L'analisi

Il salario minimo farà bene all’Italia e ai contratti di lavoro

Intervista a Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova

Il salario minimo farà bene all’Italia e ai contratti di lavoro
@ansa
Governo parti sociali

Il Consiglio europeo ha annunciato di aver raggiunto un accordo col Parlamento sulla direttiva della Commissione in materia di salario minimo. “Una volta adottata definitivamente – riporta una nota del Consiglio – la nuova legge promuoverà l’adeguatezza dei salari minimi e contribuirà così a raggiungere condizioni di lavoro e di vita dignitose per i lavoratori europei”. I paesi membri avranno due anni di tempo per recepire la direttiva nel diritto nazionale. Per capire meglio quali saranno le conseguenze e quale sarà l'impatto, in particolare sul nostro Paese, ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova.

22 Paesi su 27 hanno il salario minimo. Perché l’Europa promuove una direttiva? Non rischia di essere invasiva?
Anzitutto, la direttiva sul salario minimo adeguato – che non necessariamente significa legale – è stata promossa dalla Commissione circa un anno e mezzo fa e solo ora registriamo questo accordo tra Consiglio e Parlamento europeo. La spinta inflattiva, in questo momento, ci ha messo indubbiamente del suo: crescono giorno per giorno i lavoratori che perdono potere d’acquisto per effetto del carovita. In secondo luogo, l’Europa di Ursula von der Leyen si presenta da subito rafforzando il cosiddetto social pillar (pilastro sociale dei diritti). Anche il Green Deal (dicembre 2019) e i massicci interventi a supporto dell’emergenza pandemica ed economica – fondo Sure, Next Generation EU – si rivelano in netta discontinuità con le politiche di austerity portate avanti dalla commissione Juncker, e superano qualsiasi previsione: un simile cambio di passo era difficilmente immaginabile prima del covid-19, sebbene proprio il Green Deal sia il grande lascito di Juncker a von der Leyen. Ed è anche in ragione del Green Deal che si punta sul potenziamento dei salari: teniamo conto che se l’obiettivo dell’Europa è il consolidamento del mercato interno, questo non può avvenire senza crescita del potere d’acquisto perché, banalmente, il prodotto locale è più costoso di quello asiatico. Circa la possibilità di invasività dell’intervento, la direttiva non obbliga gli stati membri che non hanno il salario minimo legale a istituirlo. In questo, l’Europa si dimostra molto rispettosa della contrattazione collettiva e della cultura di ogni Paese, come del resto nel suo modo di procedere. Bruxelles chiede però di adeguare il livello minimo dei salari, cosa che può essere fatta anche per via contrattuale.

Più specificatamente, cosa prevede la direttiva e quale sarà il suo impatto in particolare sul nostro Paese?
Gli Stati membri dell’Ue dovranno stabilire un quadro procedurale per fissare e aggiornare i salari minimi. Consiglio e Parlamento hanno concordato che gli aggiornamenti del salario minimo dovranno avere luogo almeno una volta ogni due anni, o al massimo ogni quattro anni per i Paesi che utilizzano un meccanismo di indicizzazione automatico. Le parti sociali devono essere coinvolte nelle procedure per fissare e aggiornare i salari minimi. Come lei richiamava in precedenza, l’adeguamento può avvenire o istituendo un salario minimo legale – come già avviene in 22 dei 27 stati membri – o attraverso l’azione delle Parti sociali e della contrattazione collettiva. Tra i 5 Paesi che non hanno il salario minimo legale c’è l’Italia, insieme ad Austria, Cipro, Danimarca e Finlandia. Sono questi Paesi in cui i contratti collettivi hanno un’alta copertura dei rapporti di lavoro e dove la volontà delle Parti sociali, in particolare, è stata quella di preservare il ruolo della contrattazione. Il caso nostro è tipico e io credo che anche nell’applicazione della direttiva in oggetto si tenderà a non invadere il campo dell’autonomia collettiva. Anche perché un salario individuato dal legislatore diventerebbe oggetto di costante scontro politico in nome del “chi offre di più”. E sarebbe terreno di incertezza e instabilità. Invece, dall’attuazione della direttiva europea, il ruolo della contrattazione credo sarà rafforzato.

In che modo l’applicazione della direttiva potrebbe non invadere il campo della contrattazione collettiva e, anzi, rafforzarla?
La situazione italiana è tale per cui dal 2013 – dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Fiat – è esploso il cosiddetto fenomeno dei “contratti pirata”, soprattutto nel settore degli appalti, che trova la sua origine nella “legittimità di contrattare al di fuori del sistema confindustriale”, per citare un passaggio cruciale della suddetta sentenza. Per ricordare qualche numero, nel 2010 il numero dei contratti depositati al Cnel era di circa 300, ora siamo quasi a 900. Soltanto 350 di questi 900 contratti sono sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggioritarie (Cgil, Cisl e Uil) e quasi la metà di questi 900 contratti presentano minimi retributivi inferiori del 30% a quelli stabiliti nel perimetro di Cgil, Cisl e Uil, creando un vero e proprio dumping tra contratti collettivi. Si tratta naturalmente di un gioco al ribasso che va fermato. In questi anni, proprio Cnel e Inps hanno individuato metodologie che permettono di capire qual è la rappresentatività dei contratti depositati e, di conseguenza, di individuare i contratti più rappresentativi che, normalmente, sono anche i più tutelanti. Ora, intervenire sul lavoro povero e sul dumping dei contratti stabilendo dei minimi può avvenire non soltanto col salario minimo legale, ma anche dando efficacia erga omnes alla parte retributiva dei contratti più rappresentativi. Ecco che in questo modo non solo sarebbe rispettato il ruolo della contrattazione collettiva ma addirittura sarebbe rafforzato attraverso un’azione indiretta di certificazione della rappresentanza. In Italia, il primo tentativo è stato proprio quello di fare una legge sulla rappresentanza. Si è capito però che era una strada molto complicata e piena di insidie. Estendere l’efficacia dei contratti più rappresentativi mi è sempre sembrata la soluzione ideale, in linea con la cultura e con la storia del nostro Paese e, peraltro, col dettato costituzionale.

Le Parti sociali, nei confronti del legislatore, hanno tradizionalmente tenuto atteggiamenti diversi e tendenzialmente cauti. Cosa ne pensano oggi di questa operazione che si presenta come necessaria?
In un primo momento, dopo il 2013, nel sindacato c’era chi invocava un intervento sui criteri di rappresentatività che stabilisse per legge chi è nella condizione di rappresentare le persone che lavorano. Ma le Parti sociali non erano convinte e, soprattutto, non si fidavano del lavoro che il governo Renzi e il Parlamento potevano fare in materia. Da qui l’idea del governo di legiferare sul salario minimo, cosa per altro prevista dal Jobs Act, ma rimasta inattuata sempre per la poca convinzione delle Parti sociali. Furono, soprattutto, i timori della Confindustria a fermare il governo Renzi perché, comprensibilmente, qualcuno si era posto il problema di quale convenienza potessero trovare le aziende a continuare ad associarsi una volta fissato per legge il minimo retributivo. La discussione è ripresa in particolare durante il 2019, col governo Conte 2 e col ministro Nunzia Catalfo, peraltro prima firmataria del DdL 658/2018 sul salario minimo presentato dal Movimento 5 stelle. È in quella fase che Cgil, Cisl e Uil comprendono – in una serie di dialoghi in particolare col ministro Catalfo e col senatore Nannicini (primo firmatario del DdL 1132/2019 sul salario minimo del Pd) – che la strada giusta è quella di dare efficacia erga omnes alla parte retributiva dei contratti più rappresentativi. Mi pare che anche le attuali reazioni – in particolare del ministro Brunetta e del segretario generale della Cisl Sbarra – confermino che l’ipotesi che politica e sindacato ancora condividono non è cambiata. E che farà contenti tutti, anche Confindustria.

L’intervento così concepito può certamente rispondere al fenomeno del lavoro povero e, anche, alla crisi del potere d’acquisto. Ma, visto il recente report dell’Ocse sui salari, come possono aumentare le retribuzioni in Italia?
L’Ocse ci dice tristemente che negli ultimi trent’anni, l’Italia è l’unico Paese in cui i salari annuali medi sono diminuiti, precisamente del 2,9%. Il confronto con le altre economie avanzate, come la nostra, è impietoso: in particolare, in Germania i salari sono cresciuti del 33%, in Francia del 31%; se poi guardiamo anche ad altri Paesi europei, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14% e in Spagna del 6%. Gli Stati scandinavi registrano il +63% della Svezia, il +39% della Danimarca e il +32% della Finlandia. Per quanto riguarda il nostro Paese, da una parte la produttività debole non favorisce la produzione e la distribuzione di ricchezza: tra il 1995 e il 2020 la produttività in Italia è cresciuta di 12 punti. In Germania siamo a circa +45, in Francia +35 e nell’Unione la media è quasi a +40. E questo è certamente un problema rispetto alle retribuzioni perché, in tutto il mondo avanzato, queste crescono in rapporto alla produzione di ricchezza che è determinata, anche, dalla crescita della produttività. I salari non sono, infatti, una variabile indipendente dall’andamento economico. D’altra parte, tuttavia, in Italia il cuneo fiscale è molto alto (46,5%), così come in Belgio (52,6%), Germania (48,1%), Austria (47,8%) e Francia (47%) dove però anche le retribuzioni sono decisamente più alte. Consideriamo che il costo orario del lavoro in Italia (29,3euro) è piuttosto in linea con la media europea (32,8 euro nell’Eurozona, 29,1 nell’Ue); in Germania è di 37,2 euro, in Francia di 37,9, in Olanda di 38,3, in Belgio 41,6, in Spagna 22,9. È singolare che da questo costo del lavoro del tutto ordinario si arrivi a una situazione paradossale di salari più critici dell’intera area Ocse. Questo ci dà l’idea della pesantezza del cuneo fiscale che, in pratica, dimezza la busta paga del lavoratore. A ogni modo, le dimensioni del sistema produttivo italiano – il 95,2% delle nostre imprese ha meno di 10 addetti/e – sono tali per cui è complicato pensare che siano queste da sole a risolvere il problema salariale. Ciò produrrebbe pesanti contraccolpi, economici e occupazionali. Vi sono settori in cui il costo del lavoro raggiunge in media il 55/60% (in particolare: logistica, tessile e confezionamento). Oggi, l’unica strada percorribile è la riduzione del cuneo fiscale, intervento che – quantomeno in questa fase – si potrebbe limitare alla piccola impresa dove, peraltro, difficilmente si pagano salari di produttività. Non ha senso fare interventi generalizzati, anche perché i salari impattano diversamente sulle imprese medio-grandi che non a caso sono quelle che fanno contrattazione diretta e accordi di produttività.

A proposito di produttività, la Confindustria – e anche Bonomi oggi – va da anni ripetendo che se non cresce la produttività non possono crescere i salari. È così?
Come dicevo, c’è del vero in questa affermazione. Come è altrettanto vero che la produttività non cresce per magia ma in virtù di investimenti, di innovazioni che hanno a che fare con l’organizzazione del lavoro, con interventi infrastrutturali che permettono all’impresa di efficientare il suo processo produttivo, con semplificazioni burocratiche, ecc. Senza questi fattori, la produttività non cresce. Poi, certamente, anche il lavoro può dare il suo contributo. In questo senso, resta esemplare l’accordo Fiat del 2010 quando, a fronte di accordi che riducevano pesantemente scioperi e assenteismo e ottimizzavano i tempi di lavoro, la produttività cresceva in modo forte tanto da generare premialità importanti. Tutto questo però trovava la sua giusta spinta dagli investimenti del Piano Fabbrica Italia, senza il quale non vi sarebbe stata nessuna crescita della produttività e, quindi, dei salari. Con questo voglio dire che l’impulso per la produttività deve arrivare dalle imprese che non possono continuare a tenere comportamenti difensivi. Il governo però le deve aiutare: il taglio del cuneo fiscale potrebbe essere un buon inizio.

Il governo Draghi è nella condizione di compiere questi passaggi?
Credo di sì. Draghi ha davanti a sé l’occasione di riscrivere la politica dei redditi e di rinnovare relazioni industriali 30 anni dopo il “protocollo Ciampi”. Fu proprio il presidente del consiglio di allora e già governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, a decidere di favorire questa importante intesa. Nel protocollo del ‘93 vennero definite le nuove regole della contrattazione collettiva e una politica salariale che aveva il preciso compito di consentire il rientro dall’inflazione per dare modo al Paese di adeguarsi alle prospettive della moneta unica. Oggi, in questa fase storica, c’è altrettanto bisogno di un patto sociale ampio e lungimirante. L’occasione del salario minimo è quella giusta. Anche perché, altrimenti, il Pnrr rischia di restare incompiuto. Ed è questa un’opportunità che non possiamo sprecare.