56/ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali

Papa Francesco: "Ascoltare con l’orecchio del cuore" è il primo gesto di Carità verso il prossimo

La riflessione proposta dal Pontefice per il 2022 è legata alla pedagogia dell'ascolto: entrare in comunicazione con la realtà intorno a noi uscendo dalle nostre preoccupazioni e dalle nostre scatole chiuse

Papa Francesco: "Ascoltare con l’orecchio del cuore" è il primo gesto di Carità verso il prossimo
ANSA/FABIO FRUSTACI
Papa Francesco in Piazza San Pietro

"Ascoltare con l’orecchio del cuore" è il tema della 56.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che si celebra il prossimo 29 maggio nel giorno di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti.
 

La riflessione proposta da Papa Francesco per il 2022 è legata alla pedagogia dell'ascolto: entrare in comunicazione con la realtà intorno a noi uscendo dalle nostre preoccupazioni e dalle nostre scatole chiuse. “Non basta vedere, è necessario sentire, è necessario toccare - suggerisce Francesco - Il tatto è il senso più completo, più pieno, quello che ci mette la realtà nel cuore. Toccare è farsi carico dell’altro: è questa la misura dell’ascolto”. Dunque l’ascolto è indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione.
 

Nei suoi scritti recupera aspetti che rimandano alla genesi del processo comunicativo, che è il rapporto umano. In più occasioni ha sottolineato che, nonostante la grandezza e l'importanza delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, il loro fine ultimo deve essere quello di promuovere le relazioni, la vicinanza tra le persone, essere prima di tutto un mezzo e non un fine. Il tema di quest’anno, in un tempo stringente ed incerto segnato dal post pandemia e dalla guerra, mette a riflettere le nostre relazione quotidiane con l’altro, dove il desiderio di essere ascoltati, aiutati e confortati è più che mai necessario alla sopravvivenza. Ricevere le attenzioni di qualcuno, una parola o un gesto, significa sentirsi riconosciuti. Un desiderio che spesso rimane nascosto per colpa di quell’essere intrappolati in noi stessi, ma che interpella chiunque, educatori, formatori, coloro che sono chiamati a svolgere il ruolo di comunicatore, quali genitori, insegnanti, sacerdoti, operatori, e lavoratori dell’informazione e quanti prestano un servizio sociale o politico. Per ascoltare la realtà bisogna per prima cosa saper ascoltare sé stessi, l’altro e chi ha una diversità di vedute rispetto alla nostra. Comunicare vuol dire saper riflettere su ciò che vogliamo dire, e pensare se quello che diremo porterà ad arricchire chi abbiamo davanti, senza anteporre il giudizio alla comprensione. Come figli del nostro tempo, pieno di suoni e rumori, dove tutti noi, incapaci di ascoltare, ci parliamo addosso, la comunicazione si riduce spesso a strumentalizzare ciò che riguarda gli altri a vantaggio di un nostro interesse o tornaconto.
 

Ma Francesco mette in guardia e definisce meglio la parola “ascoltare”, che non significa “origliare o spiare”, o tantomeno “parlarsi addosso” come spesso accade nel dibattito pubblico. Al contrario, ciò che rende la comunicazione buona e pienamente umana è proprio l’ascolto di chi abbiamo di fronte, faccia a faccia, l’ascolto dell’altro a cui ci accostiamo con apertura leale, fiduciosa e onesta. “Ognuno sia pronto ad ascoltare, lento a parlare” dove le parole dell’apostolo Giacomo sembrano invitarci ad ascoltare con l’orecchio del cuore. Donare gratuitamente un po' del proprio tempo per ascoltare le persone è il primo gesto di carità. A volte immaginando il mondo come un campo di battaglia a cielo aperto, in ascolto paziente verso le ferite dell’umanità, il buon comunicatore deve essere un contemplativo della realtà, come sentinella, solerte a portare il peso dell’altro.
 

Tra i cinque sensi, l’udito sembra essere da Dio quello privilegiato, forse perché è meno invasivo, più discreto, ci fa mettere dentro la realtà, lasciando spazio a ciò che è invisibile a partire da noi stessi, lasciando l’essere umano più libero. “Ascoltare dunque è un atto di umiltà – dice Francesco -, e credersi superiori non facilita la comunicazione interpersonale. Intendiamoci… - aggiunge – prendersi cura dell’altro non è un’impresa facile, ma ti sforzi di avere il desiderio di comprendere, di rispettare e custodire la storia di chi abbiamo davanti.

Federica Frangi Roberto Montoya
Federica Frangi

Abbiamo incontrato Federica Frangi, giornalista per anni alla Rai e Presidente dell’Associazione Stampa Romana.

Il tema indetto quest’anno da Papa Francesco in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali è “Ascoltare con l’orecchio del cuore”. Cosa significa per noi giornalisti ascoltare?
Il Santo Padre, nel suo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni, ha richiamato anche la categoria dei giornalisti all’ascolto perché, ha detto, “non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare”. Condivido totalmente il suo pensiero: quando si ascolta pienamente l’altro si ha anche la capacità di evitare il pregiudizio, cogliendo invece i contenuti e le sfumature del dialogo. Solo “ascoltando” tutte le parti in causa poi si può proporre a un racconto il più completo possibile.

Senza la capacità di ascolto, dunque, il buon giornalismo non può essere messo in pratica. Riusciamo a raccontare, ascoltando con il cuore, la realtà intorno a noi?
Per un giornalista è doveroso farlo. “Parlare è una necessità, ascoltare è un’arte”, diceva Goethe. Ma il solo cuore non basta, bisogna necessariamente usare anche l’intelligenza (nel senso etimologico del termine) e gli strumenti del mestiere. Qui, purtroppo, si sta dimenticando come il nostro sia un “mestiere”. L’ascolto è sempre alla radice di una comunicazione autentica. Lo scopo deve essere quello di aiutare il lettore nella comprensione della storia che si sta raccontando attraverso la forza dell’esperienza concreta. Senza cadere nella tentazione di esprimere giudizi o commenti.

I giovani di oggi non leggono i giornali. «C’è poca informazione seria», dicono. In che modo possiamo rendere credibile il nostro operato?
Che l’informazione dei giornali non sia “seria”, è un’affermazione superficiale e frettolosa. Come sono, lasciatemelo dire, i social, dove oggi i giovani usano attingere le “informazioni”. E sul web in generale si trova di tutto, senza il filtro necessario del giornalista. Vero è che questo per essere credibile deve rimanere indipendente. Questo concetto è alla base dell’informazione. Purtroppo, però, la crescente precarietà dei giornalisti mina la loro autonomia e oggi sono troppi i professionisti nel nostro Paese costretti a vivere sotto il ricatto dell’editore di turno. Ed è da qui che bisogna ripartire. Solo garantendo i diritti di questi lavoratori può essere tutelato il diritto dei cittadini a un’informazione pluralista e imparziale.

Nell’era digitale, corriamo il rischio di non metterci nei panni dell’altro, di non essere empatici. Come possiamo rendere la comunicazione più umana?
Oggi viviamo in un mondo ininterrottamente connesso, in costante inseguimento di se stesso. Se si considera che un italiano su tre si informa solo sui social ci si rende conto di quanto dobbiamo vigilare per proteggere gli utenti dalla disinformazione e dalle cosiddette fake news. Ed è qui che diventa fondamentale la professionalità del giornalista. Non può vincere chi è più veloce, si rischia di cadere nella trappola delle fake news. La “bufala” è sempre dietro l’angolo. E il giornalista non può e non deve cadere nella trappola della ricerca della velocità a tutti i costi. Oggi, purtroppo, pur di arrivare prima degli altri qualcuno - pochi per fortuna - viola una regola base del nostro mestiere, ovvero verificare sempre la fonte. L’informazione, quella vera, non può e non deve scadere nella superficialità.

Quanto la Giornata Mondiale delle Comunicazioni ci interessa e ci coinvolge come categoria professionale o come comunità?
Quanto? Completamente, direi. Noi giornalisti siamo comunicatori. La comunicazione è il nostro mestiere. E dunque, qualunque sia l’evento che riguarda la comunicazione va seguito attentamente. A maggior ragione questo, perché ci offre un ulteriore punto di vista, un’altra chiave interpretativa del nostro mestiere. È un arricchimento al quale si può e si deve attingere. Mai dare nulla per scontato, bisogna sempre essere pronti e disponibili all’ascolto, anche dei buoni consigli. Bisogna tendere sempre al miglioramento, e la Giornata contribuisce non poco a questo.

Papa Francesco ha detto che la nostra è l’epoca delle fake news, delle superstizioni collettive e delle verità pseudoscientifiche. A volte noi giornalisti cadiamo alla tentazione fatale di onnipotenza. Qual è la nostra missione nel mondo?
Il Pontefice ha ragione. Ma d’altronde è sotto gli occhi di tutti, basta solo saper “vedere e ascoltare”, per capire la pericolosità di quest’epoca di transizione. Stiamo cedendo completamente ai nuovi media, e sicuramente è giusto così, il futuro è quello. Ma è necessario farlo con cura e serietà. Non bisogna cadere nella logica dei like, delle faccine e dei pollicioni rivolti all’insù. Lo scopo ultimo non può essere ottenere quanti più “clic” possibili. Non si può pensare di puntare a “piacere” il più possibile confortando il punto di vista della maggioranza. E direi che è anche profondamente sbagliato sostenere una parte con l’unico intento di affermarsi sull’altra. Il giornalista non deve mai cadere nella tentazione di schierarsi, deve – e sottolineo DEVE – rimanere super partes.

Con la consapevolezza dell’adulto e lo stupore del bambino possiamo arricchirci ascoltando l’altro, perché c’è sempre qualcosa da imparare, soprattutto dopo le ferite provocate dalla pandemia e dalla guerra. Quali sono le nuove sfide del giornalismo, davanti alla società?
La nuova sfida l’ha lanciata proprio Papa Francesco, quando citando Abraham Kaplan ha invitato a rifuggire dal “duologo”, ovvero dal monologo a due voci, in cui ciascuno vuole imporre il proprio punto di vista. E qui ci ritroviamo di fronte a un’altra pecca della comunicazione contemporanea. Purtroppo è la stessa logica dei “like”. È giusto mettere di fronte due tesi contrapposte, ma si dovrebbe farlo senza la “gara dell’urlo in faccia”. Viviamo in un mondo in cui siamo sommersi dalle parole, se urlate anche meglio, ma queste parole volano nell’etere senza mai arrivare a destinazione. Sono destinate a non avere un ascolto. E non potrebbero, perché formulate per lo più senza quello scopo. Parole perse nel vento.

Secondo Lei, come comunicatori, qual è il vero senso del nostro mestiere?
È tutto quello di cui abbiamo parlato finora. È quello di sempre. Dare all’utente finale l’informazione il più completa possibile, e dunque la più imparziale possibile. E per farlo non si può essere acquiescenti al potere di turno. Chiuderei citando proprio Papa Francesco, che nel messaggio per questa cinquantaseiesima Giornata delle Comunicazioni Sociali, ha detto: «Lo scorso anno abbiamo riflettuto sulla necessità di “andare e vedere” per scoprire la realtà e poterla raccontare a partire dall’esperienza degli eventi e dall’incontro con le persone. Proseguendo in questa linea, desidero ora porre l’attenzione su un altro verbo, “ascoltare”, decisivo nella grammatica della comunicazione e condizione di un autentico dialogo». La stessa attenzione la dobbiamo porre noi giornalisti.

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