, garante del Sistema e fattore di accelerazione del suo cambiamento, forse della sua disgregazione. Un po' arbitro, un po' simbolo, un po' mediatore, un po' tutore (Carlo Fusaro). Una figura “elastica, sfuggente, ambigua”, secondo Sabino Cassese. “Un enigmatico coacervo di poteri non omogenei”, per Paolo Barile, "la più enigmatica e sfuggente fra le cariche pubbliche prevista in Costituzione", per Livio Paladin. Il Presidente è un enigma. L'enigma sono i suoi poteri del Presidente, nulli o infiniti. I suoi poteri sono nulli o infiniti. I settennati presidenziali rappresentano questa oscillazione. Il nulla dei poteri ritagliato per il Presidente dai partiti, quando i partiti erano tutto e consideravano l'inquilino del Colle una figura puramente rappresentativa. E l'infinito dei poteri, interni e internazionali, nella seconda parte della storia repubblicana, dal 1992 in poi, da quando i partiti sono diventati nulla e il presidente è diventato la figura centrale, con il suo potere di nominare il premier o di sciogliere (o non sciogliere) il Parlamento in modo anticipato. Un enigma che rischia di trasformarsi nel dramma della solitudine del Presidente al momento della scelta».

Ogni presidente lascia una traccia del suo cammino, cosa lascia il Presidente Mattarella? 

«Il giorno che fu eletto mi venne in mente una canzone di Franco Battiato, siciliano come lui, sulla virtù del nascondimento: “Ne abbiamo attraversate di tempeste e quante prove antiche e dure ed un aiuto chiaro. Da un'invisibile carezza di un custode”. E sperai che fosse lui l'invisibile custode delle prove successive. Così è stato. In mezzo alle fratture immateriali e quelle materiali: le faglie dei terremoti dell’Italia centrale, tra l’estate e l’autunno del 2016, la rottura del ponte Morandi, alla vigilia del ferragosto 2018, con l’intollerabile prezzo di vittime della natura e dell’incuria degli uomini. E poi nel 2020-2021 il covid, che ha sconvolto le vite di tutti, affrontato da un Paese diviso tra il senso dell’unità e le spaccature di sempre: tra Nord e Sud, tra Stato centrale e regioni, tra governo e territori, tra lavoro dipendente e impresa privata. Il momento più drammatico è arrivato nel 2018, quando durante la crisi di governo più lunga il capo dei 5 Stelle Luigi Di Maio chiese l'impeachment: oggi si è scusato. In mezzo sempre lui, il presidente con i capelli bianchi, che ha scelto la presenza in punta di piedi, il pudore, l’empatia. Nulla di meno marziale o gollista. Eppure Mattarella, il presidente solo “en la tormenta”, nella tempesta, come lo ha chiamato “El Pais”, ha compiuto il gesto del grande politico quando ha dato l'incarico a Mario Draghi. Un'eredità importante e pesante. In questi giorni di dolore per la scomparsa prematura di David Sassoli, un cattolico democratico come lui, emerge ancora una volta come sia forte la richiesta di figure positive, di ricostruttori. Una radice politica, una idea del rapporto tra le istituzioni e la società, uno stile di leadership che Mattarella affida al suo successore».