La ricostruzione della vicenda

La storia del delitto di via Poma, uno degli omicidi più misteriosi degli ultimi 30 anni

Il 7 agosto 1990 Simonetta Cesaroni fu trovata morta in uno stabile del quartiere Prati, a Roma, uccisa con 29 coltellate. Tutte le persone coinvolte nelle indagini sono state scagionate. La riapertura delle indagini cerca di fare nuova luce sul caso

La storia del delitto di via Poma, uno degli omicidi più misteriosi degli ultimi 30 anni
(Ansa)
Simonetta Cesaroni, la vittima

Con la riapertura delle indagini sul delitto di via Poma, uno dei casi di cronaca più “appassionanti” e misteriosi degli ultimi decenni, si tornano ad accendere i riflettori sulla triste vicenda di Simonetta Cesaroni, la giovane donna uccisa con 29 coltellate (e senza un movente), nell’assolata calma estiva di una Roma deserta, il 7 agosto 1990. A distanza di quasi 32 anni da quella vicenda, un colpevole non è stato ancora individuato, nonostante le lunghe indagini e i vari processi succedutisi nel tempo.

I fatti e la scena del crimine

Simonetta Cesaroni era una ragazza romana di 20 anni e svolgeva il lavoro di segretaria presso la A.I.A.G. (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù), per conto dello studio commerciale Reli Sas. Fu trovata senza vita, con numerose ferite di arma da taglio su tutto il corpo, all’interno di uno stabile in via Carlo Poma 2, nel centralissimo quartiere Prati di Roma, dove aveva sede l’associazione per cui faceva la contabile. Era il 7 agosto 1990.

L’ultimo contatto di Simonetta risale alle 17,30 di quello stesso giorno d’estate, quando effettuò una telefonata a Luigia Berrettini. Per le 18,30 avrebbe dovuto parlare, sempre al telefono, con il proprio datore di lavoro, Salvatore Volponi, ma la chiamata non fu mai effettuata. I familiari, preoccupati dalla sua assenza, cominciarono a cercarla intorno alle 21,30. La sorella Paola Cesaroni e il fidanzato di lei, accompagnati da Volponi, si recarono nell’ufficio di via Poma, dove immaginavano di trovarla. Qui, dopo aver chiesto alla moglie del portiere di farsi aprire la porta, trovarono il cadavere di Simonetta alle 23,30. Le prime indagini, tra cui l’autopsia, appurarono che l’orario della morte era da collocarsi tra le 18 e le 18,30.

Il corpo della vittima fu trovato con molti segni di arma da taglio, oltre a un morso su un capezzolo. Le stanze dello studio non risultavano in disordine. Si sospetta che l’arma utilizzata per l’omicidio sia stata un tagliacarte. La donna fu colpita 29 volte, in diverse parti del corpo. Alcuni abiti (fuseaux sportivi blu, la giacca e gli slip) erano stati portati via, oltre a molti effetti personali, mai più ritrovati; tra questi, gli orecchini, un anello, un bracciale e un girocollo, tutti d'oro. Solo l'orologio le rimane al polso. Completamente nuda, fu lasciata con il reggiseno allacciato ma calato sul basso. Il seno era quindi scoperto e il top le era stato appoggiato sul ventre, per coprire le ferite che poi si rivelarono mortali. Altra eccezione rispetto alla nudità in cui fu trovata, indossava ancora i calzini bianchi corti. Le scarpe da ginnastica erano riposte ordinatamente vicino alla porta. Le chiavi dell'ufficio, che aveva nella borsa, non furono mai più ritrovate.

Lo stabile di via Carlo Poma, luogo dell'omicidio Ansa
Lo stabile di via Carlo Poma, luogo dell'omicidio

I protagonisti: il portiere Pietrino Vanacore, principale accusato

Tra i primi indiziati del delitto, poi ritenuto principale accusato, uno dei portieri dello stabile di via Poma, Pietro (detto Pietrino) Vanacore, fermato dalla polizia tre giorni dopo il delitto. Trascorsi 26 giorni in carcere, il suo avvocato ne otterrà il rilascio, nonostante pesanti sospetti continuassero a gravare su di lui, prima come possibile responsabile del delitto, poi come favoreggiatore o testimone muto dell’uccisione. A livello di indizi, tuttavia, si riscontrò fin da subito l’assenza di tracce del Dna di Vanacore nel sangue ritrovato sulla maniglia della porta della stanza dove fu rinvenuto il corpo di Simonetta, fatto che scagionerà il portiere. Sui suoi pantaloni vennero però ritrovate tracce di sangue ma la risultanza non costituì un potenziale indizio dal momento che l’uomo soffriva di emorroidi.

Vi sono comunque alcune incongruenze che hanno pesato sull’alibi di Vanacore, come la sua assenza dal cortile dello stabile (dove erano presenti gli altri portieri del palazzo) nell'orario in cui si sarebbe compiuto il delitto (tra le 17.30 e le 18.30). Inoltre, è stato verificato che alle 22,30 Vanacore si è recato in casa dell'architetto Cesare Valle, l’unico a essere presente nella scala B del condominio di via Poma oltre a Simonetta. L’architetto Valle dichiarerà tuttavia che il portiere è arrivato a casa sua alle 23,00. Nessun altro estraneo fu visto entrare o uscire dallo stabile in quel pomeriggio di 32 anni fa.

Il 26 aprile 1991 le accuse contro Vanacore e altre cinque persone indiziate sono state archiviate. Nel 1995 la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di Roma di non rinviarlo a giudizio per favoreggiamento. A distanza di anni, Pietrino Vanacore fu coinvolto in una seconda indagine (che toccava il fidanzato dell’epoca di Simonetta, Raniero Busco), basata sulla tesi che qualcuno potesse essersi introdotto nello studio dove era avvenuto il delitto, inquinando la scena del crimine.

Il 9 marzo 2010 Vanacore si è suicidato, lasciandosi annegare; ha lasciato un messaggio su un cartello: “20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”. Tre giorni dopo avrebbe dovuto deporre all'udienza del processo per l'omicidio della ragazza a carico di Raniero Busco. Le indagini svolte dopo il suicidio di Vanacore hanno determinato che il portiere è arrivato a quel gesto estremo “di sua spontanea volontà”.

Pietrino Vanacore Ansa
Pietrino Vanacore

Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta

Nel gennaio 2007, dopo una complessa indagine condotta dal Ris di Parma partita tre anni prima, si riesce a determinare la corrispondenza fra le tracce di Dna riconducibili a Raniero Busco, fidanzato di Simonetta, e reperti biologici rinvenuti sul corpo della vittima. In particolare, si tratta di tracce di saliva, trovate sul corpetto e sul reggiseno di Simonetta, indossati quando fu uccisa, che corrispondono al Dna di Raniero Busco. 29 dei 30 sospettati selezionati fino a quel momento vengono infatti scartati dalla cosiddetta “prova regina”. La polizia scientifica, oltretutto, prelevò per ben due volte il suo Dna e, in entrambi i casi, lo ha analizzato e confrontato: il profilo genetico di Busco è emerso sei volte su corpetto e reggiseno.

Il fidanzato della vittima dell'epoca fu quindi ufficialmente indiziato per il delitto. Nel settembre 2007 venne iscritto nel registro degli indagati, con l'ipotesi di reato di omicidio volontario. La polizia scientifica sottopose poi ad analisi una traccia di sangue rinvenuta sulla porta della stanza in cui la donna fu uccisa. Ma in quell’indizio il sangue di Simonetta era mischiato a un soggetto di sesso maschile, l'assassino; la componente maggioritaria era comunque della donna. Furono anche isolati otto alleli, coincidenti con il Dna di Raniero Busco, il cui profilo genetico era mescolato a quello della vittima, e per otto volte risultavano compatibili con il corredo genetico di Busco misto a quello di Simonetta.

Rinviato a giudizio, Busco venne condannato nel 2011, in primo grado, a 24 anni di reclusione; nel processo di appello, concluso un anno dopo, fu invece assolto, assoluzione poi confermata dalla Cassazione nel 2014.

Raniero Busco Ansa
Raniero Busco

Gli altri: Salvatore Volponi e Federico Valle

Tra gli indagati per l’omicidio, nei primi mesi dopo la morte di Simonetta Cesaroni, c’era anche Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro, la cui posizione fu però chiarita dopo alcuni mesi. Fu coinvolto anche Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle (unica persona, oltre alla vittima, presente nello stabile il giorno dell’omicidio). Entrò nelle indagini a causa di una testimonianza fornita dall’austriaco Roland Voller, che aveva dichiarato agli investigatori di sapere chi avesse ucciso Simonetta. Voller riferì, in particolare, di essere entrato in contatto con Giuliana Valle, ex moglie di Raniero, il figlio dell’architetto che abitava nello stabile del delitto. Giuliana, nello specifico, avrebbe rivelato a Voller che suo figlio Federico, in quel tragico 7 agosto 1990, sarebbe tornato a casa sporco di sangue, segno evidente – nella testimonianza di Voller – della sua colpevolezza. Il movente dell’omicidio starebbe nella gelosia di Federico per la presunta relazione amorosa tra suo padre e la vittima. Nonostante Giuliana Valle avesse ammesso di conoscere Voller ma di non avergli mai fatto quella confidenza, l'ipotesi non resse, data anche la scarsa attendibilità dell’austriaco come informatore della polizia. Inoltre, da una perizia svolta sul corpo di Federico Valle, verrà esclusa la presenza di cicatrici o altri eventuali segni di colluttazione con Simonetta. Il 16 giugno 1993 il gip prosciolse Valle per non aver commesso il fatto.