Regina Coeli, Padre Vittorio

Ascolto, vicinanza e senso di Carità verso il detenuto, indipendentemente dal reato commesso

Volontari e cappellani svolgono un lavoro fondamentale nel penitenziario romano: aiuto e supporto per le necessità dei reclusi con forte senso di solidarietà e grande rispetto verso la dignità della persona

Ascolto, vicinanza e senso di Carità verso il detenuto, indipendentemente dal reato commesso
Cortesia Associazione Vo.Re.Co
Ascolto, vicinanza e senso di Carità verso il detenuto

Nella storia dell’umanità la Bibbia racconta che a finire in prigione sono stati anche molti che erano vicini a Dio: Giuseppe, Geremia, Daniele, Giovanni Battista, Pietro, Giovanni, Giacomo, Paolo, e persino lo stesso Gesù. Tutti quanti hanno sperimentato le sbarre della prigione, la sofferenza della separazione dai propri cari: oscurità, oppressione e solitudine. Nonostante il carcere sia luogo di grandi sofferenze, pagato il conto con la giustizia, una volta usciti non ci si sente più del tutto liberi. Il pregiudizio della società, infatti, incapace di perdonare fino in fondo, chiude le porte a ogni possibilità di cambiamento per chi si trova nella condizione di ex detenuto, una condizione pesante che conduce, ingiustamente, ad una condanna perpetua. Papa Francesco durante l’udienza del 2016 illustra le opere di Misericordia citando il Vangelo di Matteo: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero nudo, profugo, malato, in carcere e mi avete assistiti”. E ricorda i fratelli in carcere: "Non possono esserci condanne senza finestre di speranza – aggiunge – che rappresentino una via d'uscita per una vita migliore”.

Secondo fonti del ministero della Giustizia, la popolazione carceraria nella casa circondariale di Regina Coeli accoglie 1019 reclusi, di cui 534 stranieri provenienti da realtà diverse, tutti sotto la protezione del mantello della Virgo Maria. L’Istituto penitenziario si trova nel cuore della Città Eterna, nel rione di Trastevere, a soli 1200 metri di distanza da San Pietro. I romani, per esorcizzare la drammatica situazione di sofferenza all’interno del penitenziario, ironicamente gli hanno dato l’appellativo di “artigianale Bottega” o il signorile “Hotel trasteverino”.

Via della Lungara è stata visitata da quattro pontefici: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, e Papa Francesco. La visita storica di Giovanni Paolo II durante l’anno Giubilare fece risuonare la parola “misericordia”, antica ma sempre nuova. Le cronache di Roma ci raccontano che il momento più toccante della visita fu dopo la messa in rotonda a cui avevano assistito trecento detenuti in cui il pontefice chiese pubblicamente al parlamento italiano “Un gesto di clemenza in nome di Gesù, anche lui carcerato”. Indipendentemente dalla fede, i temi della pena e della giustizia devono interessare la persona in quanto riguardanti la dignità dell’essere umano.

Gandhi diceva che “per avere il polso di una comunità è sufficiente dare uno sguardo là dove essa racchiude le sue miserie”. I detenuti soffrono la perdita di libertà, della dignità, ambienti difficili, vergogna, senso di colpa, depressione e ansia. Ma si aspettano anche delle buone notizie; di essere accettati, compresi e di avere l'opportunità di fare ammenda per ciò che hanno fatto. Per i cristiani che si sentano chiamati ad andare nelle carceri per visitare e assistere i detenuti sarebbe come dare un salto di qualità, un’unica opportunità pastorale, quello di incontrare il Gesù che passa, le ferite più profonde dell’umanità.

“Il carcere, in quanto luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, ha molto bisogno di attenzione e di umanità. È un luogo dove tutti, Polizia Penitenziaria, Cappellani, educatori e volontari, sono chiamati al difficile compito di curare le ferite di coloro che, per errori fatti, si trovano privati della loro libertà personale… Tuttavia, a causa della carenza di personale e del cronico sovraffollamento, il faticoso e delicato lavoro rischia di essere in parte vanificato”

I volontari i cappellani, gli educatori e tutta la direzione del penitenziario è fondamentale all’interno delle carceri, che cercano ogni giorno di supportare la persona detenuta attraverso diverse attività di confronto, condivisione e di amicizia in attesa della “fine della pena”. La figura del Cappellano penitenziario, iscritta nel nostro sistema legislativo, ad esempio, svolge una missione impegnativa che non si riduce al mero buonismo cattolico. È una vera e propria istituzione e come tale va considerata poiché assicura la dimensione spirituale che è una prerogativa dell’essere umano. Papa Francesco: “Prendersi cura dei detenuti fa bene a tutti. Sai cosa penso io, quando entro in un carcere? Perché loro e non io?”

Abbiamo incontrato Vittorio Trani, Cappellano da 45 anni del carcere di Regina Coeli, autore del libro: “Come è in cielo, cosi sia in terra”

Padre Vittorio Trani Cortesia Associazione Vo.Re.Co
Padre Vittorio Trani

Padre Vittorio, qual è il motivo per cui una persona dovrebbe visitare il carcere e i detenuti. A cosa andiamo incontro?
La visita ad un detenuto rappresenta una forma di maturità sociale. Un cittadino che condivide l'esistenza accanto all'altro che finisce in carcere è un soggetto che ha una forte solidarietà e un grande rispetto verso la dignità della persona. L’impegno che mette la società nei confronti delle persone che hanno commesso reato è un impegno in termini di energia, di forza, ecc. che deve produrre del positivo. Se la pena rimane soltanto un fatto punitivo difficilmente si riesce a costruire una linea nuova dentro la persona che ha sbagliato. Quindi nasce una necessità duplice: la solidarietà, l’aiuto e la vicinanza fino alla “fine della pena”, in uno sforzo continuo di aiuto verso l’altro.

Di cosa si occupa nello specifico Vo.Re.Co all’interno del carcere di Regina Coeli?
L’Associazione è composta da due tronconi: quelli che lavorano all'interno del carcere e quelli che lavorano nel Centro di accoglienza che si trova accanto al penitenziario. Nel Centro diamo una mano alle persone che vivono in mezzo alla strada, lungo il fiume, sotto i ponti, intorno a San Pietro a cui offriamo servizi essenziali come ad esempio provvedere alla colazione e alla cena per tutti in ogni giorno dell’anno. Durante la settimana diamo servizi fondamentali (medico, oculista, medicine, Caf, avvocato, psicologo, analisi...). Inoltre, distribuiamo i pacchi di viveri agli indigenti e a coloro che alloggiano in dormitorio. I detenuti che escono dal carcere, non hanno famiglia o punti di appoggi esterni, in genere vengono accolti per un certo periodo per dare la possibilità di organizzarsi all’esterno.

...invece i volontari che lavorano in carcere?
Per un sacerdote contare sulla collaborazione dei laici all’interno del carcere è molto importante, e questo rende la comunità viva. I volontari hanno un impegno settimanale e ognuno ha in affido un settore proprio. Incontrano i detenuti, cercano di dare una risposta ai bisogni materiali e organizzano il colloquio. Ascolto, vicinanza e senso di Carità, soprattutto per coloro che non hanno una famiglia, diventano molto importanti, rappresentando per i detenuti uno sfogo e un sollievo importantissimi. Poi c’è l’aspetto religioso curato insieme al Cappellano. I volontari sono maggiormente, sacerdoti, catechisti e suore. In questi giorni abbiamo terminato un concorso letterario con la premiazione dei vincitori. Due giornalisti stanno facendo un corso di giornalismo, una suora, insieme ad altri volontari, nel periodo natalizio fanno delle attività con i detenuti che hanno problemi di tossicodipendenza; un altro gruppo, invece, si occupa di fare animazione e organizzare giochi.

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Padre Vittorio, i detenuti come trascorrono in carcere le loro giornate?
L’istituto strutturalmente è figlio del momento storico in cui è stato costruito: il 1881. A quel tempo, lo schema degli edifici destinati alle prigioni era impostato sul modello statunitense (protestante), che vedeva il momento della carcerazione come un momento di redenzione. In quegli anni si cominciò a chiamare il carcere anche con il nome di penitenziario, in cui il detenuto doveva essere come un monaco, chiuso nella sua cella, sempre in silenzio con la scelta di un piccolo spazio esterno e basta. Regina Coeli è figlio di quella visione: come struttura venne costruito secondo quei canoni, ma non venne mai applicata la severa organizzazione interna delle carceri americane. Attualmente il detenuto, se è impegnato in qualche attività, rimane nel suo settore. Da qualche anno abbiamo sistemato gli scantinati, prima abbandonati, trasformandoli in biblioteca, spazi dove si possono fare delle attività minime perché non tutti vi hanno accesso. Quella di usufruire di spazi fisici da destinare ad alcune attività dei detenuti è una conquista recente. L'Italia, per questo ritardo, è stata punita dall'Europa, pertanto adesso, per colmare questa lacuna, sono stati concessi ai detenuti dei tempi più lunghi di permanenza fuori dalla cella.

Lei assiste da circa 50 anni i detenuti in carcere. Dall’inizio del suo impegno quanto è cambiata la legislazione?
Sulla carta tantissimo, nella pratica un po' di meno. Le aperture ci sono state, ma si fatica poi a tradurle in linee operative. Abbiamo assistito ad un cambiamento radicale dal 1975 al 1986, anni in cui sono state introdotte le misure alternative con tanti provvedimenti interni: ad esempio l’introduzione di educatori e psicologi, figure importanti all'interno del carcere. Anche nell’impostazione generale sono stati fatti passi straordinari introducendo il concetto di dignità della persona, mettendo al centro dell’attenzione generale il tema della rieducazione Tuttavia, siamo ancora lontani da quello che fu l'intento della Costituzione. Il carcere ancora si presenta come unica risorsa a disposizione dello Stato di fronte a chi commette un reato. Qualsiasi reato. Non ci sono percorsi alternativi.

Mi faccia un esempio?
Prendiamo i tossicodipendenti. La gran parte di essi sono persone che non sanno riconoscere la mano destra dalla mano sinistra. L’unica cosa che, come società, sappiamo fare è attivare il percorso detentivo di riabilitazione. Altrettanto vale per le persone con problemi mentali. Quindi le carceri non sono utilizzate con il significato originario che i nostri padri costituenti hanno dato: mancano percorsi adatti che diano più completezza ai percorsi individuali.

In carcere si riesce a cambiare vita?
In carcere la persona vive un momento della sua esistenza di grande difficoltà. Il carcere in quanto tale ha poco da dire, invece ci sono esperienze personali di cambiamento provocate dalla condizione di essere detenuti, quali: la mancanza degli affetti, l’impossibilità di assistere alla nascita di un figlio, la sofferenza e quant'altro. Ci sono tante persone che dopo ripetute carcerazioni cominciano ad avere la nausea del carcere. Questo li stimola a scegliere strade diverse. Poi, c'è il discorso della fede che si fa avanti, è qualcosa di particolare all'interno di questa realtà. In genere lo stato di difficoltà spinge un po' il detenuto a ripensare tutto il senso della sua esistenza. Sotto questo profilo, come operatori pastorali, dobbiamo essere capaci di seminare con molta libertà, senza pretendere nulla e con grande rispetto. Perché ogni gesto, ogni parola può diventare il “La” della Provvidenza, un cammino di riscoperta di un proprio percorso interiore. Il Signore sa come agire.

Ci sono casi di conversione?
Tanti. Nella sofferenza il ritorno al Signore è un’esperienza più frequente di quanto si possa pensare. Ospedali, carceri sono spazi dove si è portati ad alzare lo sguardo verso il cielo. Faccio riferimento, a proposito, ad un piccolo episodio. Un pomeriggio, camminavo per Piazza Venezia spensieratamente. Da lontano ho visto un giovane con la sua ragazza che, ad un certo punto, allarga le braccia e mi corre incontro. Per un attimo ho avuto paura, ma poi, abbracciandomi, mi ha ringraziato. Parlandomi mi raccontava: “Lei forse non ricorda, ma io sono stato a Regina Coeli per 7 giorni. Ero arrivato il giovedì sera nella terza Sezione. La domenica mattina i compagni mi invitarono a venire a messa. Sono sceso in Rotonda dove già Lei ci aspettava. Appena entrato, mi sono appoggiato con le spalle al cancello. Volevo far capire a tutti i presenti che stavo facendo lo spettatore, perché queste cose non mi riguardavano.

Quindi?
Ad un certo punto mi sono soffermato su una frase di quell’omelia. Lei disse - Se preghiamo con Fede, affidandoci a Dio veramente, Lui sa come dipanare i nostri problemi” -. E continuò raccontandomi che il pomeriggio, tornando in cella, si mise a pregare, a pregare intensamente. Dopo due giorni gli arrivò il foglio di scarcerazione. Ecco, all’interno di questa realtà la vicinanza, la frase ascoltata, una pacca sulla spalla possono cambiare la situazione delle persone e dare la luce della Speranza che può portare ad un cambiamento. Dio si serve di tutto.

Papa Francesco celebra la Santa Messa in Cena Domini a Regina Coeli Vatican Media/LaPresse
Papa Francesco celebra la Santa Messa in Cena Domini a Regina Coeli

Padre Vittorio i casi di suicidio sono molto noti nelle carceri. Perché si arriva a questi casi estremi?
Il carcere diventa lo spazio dove maturano situazioni particolari. Il suicidio lucido è raro. Invece, il suicidio che matura per situazioni che si vivono all'interno del carcere è, purtroppo, frequente. Una condanna pesante o una situazione familiare di grave abbandono, di allontanamento (moglie o compagna che si lasciano) portano il detenuto ad uno stato di profonda fragilità incapace di reggere l’onda d’urto, spingendo a commettere atti estremi. Anche l’emulazione è un argomento molto delicato e da tenere presente all’interno delle carceri.

Oggi la metà dei detenuti nel carcere di Regina Coeli è di origini straniere. Che esperienza ne trae?
Regina Coeli e San Vittore di Milano sono le carceri di prima accoglienza che, a partire dagli anni 90, hanno la maggioranza di detenuti di provenienza straniera. A Roma c'è una concentrazione enorme di persone che sono dislocate nelle periferie e che non hanno documenti, non hanno possibilità di lavoro e sono un po' alla mercé della situazione, anche di coloro che vogliono utilizzarli in un certo modo. Abbiamo una massa di persone che arrivano in carcere dal territorio e che interpellano la società perché si trovano a vivere situazioni molto delicate. Prima della caduta del Muro di Berlino avevamo il 30% di Nord Africani; poi dal ’90 fino al 2000 la popolazione carceraria era di origine albanese; dal 2000 rumena. Chi arriva qui, si accorge che la popolazione carceraria è composta da persone che provengono da oltre 60 nazioni, tanto da far sembrare il penitenziario una piccola ONU. La maggioranza vive una situazione di isolamento delicatissima in carcere perché non hanno famiglia e hanno svariate esigenze. Anche dal punto di vista pastorale abbiamo dovuto adeguarci alla situazione: abbiamo tracciato un percorso molto preciso, siamo vicini all’Uomo, dobbiamo fare in modo di camminare insieme, dare sostegno. Poi viene il resto.

In che maniera vivrete le feste natalizie?
Ci sono delle piccole iniziative che sono molto importanti. C’è l'organizzazione dei presepi in ogni settore; l’istallazione del grande presepe nella rotonda che viene da Napoli. Il giorno di Natale è prevista la visita degli zampognari che animeranno anche la nostra messa, facendo poi il giro per ogni settore del carcere. Per la vigilia di Natale regaliamo ad ogni stanza un panettone accompagnato da un piccolo biglietto di auguri di cappellani e volontari, come segno di vicinanza, facendo il giro per tutte le circa 300 stanze. Nel periodo natalizio fino ad Epifania nei settori organizziamo delle tombole, riunendo, con l’aiuto dei volontari, i detenuti a gruppi. Invece il giorno della Befana facciamo trovare la calza sulla porta di ogni stanza. In questo periodo stiamo organizzando, un paio di sezioni per volta, anche ‘le pizzettate’. Tutto questo per creare vicinanza, fratellanza, un minimo di calore umano, nel periodo dell’anno in cui il calore non può essere negato a nessuno.

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