L'analisi

Il metodo Zelensky: come il presidente ucraino ha cambiato la comunicazione in tempi di guerra

Quali sono le caratteristiche della comunicazione politica di Volodomir Zelensky? Ne parliamo con Massimiliamo Panarari, politologo e sociologo della comunicazione

Il metodo Zelensky: come il presidente ucraino ha cambiato la comunicazione in tempi di guerra
Telegram Zelensky
Zelensky fa ascoltare sirene

Professore, questa è una guerra che si combatte, anche sui social. Il maggior protagonista di questa guerra mediatica, per molti osservatori, è il Presidente Volodomir Zelensky.  Addirittura , per alcuni esperti di comunicazione , "Zelensky è l'anno zero della comunicazione social in tempo di guerra ". Condivide questa affermazione?

C’è qualcosa di vero (e innegabile) in questa considerazione. Nel senso che mai come in precedenza i social network sono diventati uno strumento di informazione e propaganda intorno a un tragico evento bellico. E un veicolo di circolazione di quei meme che vengono utilizzati largamente dalla comunicazione del governo ucraino. In queste settimane stiamo persino assistendo a una trasformazione di TikTok, che da sterminato deposito di video disimpegnati, molto refrattario a un uso politico, si è convertito in una seguitissima piattaforma di narrazione del conflitto. Lo utilizzano gli adolescenti ucraini per far circolare le immagini delle devastazioni, se ne serve il presidente Zelensky, ci troviamo i video di solidarietà con l’Ucraina di Moby e altri artisti. Ma, naturalmente, anche la disinformazione degli apparati putiniani. 



Quella di Zelensky è anche una rivoluzione d'immagine. Ovvero il porsi come un “presidente combattente”. Non è solo abilità scenica c'è anche un messaggio forte dietro. È così professore?

Esattamente. Zelensky ha una storia personale e professionale come “comunicatore”, declinata nella forma del performer e dell’attore anche comico (e questo elemento lo ritroviamo, per esempio, nell’ironia di varie sue affermazioni e dichiarazioni). Nel suo essere, per certi versi, uno “Zelig”, Zelensky mostra appunto le sue facoltà attoriali e le sue skills professionali di provenienza. Indossando la tuta mimetica o il maglione militare, il presidente ucraino si è mostrato sempre insieme ai suoi soldati e alla sua gente sotto assedio, oppure all’interno delle war room a Kyiv affiancato da generali e collaboratori. L’immagine in presa diretta di un leader di popolo che incita al combattimento e non si sottrae alle sue responsabilità (e al rischio di perdere la vita). Proprio per questo è stata immediata la reazione video alla falsa notizia fatta circolare dai media russi di una sua fuga in Polonia, con la finalità di non far cadere il morale delle truppe e della popolazione in patria, e di continuare ad alimentare una delle narrazioni fondamentali (ma che costituisce anche un dato di fatto) che stanno funzionando presso l’opinione pubblica occidentale. E queste abilità comunicative sorreggono una narrazione contenente, giustappunto, un messaggio forte, quello dell’Ucraina come fronte della resistenza dell’Occidente e dei valori delle democrazie liberali di fronte all’assalto dell’autocrazia di Putin e di quello che possiamo chiamare un dispotismo orientale 2.0 (sostenuto dalla violenza brutale delle armi come dalla guerra ibrida e dal cyberwarfare). 

 

Si può dire che la comunicazione di Zelensky ricalca quello di un film d'azione?

Si tratta di una comunicazione pensata in termini assolutamente mediali, e dunque sottoscriverei questa idea – come pure, peraltro, varia e si modifica usando anche altri format narrativi (si pensi ai discorsi ad hoc tenuti in videoconferenza con i vari Parlamenti delle nazioni occidentali) e “registri stilistici”.

 

Un’altra caratteristica è la velocità di risposta al momento in cui si vive. È così?

La comunicazione istantanea è una della chiavi del marketing politico postmoderno – ed è un’«esigenza» sollecitata dai media digitali, che l’hanno fortemente incentivata nei loro utenti. D’altronde, la guerra appartiene al novero di quelli che i sociologi Daniel Dayan ed Elihu Katz hanno chiamato i media events, e quindi è un evento-all news, oggetto di una copertura mediatica h24 la quale si intreccia di fatto alle operazioni belliche (e ha un impatto di rilievo sull’opinione pubblica internazionale).

 

Quali sono i limiti di questa strategia comunicativa?

Ci sono dei limiti estrinseci e oggettivi, nel senso che in una guerra la comunicazione anche più efficace non riesce a capovolgere gli esiti sul terreno, dove la macchina bellica russa e la determinazione alla “russificazione” dell’Ucraina da parte di Putin sono schiaccianti. Essendo una strategia in divenire – e sotto i bombardamenti – punta moltissimo a suscitare il coinvolgimento emozionale, e tende a innalzare sempre di più il livello di tale “ingaggio emotivo” dei destinatari, col rischio – come avvenuto nel discorso tenuto alla Knesset, dove Zelensky ha evocato una comparazione con la Shoah – di incorrere in qualche infortunio ed errore. 



Rispetto a tutto questo la comunicazione russa è anchilosata, arcaica. Come esce la figura di Putin? 

Putin predilige i simboli del potere e della forza, la sua è un’iconografia neozarista, dagli stucchi dorati del Cremlino – espressione per antonomasia della concezione piramidale del potere russo – al noto (e famigerato) lunghissimo tavolo che, nel distanziamento fisico tra il presidente-autocrate e la sua stessa élite, restituisce molto plasticamente tanto l’idea dell’uomo solo al comando che quella del clima di terrore di cui si è circondato. Il cesarismo putiniano declinato nella sfera comunicativa non si preoccupa del consenso dell’opinione pubblica (sottoposta dall’inizio della guerra – parola orwellianamente vietata – a censure e repressioni sempre più feroci). E anche l’adunata allo stadio Luzhniki di Mosca con il discorso alla nazione effettuato dal presidente russo (e molta mobilitazione forzata) ha segnalato, una volta di più, come la sua finalità primaria sia la propaganda interna.   

 

*Massimiliano Panarari è professore associato di Sociologia della comunicazione presso l’Università Telematica "Universitas Mercatorum" di Roma. È editorialista de "La Stampa", del settimanale "L'Espresso" e dei quotidiani locali del Gruppo Gedi. È componente del comitato di direzione della Rivista di Politica (Rubbettino) e del comitato scientifico della collana editoriale "Culturologica" (Guerini e Associati) Tra gli altri, è autore del libro  La credibilità politica (con Guido Gili, Marsilio, 2020).