Studio Inapp

Gli italiani in smartworking sono più di 7 milioni, il 61% almeno tre giorni a settimana

Il 46% vorrebbe continuare a lavorare da remoto e il 55% esprime una valutazione positiva sull'esperienza

Gli italiani in smartworking sono più di 7 milioni, il 61% almeno tre giorni a settimana
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Smart working

Da inizio pandemia sono diventati oltre sette milioni gli italiani che lavorano da remoto e, di questi, poco più della metà lo fa per almeno tre giorni a settimana. 

Che venga chiamato lavoro agile o smartworking, poco cambia, il bilancio di questo metodo conferma l’apprezzamento da parte di chi, da due anni a questa parte, ha usufruito di questa particolare forma di lavoro. 

Il dato arriva dall’Inapp, Istituto nazionale per le analisi delle politiche pubbliche: “Nel complesso la valutazione dello smart working da parte dei lavoratori - ha affermato il presidente Sebastiano Fadda – è positiva, anche se si manifestano alcune criticità in relazione ad alcuni aspetti, come ad esempio il problema della disconnessione e dei costi delle utenze domestiche. Da ciò si desume che esiste una base per passare dal semplice lavoro da remoto emergenziale a nuovi modelli di organizzazione del lavoro associati a innovative reingegnerizzazioni dei processi produttivi, ma che bisogna adoperarsi per risolvere le criticità”.

Sono 61 su 100 gli italiani che lavorano da casa tre volte almeno a settimana

La chiave di volta per il passaggio allo smartworking è stata la digitalizzazione dei protocolli informatici nelle PA, sicurezza compresa, che ha interessato oltre il 56% dei datori di lavoro. “Inoltre, nel settore privato sono state messe in campo varie azioni volte, non solo a consentire lo svolgimento del lavoro agile nell'immediato, ma anche ad armonizzare le condizioni attuali con le prospettive future, investendo in formazione (46,8%), fornendo attrezzature ergonomiche (25,7%) ed erogando un contributo (22,2%) ai dipendenti” ha precisato Fadda.

Il diritto a disconnettersi e la mancanza di contatti esterni 

Ci sono però ancora molti punti da chiarire sulla normalizzazione del lavoro a distanza, tra questi il diritto alla disconnessione. Anche se, tutto sommato, sembra un piccolo scotto da pagare a fronte di un miglioramento della vita privata. 

Per quanto riguarda la possibilità di fare brevi pause, una quota particolarmente elevata di lavoratori (78,2%) non manifesta criticità, ma oltre il 49% dichiara di potersi disconnettere solo per la pausa pranzo.     

Un filo più agevolati, almeno in questo caso, i dipendenti privati: secondo l’indagine Inapp il 65% tra loro ha dichiarato di poter scegliere in modo autonomo quando disconnettersi contro il 50,1% di quelli del pubblico. 

C’è poi il fattore solitudine e bollette energetiche: il 63,9% ritiene che il lavoro da remoto generi isolamento e circa il 60% che non aiuti nei rapporti con i colleghi. Stessa percentuale di “lamentela” per l'aumento dei costi delle utenze domestiche. 

Smartworking, tra vita privata e fuga dalle città 

Ritorno ai centri rurali e telelavoro: se ne iniziò a parlare a inizio pandemia. Perché se per oltre due terzi degli intervistati il lavoro da remoto è positivo per la libertà di organizzare il lavoro e gestire gli impegni familiari è anche vero che si stanno sempre più aprendo prospettive di ritorno “alla campagna”, segnala l'Inapp. “Qualora il lavoro agile entrasse a regime, si aprirebbero nuove prospettive sul futuro delle città e dei territori. Dallo studio emerge che oltre un terzo degli occupati (34,5%) si sposterebbe in un piccolo centro e quattro persone su 10 invece si trasferirebbero in un luogo isolato a contatto con la natura (41,5%)”, ha continuato il presidente Inapp.

Qualità della vita e lavoro

Pur di lavorare da remoto un lavoratore su cinque accetterebbe una eventuale penalizzazione nella retribuzione, "segno che un ipotetico miglioramento nella qualità della vita presenta un valore economico immediatamente scontabile".