L'analisi

Le crisi industriali italiane. Intervista a Roberto Benaglia, segretario generale Fim - Cisl

Per Benaglia “la crisi politica non ha fatto altro che far deflagrare le difficoltà del mondo industriale, questa è una grave responsabilità che i partiti che hanno determinato la crisi di governo si sono messi sulle spalle”

Le crisi industriali italiane. Intervista a Roberto Benaglia, segretario generale Fim - Cisl
Pierluigi Mele
Roberto Benaglia

Segretario, in questi giorni, voi della FIM-Cisl, avete presentato un dettagliato Report sulla crisi del settore metalmeccanico, un settore strategico per la nostra economia. Sappiamo che tra Pandemia, prima, e guerra in Ucraina, poi, il settore ha mostrato forti criticità. Andiamo con ordine: quanti lavoratori sono coinvolti?
Nonostante la situazione internazionale e gli strascichi della pandemia che non sembra mollare la presa, il settore metalmeccanico continua a reggere grazie all’export ma, rispetto all’ultimo semestre del 2021 nel nostro report, abbiamo registrato nel primo semestre del 2022, una crescita di +16.155 lavoratori coinvolti, passando da 54.712 dicembre dello scorso anno, ai 70.867 lavoratori di questo primo semestre. Dati che sicuramente sono un primo campanello di allarme. La guerra, pandemia e la carenza di materie prime, fanno la parte da leone ma registriamo anche casi di delocalizzazioni, l’ultimo in ordine di tempo quello della Wärtsilä di Trieste e crisi finanziarie come quella della Fimer che produce colonnine per le ricariche elettriche, in Toscana – a cui si sommano tutte quelle legate alla transizione green della mobilità.

Vediamo nello specifico. Incominciano con l'automotive. Qui la situazione è estremamente preoccupante. Tocca più livelli dai motori endotermici all'elettrico. Come stanno le cose?
Per quanto riguarda l’automotive, pesa anzitutto l’estrema debolezza nelle vendite di auto, disorientata anche dalla scelta dell’UE nel mese di giugno di fermare la produzione dei motori endotermici nel 2035 in tutt’Europa, nonché l’andamento a singhiozzo nella fornitura di semiconduttori. Un combinato disposto che crea una situazione di forte preoccupazione, legata soprattutto alla massiccia presenza di componentistica nel nostro Paese - specie nei siti di powertrain. Ne consegue, una serie di crisi conclamate nonché di fermi produttivi nei principali stabilimenti del Gruppo Stellantis vedi: Melfi, Cassino, Pomigliano, Sevel e conseguentemente dell’indotto, con un aumento della richiesta ammortizzatori sociali. Degli oltre 70 mila i posti di lavoro a rischio nel settore automotive, oltre 32mila dal nostro report, sono già in una situazione di crisi. Si tratta di aziende direttamente o indirettamente legate all’auto. D’altra parte, le nostre preoccupazioni sul settore avevano trovato la materializzazione a febbraio di quest’anno dove, per la prima volta nella storia, Fim, Fiom, Uilm insieme a Federmeccanica abbiamo presentato un documento unitario con un pacchetto di proposte, chiedendo di affrontare con il Governo il tema della transizione green direttamente con il premier e i ministeri competenti.

In questo ambito quali possibili soluzioni? Quali sono le aziende che hanno dimostrato una capacità di resilienza?
Il settore dell’automotive per il nostro Paese è strategico pesa qualcosa come il 6% del Pil nazionale e coinvolge oltre 5000 imprese metalmeccaniche molte della componentistica – che occupa oltre 161 mila persone e in cui il nostro Paese è un’eccellenza mondiale, il 30% delle auto tedesche monta componentistica made in Italy. Se non abbiamo idea di questi numeri e delle persone coinvolte non capiamo l’importanza strategica sia sul piano economico/industriale, che sociale che questo settore ha nel nostro Paese. In questo scenario molte aziende del settore stanno reagendo, si tratta per la gran parte dei grandi produttori, per le aziende dell’indotto soprattutto quelle legate alla powertrain endotermico serve un piano di riconversione che guardi alle imprese e alle persone. La transizione green, se non governata come stanno facendo da tempo altri paesi europei, penso alla Germania ma anche la Francia e la Spagna rischia di lasciare un deserto sul piano industriale e una crisi sociale senza precedenti. Gli sforzi fatti fino ad oggi non bastano servono risorse più robuste e politiche di sostegno al settore, anche fiscale, sia per quanto riguarda la riconversione industriale, che per quanto riguarda la riqualificazione e formazione delle persone, mettendo in campo ammortizzatori ad hoc per gestire la transizione.

Però la carenza di semiconduttori, componenti elettronici e materie prime, i materiali metallici, investe in materia pesante il settore degli elettrodomestici. Un comparto di eccellenza italiana. Come si presenta il quadro di crisi?
La carenza di semiconduttori, componenti elettroniche è un nervo scoperto che deve essere risolto in chiave continentale. Il “chips act” è una prima risposta. Ma con questa carenza dovremmo fare i conti ancora per diversi anni soprattutto, perché saranno sempre più richiesti nella transizione digitale che stiamo vivendo. Una carenza quest’ultima che però si è sommata a quella delle materie prime, in particolare materiali metallici. Nelle prime settimane d’invasione della Russia dell’Ucraina questo ha creato non pochi problemi, specie per molte aziende del Nord-Est, ora in parte rientrata. Il combinato tra carenza materie prime e semiconduttori sta creando non pochi problemi non solo all’automotive ma anche all’elettrodomestico e alla termomeccanica. Tra questi il Gruppo Electrolux, sta avendo alcune sofferenze per quanto riguarda i materiali di assemblaggio e componentistica elettronica. Stessa situazione si riscontra per quanto riguarda i siti del Gruppo Whirlpool relativamente ai quali, però, si aggiunge una situazione di incertezza rispetto alla conferma del mantenimento degli investimenti in Italia e di carenza di materie prime.

Ovviamente non si può non parlare della siderurgia ovvero delle Acciaierie d'Italia. Quali scenari vede in questo ambito?
Assolutamente. Quando parliamo di siderurgia parliamo della spina dorsale della nostra industria. Il Gruppo ex-Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, è purtroppo una vertenza storica che ci trasciniamo da oltre 10 anni e che, nonostante le buone intenzioni manifestate a inizio anno, resta lontana dagli obiettivi di una ripresa produttiva e occupazionale. L’ingresso a maggioranza dello Stato, tramite Invitalia, nel nuovo assetto societario di Acciaierie d’Italia, che doveva concretizzarsi a maggio di quest’anno, è stato rinviato di due anni e l’obiettivo di 5.7 mln di tonnellate di produzione a fine anno per il sito di Taranto resta solo sulla carta, tanto che la scorsa settimana la società ha annunciato una nuova cassa integrazione. Avere o non avere, per un paese trasformatore come il nostro e con i costi dell’energia che sono destinati a salire, la produzione di acciaio primario in Italia non è secondario. Il 26 luglio avremo un nuovo incontro, se confermato, non mi aspetto grandi novità. Questa vertenza merita la massima attenzione è decisiva per il futuro industriale del nostro Paese, la politica sembra non averne coscienza.

Il report analizza le aziende in crisi finanziarie. Quali sono e quanti lavoratori coinvolgono?
Parliamo di aziende che sono state messe per lo più in crisi dalla pandemia, come ad esempio quelle all’indotto Leonardo per la manutenzione delle aerostrutture. Si tratta di aziende con una forza lavoro altamente specializzata e che sono prevalentemente concentrate tra Campania e Puglia, si trascinano ancora dietro la crisi legata alla manutenzione del trasporto aereo, che ha subìto una pesante battuta d’arresto nei due anni di pandemia. Parliamo di circa 7461 lavoratori su cui sono stati messi in campo degli accordi di solidarietà e ammortizzatori e su cui ci aspettiamo una ripresa a fine anno. Tra queste va evidenziata il caso di crisi finanziaria della Fimer di Arezzo e con uno stabilimento anche a Vimercate (MB) è un’azienda delle rinnovabili, con 400 dipendenti nel sito toscano, oggi tutti con contratto di solidarietà.

A completare il quadro ci sono i 51 tavoli di crisi al MiSE. Cosa riguardano? Ci sono possibili sviluppi positivi oppure no?
Il quadro delle “crisi storiche” presenti al Ministero dello Sviluppo Economico resta purtroppo sostanzialmente immutato. Si tratta di aziende sopra i 200 dipendenti come ad esempio Blutec, Firema, Jsw Piombino - ex-Lucchini – Jabil per citarne solo alcune. In tutto stiamo parlando di 51 tavoli di crisi nazionale per le quali stentano a decollare piani di reindustrializzazione concreti. La speranza è che si possa trovare una soluzione industriale, come ad esempio per Piombino ma la situazione oggettivamente per queste imprese è molto complessa. Sono vertenze su cui sono passati molti anni e su cui anche le amministrazioni e il governo ha mollato l’attenzione, noi no e continuiamo a lavorare per trovare soluzioni per ridare una speranza di lavoro e futuro a tutti questi lavoratori.

Di fronte a questo quadro molto delicato il sindacato dei metalmeccanici cosa propone?
Il quadro che emerge dal nostro report non è drammatico ma richiede con urgenza la definizione di politiche industriali di sostegno ai settori in difficoltà, a partire dall’automotive. In questo scenario ovviamente ci preoccupa anche il possibile rallentamento dell’economia mondiale e gli effetti sulla manifattura dai preannunciati rialzi dei tassi d’interesse. Decisivo sarà poter contare sulla stabilizzazione delle catene di fornitura e sul contenimento dei costi energetici, ma la vera partita riguarda il sostegno alla manifattura. In questo senso il PNRR è poco orientato all’innovazione dell’industria italiana e vanno accelerati e aumentati gli sforzi e gli strumenti in tal senso. La politica industriale è un tema sempre più moderno e centrale, governare le transizioni, a partire da quella ambientale, è un fattore critico e decisivo sul quale l’Italia si mostra arretrata. Come Fim Cisl chiediamo che il confronto con il Governo e i ministeri interessati dia consapevolezza e risposte a queste concrete esigenze, che oggi con la crisi di governo si amplificano.

Avete avuto risposte dal governo?
Il Governo purtroppo non ci ha dato risposte complessive sui temi che abbiamo sollevato di politica industriale moderna che non sia solamente fatta di risorse pubbliche ma anche di strumenti a vantaggio delle imprese e della competitività. La modalità in questi mesi è stata quella di affrontare le crisi una ad una, riducendole all’unità di crisi del Ministero dello Sviluppo Economico e non mettendo in campo un tema generale dell’industria che tra l’altro, è poco presente nei piani strategici del PNRR. Bisogna anche dire, che davanti alla proposta congiunta di Federmeccanica Fim, Fiom, Uilm con cui congiuntamente abbiamo presentato al Governo un documento sulla transizione sostenibile sul piano ambientale e sociale, non è stato nemmeno in condizione di incontrarci. Ci saremmo aspettati, anche a fronte dell’incontro sulle parti sociali un salto di qualità che purtroppo con questa crisi di Governo ora rischia d’indebolire ulteriormente il quadro dell’industria del Paese.

Una battuta sull'autunno, quali scenari prevede?
L’autunno è già ormai fortemente segnato dalla crisi politica e di Governo di queste ore. Temiamo un rallentamento della manifattura dovuto al rialzo dei tassi d’interesse e al fatto che l’inflazione blocca gli investimenti e rischia di ridurre le aspettative delle imprese. La crisi politica non ha fatto altro che far deflagrare le difficoltà del mondo industriale, questa è una grave responsabilità che i partiti che hanno determinato la crisi di governo si sono messi sulle spalle. Ora dobbiamo fare quadrato tra le parti sociali per riuscire a dare delle risposte di tenuta del nostro sistema manufatturiero e produttivo soprattutto non facendo soffrire l’occupazione.