L'atlantismo nella politica italiana. Intervista a Guido Formigoni

Nell’opinione pubblica italiana, e anche tra le forze politiche, si sta sviluppando un dibattito sull’atlantismo, ne parliamo con Guido Formigoni docente di Storia contemporanea, Università Iulm di Milano

L'atlantismo nella politica italiana. Intervista a Guido Formigoni
Getty
Sede Nato

Professore, la guerra in Ucraina, tra l'altro, ha portato, nella politica italiana, a discutere sulla NATO e sull'atlantismo (inteso come adesione convinta all'alleanza atlantica). In questa nostra conversazione vogliamo gettare uni sguardo lungo, per quanto è possibile, su questo tema. Allora partiamo dall'immediato dopoguerra: quali erano, allora, le posizioni dei partiti? 

 In termini sostanziali, l’Italia era già nella sfera d’influenza occidentale fin dal 1943, per l’arrivo delle truppe angloamericane e la sostanziale distanza dei sovietici. Il tema politico vero divenne quindi come si sarebbe sviluppata quest’area geopolitica e come eventualmente un paese intermedio come l’Italia ci sarebbe stato dentro. Quando nel 1947 la politica statunitense elaborò il containment verso l’Urss, lanciando il piano Marshall – e di conseguenza prese piede la guerra fredda – la politica italiana si adeguò con la rottura dell’alleanza antifascista e l’adesione al nascente mondo istituzionale occidentale. Il completamento di questo sistema con un’alleanza militare arrivò nel 1949, soprattutto su sollecitazione franco-britannica: De Gasperi guidò l’adesione italiana, dopo un certo dibattito e alcune perplessità, soprattutto per l’idea che l’Italia dovesse uscire dall’eredità nefasta della sconfitta e del trattato di pace punitivo, mirando a essere in qualche modo nel centro decisionale del sistema multilaterale nascente. Indubbiamente c’era in lui uno sfondo ideale, ma non va enfatizzata una sorta di sintesi cristiano-liberale che non faceva parte della sua visione, molto più pragmatica. L’aspetto di garanzia militare del patto non era inizialmente preponderante, perché non ci si aspettava una nuova guerra europea. Del tutto ovviamente, le sinistre socialcomuniste polemizzarono duramente contro un patto definito guerrafondaio e militarista. Ma non riuscirono a scalfire il senso «costituente» dell’adesione italiana: si fissava cioè il principio secondo cui la legittimazione a governare sarebbe da quel momento in poi stata riservata ai partiti che accettassero questo schieramento internazionale.

 


Mi sembra interessante rilevare il pluralismo all'interno della Dc delle origini: si va dalle posizioni atlantiste di De Gasperi fino alla neutralità di alcune correnti di sinistra. Quali erano le ragioni di questo pluralismo?

Risponde al vero che la «scelta occidentale» della Dc nel primissimo dopoguerra non fosse semplice e tranquilla. Un po’ per ragioni di contingenza: tutto un mondo ecclesiale non era abituato a ragionare in termini di politica estera operativa. In questo senso si aprì un dibattito molto condizionato da elementi culturali un po’ generali e enfatici: ad esempio l’idea che il cattolicesimo avesse un compito storico mediatorio fondamentale, oppure che l’Italia «guelfa» (cioè legata al papato) dovesse assumere un ruolo internazionale «al di sopra delle parti» (una parte della diplomazia vaticana avrebbe visto con favore una posizione defilata del paese, che non coinvolgesse la Santa Sede in potenziali conflitti), mentre molti recriminavano ancora contro l’ingiusto trattato di pace. C’erano anche sospetti culturali diffusi verso la nascente egemonia americana: io non uso il termine antiamericanismo, che penso sia ambiguo e inadeguato, ma certamente un mito americano positivo che pure esisteva si affiancava anche a speculari preoccupazioni. Solo pochi esponenti cattolici e democristiani sostennero presto che il legame con gli Stati Uniti dovesse essere cruciale. 

Nel dibattito all’interno del partito democristiano la questione fu poi più politicizzata, e le ragioni del pluralismo più sostanziali. Di De Gasperi abbiamo già detto: aveva capito il crescente ruolo statunitense e colto l’occasione per riabilitare l’Italia. Ma egli tentò sempre, anche comunicativamente, di collegare questo orientamento alla nascente e fragile dimensione europea (c’era ancora da reinserire la Germania occidentale nel sistema, non dimentichiamolo). Critiche nella Dc contro questa linea furono le minoranze di sinistra, o perché attirate dall’ipotesi neutralista (i gronchiani), o perché chiedevano di anticipare il rafforzamento della coesione europea rispetto all’alleanza militare transatlantica (questo era il senso della polemica dei dossettiani). In genere, insomma, la questione era proprio quella del «come» stare nell’Occidente nascente, non tanto del «se» starci.

 


Durante il centrosinistra, quello della fine degli anni 50 e dei primi anni '60, si comincia a parlare di "neoatlantismo". Cosa si intende? 
 

Se l’ipotesi neutralista svanì presto, lo stesso De Gasperi, in occasione della guerra di Corea, giudicò le posizioni statunitensi rischiose, e identificò definitivamente l’obiettivo di rafforzare l’Europa comunitaria, con la battaglia per la Comunità europea della difesa (Ced) e per crearvi attorno un embrione di comunità politica. Il paradigma della «comunità atlantica», con due pilastri paritari al suo interno, fu tipico dell’ultimo De Gasperi. Per decenni la Dc divenne un partito in cui al di sotto della riconferma continua della fedeltà atlantica, si muoveva un confronto di prospettive piuttosto vivace. Alcuni sposavano le tesi più rigide di un americanismo a tutta prova, sospettoso della distensione, intesa come cedimento nei confronti dell’antagonista sovietico, in contatto con ambienti burocratici e diplomatici. Altri (non solo pochi dissidenti, ma correnti cospicue del partito), intendevano invece articolare l’atlantismo, inserendovi una più marcata identità europea come visto sopra, oppure ancora con una maggiore libertà d’azione nazionale rispetto al Terzo mondo e alle nascenti identità nazionali autonome dai blocchi, o infine con una sottolineatura più decisa degli sforzi per attenuare la guerra fredda e ricostruire margini di convivenza in Europa. Non a caso dalla fine degli anni Cinquanta si cominciò a parlare di un nuovo paradigma «neoatlantico», che crebbe fino a divenire la linea essenziale del centro-sinistra. Era l’idea di affiancare a un buon rapporto bilaterale con gli Stati Uniti una politica nazionale italiana più autonoma e disinvolta nel Mediterraneo e a contatto con i paesi di nuova indipendenza (era qui meno centrale l’elemento europeo, perché soprattutto la Francia era alle prese con la difficile decolonizzazione). 

 


Come si esprimeva l'atlantismo di Aldo Moro?

Moro era legato all’idea che l’alleanza atlantica, oltre che garanzia di solidarietà militare e di vicinanza politica, fosse un elemento di stabilità nelle relazioni internazionali. Avendo responsabilità, come presidente del Consiglio (1963-1968) e poi come ministro degli Esteri (1969-1972; 1973-1974), tese sempre a sottolineare però come l’alleanza dovesse sostenere la distensione internazionale. E parlò progressivamente di una possibilità di utilizzare i nuovi spazi di comprensione in Europa (si pensi alla conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione) come gradini per un lento superamento della rigidità dei due blocchi. Poi coltivò una linea originale nei contatti bilaterali con i paesi extraeuropei, che di solito si definisce riduttivamente filoaraba, ma che in realtà era soltanto mirata a riequilibrare, con un contributo mediatorio, il legame preponderante Usa-Israele determinatosi dopo il 1967. Questo si specchiava nella linea di solidarietà nazionale interna, aperta a un inserimento più significativo del Pci nella democrazia.

 


Nel pieno della "guerra fredda" avviene la maturazione del PCI. Cosa porta Berlinguer a questa maturazione?

Il Pci di Berlinguer non è che avesse sposato l’atlantismo: la questione era più tattica. Sostanzialmente, mirando a costruire un socialismo nella libertà e quindi all’interno dello schema occidentale, il partito non voleva modificare al momento il bipolarismo e accettava la collocazione dell’Italia come fattore di stabilità (la famosa intervista a Pansa in cui si diceva di essere più sicuro al di qua della cortina di ferro). C’era poi la questione interna della legittimità a governare, sopra ricordata, che si era evoluta con il passaggio del Psi dalle origini filosovietiche, prima al neutralismo e quindi all’accettazione dell’alleanza difensiva. Berlinguer aveva vivo senso di questa necessità e superò quindi le tesi antiatlantiche. Negli anni Settanta, tra l’altro, il processo di distensione europea come abbiamo detto sembrava addirittura avvicinare la possibilità di una revisione progressiva delle grandi alleanze. Questa linea del Pci naturalmente non riuscì poi a evolvere definitivamente, per l’ambiguo persistere del legame con l’Urss, nonostante la loro critica del comportamento di Mosca e del Pcus (fin dagli eventi di Praga del 1968).

 


Durante gli anni del craxismo "trionfante" l'atlantismo assume una curvatura particolare (vedi Sigonella). È così? 

Beh, Craxi è assieme l’uomo che rappresenta agli occhi americani un solido riferimento anticomunista dopo le oscillazioni e i rischi della solidarietà nazionale, e colui che intende rilanciare una visione patriottico-nazionale, con mitologie garibaldine, che si vide al suo vertice nell’episodio di Sigonella. Non a caso ministro degli Esteri di Craxi (1983-1986) fu Giulio Andreotti, democristiano non certo di sinistra, che però continuò a incarnare un filone di politica estera italiana capace di questa articolazione, anche rispetto a casi delicati (sopra tutti, il conflitto israelo-palestinese). Giuliano Ferrara in un recente articolo, ha definito questa tradizione quella dei “serpenti”, contrapponendola alla recente ripresa di un atlantismo tutto d’un pezzo della coppia Draghi-Mattarella: il suo giudizio di valore è esattamente speculare al mio, ma la sostanza dell’analisi storica regge bene. 

 


Diamo uno sguardo alla Destra missina. È un atlantismo "tattico", in funzione anticomunista, oppure no? E oggi le destre che tipo di atlantismo esprimono? 

Indubbiamente esiste anche qui una complessità. La tradizione neofascista ha al suo interno un filone “rivoluzionario” che ha sempre vagheggiato un’Europa antiamericana e spiritualista, sulla scia di Evola o di altri pensatori radicali. Dal canto suo, la linea ufficiale del Msi, non dal 1949 (il partito allora votò contro l’adesione al patto), ma dai primi anni Cinquanta in poi, vide prevalere un anticomunismo che chiedeva di difendere la collocazione atlantica dell’Italia. Ma le oscillazioni non mancarono, soprattutto in epoca almirantiana. O anche poi con l’evoluzione in Alleanza nazionale. Non a caso la destra italiana post-1994 – non solo quella esplicitamente post-fascista – ha avuto parecchi ondeggiamenti, anche in rapporto al tema dell’equilibrio tra Europa e Stati Uniti. Dall’enfasi pro-Bush del Berlusconi dei primi anni 2000, che contribuì a spaccare l’Europa, si arriva alle simpatie per Putin nella Lega salviniana. Ora anche Giorgia Meloni nel suo libro uscito l'anno scorso scriveva: “La Russia difende i valori europei e l’identità cristiana”. Per cui l’attuale riequilibrio sembra avere basi piuttosto fragili.



Veniamo all'oggi. Abbiamo visto che la guerra in Ucraina ha fatto emergere posizioni diverse. Vede continuità o discontinuità rispetto alla storia italiana?

Ci sono degli elementi di continuità, certo. Abbiamo parlato della destra. Ricordiamo che una certa linea di atlantismo rigido è sempre esistita in Italia, quasi ansiosa di allinearsi ai voleri della superpotenza americana (spesso rappresentata da settori della diplomazia o dalla destra democristiana, o dai partiti laici minori). Ci sono anche elementi di discontinuità: a me ha colpito la conversione atlantista fortemente ideologica di una parte della sinistra, sia nella galassia post-comunista, sia soprattutto nel mondo erede di una sinistra libertaria e antiautoritaria, che mi pare abbia preso in modo un po’ rigido il discorso della difesa della libertà. Comunque, ho l’impressione che tutto il quadro dell’attuale dibattito pubblico in Italia su questi temi sia poco soddisfacente, perché si è consolidata una posizione mainstream che provoca un’artificiosa divisione manichea del mondo culturale e politico tra fedeli atlantisti ed europeisti e «putiniani» di varia osservanza. Scontando un approccio difficilmente accettabile e confondendo posizioni critiche sensate con tradimenti della patria. A scanso di equivoci, io penso che la guerra sia frutto di un’inaccettabile aggressione russa e che la difesa della libertà e dell’indipendenza ucraina sia un bene necessario. Ma questo non comporta condividere tutte le scelte anche ambigue o sbagliate dell’Occidente nel post-1989, e non comporta soprattutto sostenere un approccio che sembra quasi voler prolungare la guerra e le sue tragedie, senza applicare tutti gli sforzi diplomatici per la riduzione della violenza e la creazione di una via d’uscita dall’impasse.

 

 

È possibile oggi un nuovo "neoatlantismo"?

Sarebbe del tutto auspicabile, se lo intendiamo come posizione consapevole di ciò che ci accomuna alla democrazia americana, ma non dimentica di articolazioni e complessità. Mi par difficile seguire Biden fino a sostenere che occorra condurre la resistenza ucraina fino a una «vittoria» sulla Russia e un cambio di regime a Mosca. Quale massiccio dispiegamento di violenza sarebbe necessario? Rispetto a un quadro complicato dalla minaccia dell’arma nucleare, poi… Come mi è capitato di scrivere su «Il Mulino», questa visione della vittoria «totale» è frutto di un’estensione della logica primo-novecentesca dei conflitti, del tutto inapplicabile al mondo più complesso del post-guerra fredda. E poi, come non vedere che l’Europa e l’Italia hanno collocazioni geopolitiche e interessi non del tutto coincidenti con quelli di Washington? Non è auspicabile che si crei una voce europea comune capace di bilanciare il ruolo degli Stati Uniti? Quindi una certa eredità “neoatlantica” e una prudenza ispirata alla logica primaria della riduzione della violenza (senza nessun cedimento al male) sarebbe oltremodo necessaria anche oggi. In questo, papa Francesco mi pare abbia ragioni da vendere, oltre tutte le denigrazioni che sta incontrando. Certo, non basta riecheggiare il suo magistero, ma occorrerebbe avere l’audacia di seguirlo politicizzandolo compiutamente. Non mi pare di vedere però molte forze capaci di provare a fare questo, nell’attuale panorama politico italiano.

 

Come si svilupperà l'atlantismo in Europa?

Questo non è facile dirlo: dopo anni di sostanziale perdita di valore e centralità della Nato (si era parlato di una sua «morte cerebrale»), Putin l’ha improvvidamente (dal suo punto di vista) rilanciata con l’insensata mossa militare di febbraio, provocando una coesione apparente impensabile qualche mese prima. Quanto l’enfasi questi mesi (con i dibattiti sull’ulteriore allargamento) sarà duratura, si vedrà. Io continuo a pensare però che occorra rafforzare all’interno della solidarietà ideale e pratica dell’Occidente un polo europeo capace di responsabilità autonoma e anche di far valere i propri principi (a volte diversi da quelli statunitensi, non dimentichiamolo). Basta aver seguito le vicende internazionali degli ultimi anni (guerra al terrore, esportazione della democrazia ecc.) per comprenderlo.