L'analisi

Il litio italiano può cambiare gli equilibri dell’economia mondiale

Intervista a Giuseppe Sabella

Il litio italiano può cambiare gli equilibri dell’economia mondiale
Ansa
Miniera di litio

Uno studio recente pubblicato da quattro ricercatori del CNR ci dice che il sottosuolo italiano è ricco di litio, in particolare in Toscana, Lazio e Campania. Si tratta di un’indagine basata sull’analisi di dati disponibili e nuovi campioni di roccia. Non è escluso, peraltro, che vi siano altre zone ricche di questo prezioso metallo perché vi sono regioni inesplorate come Sardegna e Calabria, oltre che la zona appenninica e adriatica dove ci sono i giacimenti di idrocarburi. Si tratterebbe, naturalmente, di una novità importante per il nostro Paese data l’importanza che il litio ha sia per la produzione di batterie elettriche – e quindi per il nascente comparto della mobilità elettrica – oltre che per i settori farmaceutico e delle energie alternative. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova.

Sabella, che conseguenze potrebbe avere questo studio del CNR? Cosa significherebbe concretamente per il nostro Paese?
Se le esplorazioni confermassero questo importante studio, le implicazioni sarebbero rilevantissime. Stiamo parlando di una materia prima fondamentale per le nuove tecnologie e per la cosiddetta transizione ecologica ed energetica. Il nostro Paese, storicamente, non è mai stato ricco di materie prime. Le ha sempre importate e deve la sua fortuna industriale alla sua capacità ingegneristica di trasformarle. Il litio italiano potrebbe dare inizio a una storia diversa, a un Paese più autonomo e a un Paese, anche, esportatore di materie prime. Ricordiamoci che i due rigassificatori acquistati recentemente da Snam e che andranno a produrre metano dal gas liquido naturale hanno caratteristiche tali per cui il nostro Paese si appresta a diventare hub energetico del Mediterraneo. In tutto il mondo, vi sono 12 rigassificatori con quelle potenti caratteristiche. Quindi, il flusso di gas che sarà prodotto sarà ingente e non soddisferà soltanto i fabbisogni italiani. Gas e litio, insieme alle Terre Rare, sono le materie prime del presente e del futuro prossimo. Per tornare al litio, consideriamo anche che, in ambito finanziario, lo chiamano “oro bianco”. E ci sarà pure un motivo.

E qual è questo motivo?
Intanto, si tratta di una materia prima che ha un costo considerevole – 80 euro al kg – e che fino a oggi ha visto l’Europa dipendere completamente da Australia, Cina e USA in particolare ma anche dal Sudamerica (Cile, Brasile e Argentina). Tant’è che da questa dipendenza ha origine lo scetticismo di autorevoli studiosi e analisti – che personalmente non condivido – sulla transizione energetica europea e sui grandi obiettivi del Green Deal, l’auto elettrica in particolare ma anche l’energia rinnovabile. Le indicazioni che ci arrivano dal CNR ci dicono, invece, che la trasformazione dell’industria europea ci renderà semmai più autonomi dalla Cina e non più dipendenti.

Ci spieghi meglio questo punto
Secondo questo pensiero scettico, per avere un’industria più sostenibile e meno impattante a livello di inquinamento, l’Europa starebbe andando incontro a una cessione di sovranità tecnologica soprattutto nei confronti di Pechino, da cui dipendiamo non solo per il litio ma anche per le Terre Rare che, insieme al litio, sono il motore delle nuove tecnologie digitali. L’Europa le importa per il 98% dalla Cina che, per il momento, ne possiede il 40% delle riserve mondiali. Possiedono Terre Rare anche USA, Vietnam, Brasile, Russia, India, Australia, e Groenlandia. Si stima che anche il canale di Sicilia sia ricco di Terre Rare. Sono così chiamate perché di difficile estrazione, non perché siano rare in sé. Se, tuttavia, i grandi costruttori dell’auto hanno così tanto investito per lo sviluppo della mobilità elettrica e addirittura dicono – in particolare Stellantis e Volkswagen – che arriveranno prima del 2035 a fermare la produzione di auto col motore endotermico, non possiamo pensare che questi si siano condannati alla loro resa nei confronti dell’industria cinese: evidentemente sanno dove andare ad approvvigionarsi. Ed evidentemente sanno di poter fare i conti su litio e Terre Rare in quantità tali da non trovarsi in difficoltà con le loro produzioni.

Sta dicendo che le critiche alla Commissione Europea per il Green Deal e per il suo pacchetto attuativo “Fit for 55” – che appunto prevede la sola vendita di autoveicoli con motore elettrico dal 2035 – sono ingiustificate?
Sì, sto proprio dicendo questo. Si tratta di misure e provvedimenti che sono stati voluti dalla grande industria europea. Ora, i politici possono prendere dei granchi, spesso si trovano a maneggiare situazioni di cui non hanno grandi competenze e conoscenze dirette. Ma non è il caso degli industriali, non possiamo pensare che Tavarez – per fare un nome – sia impazzito. Tavarez sa molto bene dove andare ad approvvigionarsi e sa molto bene che la mobilità elettrica è la strada per mantenere e crescere la forza commerciale di Stellantis, in particolare in Europa ma non solo. Poi, certo, il pacchetto “Fit for 55” lascia qualche dubbio: perché tagliare fuori il diesel di nuova generazione? È tecnologia prettamente europea e gli studi ci dicono che è poco impattante a livello ambientale. Questa scelta è indubbiamente qualcosa di poco comprensibile.

Va bene che i grandi costruttori volessero queste misure, ma le piccole imprese? Non c’è il rischio che restino escluse da questa transizione spinta?
Naturalmente, è vero che le piccole imprese soffrono queste trasformazioni indotte: il punto è che dentro le grandi catene del valore ci sono anche loro e che tutti devono stare al passo della trasformazione dell’industria. Se le catene del valore si accorciano, come sta succedendo, i grandi produttori devono poter fare conto sui loro fornitori locali, su chi vende loro i componenti. Ecco perché c’è bisogno che tutti stiano allineati. Peraltro, oggi vi sono anche diverse forme di finanziamento per le riconversioni industriali. Certo, si tratta di processi faticosi e complessi. Il punto è che questa è l’unica possibilità che abbiamo per recuperare il nostro ritardo industriale nei confronti di Cina e USA. In buona sintesi, o trasformiamo la nostra industria e torniamo a competere con chi è più avanti di noi, o moriremo schiacciati dallo strapotere americano e cinese.

Cina e USA sarebbero più avanti dell’Europa nella transizione ecologica ed energetica? Non è forse l’Europa che ha spinto più di tutti in questa direzione?
L’Europa spinge per la trasformazione – prima con Industry 4.0 poi col Green Deal – per recuperare i ritardi della sua industria rispetto a quella americana e cinese. Un paio di anni fa, il McKinsey Global Institute ci diceva che l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale sono stati realizzati da imprese americane e cinesi. Come si evince, l’industria europea è rimasta indietro. Sul digitale, ma anche sulle energie rinnovabili, Cina e USA sono avanti. E questa è la ragione per cui Germania, Francia e Italia – che sono la piattaforma industriale europea – hanno voluto il Green Deal e il Next Generation EU, per modernizzare e rilanciare le filiere continentali.

In alcune sue recenti pubblicazioni, lei ha parlato della correlazione tra la transizione energetica europea e la crisi ucraina. Ci può spiegare meglio?
L’Ucraina ha probabilmente il maggior potenziale di litio dell’intera regione europea, insieme alla Serbia. Importanti ritrovamenti di litio sono stati individuati soprattutto attorno all’area di Mariupol, la città portuale del Donbas oggi dilaniata dai bombardamenti russi. Inoltre, l’Ucraina orientale è la seconda più grande riserva d’Europa di gas naturale; in Luhansk e Donetsk vi sono enormi giacimenti di shale gas; in Crimea, già annessa dal 2014, vi sono rari giacimenti energetici offshore. E, diversamente da come avrebbe voluto Putin, l’Ucraina ha scelto da anni di gravitare in orbita europea. Difatti, come vi dicevo già a suo tempo, a luglio dell’anno scorso (2021) tra Bruxelles e Kyiv è stato firmato un partenariato strategico sulle materie prime. A novembre 2021, come riportato dalla stampa specializzata e come confermato dalla stessa azienda, la European Lithium Ltd – società di esplorazione e sviluppo proprietà minerarie che ha sede a Vienna – si è accordata con la Petro Consulting Llc – azienda ucraina con sede a Kyiv – che dal governo locale ha ottenuto i permessi per estrarre il litio dai due depositi che si trovano a Shevchenkivske nella regione di Donetsk e a Dobra nella regione di Kirovograd, vincendo la concorrenza dell’azienda cinese Chengxin. Era il 3 novembre 2021. Solo tre mesi dopo, Putin scatenava la guerra in Ucraina. Putin ha coperto di retorica le vere ragioni di questa guerra: con la fine della globalizzazione o perlomeno di questo ciclo, tutte le grandi potenze sono “a caccia” di materie prime. Da qui, anche, i problemi dell’inflazione. Putin vuole le materie prime dell’Ucraina, da una parte per mettere in difficoltà l’Europa, dall’altra per proporsi alla Cina come primo fornitore. Chiaro che la Cina, valendo il 34% della produzione manifatturiera mondiale, avrà sempre bisogno di materie prime in modo continuo e in grandi quantità.

Per concludere e per tornare al tema del litio, le batterie elettriche sono davvero la strada per rendere più sostenibile l’industria e la mobilità in particolare o, come dice qualcuno, spostano soltanto il problema dato che poi finiscono in discarica?
Certo, in questo momento è così. Le batterie, una volta esaurita la loro funzione, non vengono riciclate. Credo che in futuro, invece, lo saranno. Siamo solo all’inizio della transizione della mobilità, anche il tema delle infrastrutture e dei punti di ricarica è aperto. Da questo punto di vista, c’è molto da fare. Bisogna anche prepararsi per gestire le inevitabili criticità occupazionali: la trasformazione genererà molti flussi in uscita. Ma creerà anche molto lavoro nuovo. A ogni modo, una cosa è certa: non possiamo pensare di costruire un’industria più sostenibile e di ritrovarci con meno occupati. La transizione deve essere sociale per essere giusta, per essere quella Just Transition di cui parlano i programmi europei. In parole povere, la Transizione deve crescere la nostra capacità di produrre ricchezza. Ma, soprattutto, deve tornare a distribuirla.